Originale: Richardfalk.com
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13 ottobre 2012

Speranza, saggezza, legge, etica, e spiritualità in rapporto alle uccisioni e alla morte: i dilemmi siriani rimangono
di Richard Falk
Traduzione di Maria Chiara Starace

Nella valutazione degli avvenimenti politici la maggior parte di noi si basa su fonti fidate, sul nostro orientamento politico complessivo, su quello che abbiamo imparato dall’esperienza passata, e dalla nostra personale gerarchia di speranze e di paure. Indipendentemente da quanto siamo attenti e assennati, arriviamo ancora a conclusioni di estrema incertezza che fanno propendere i nostri giudizi che riflettono pregiudizi apriorisitci e di interpretazione.  Come i militaristi tendono a preferire il puntare sulla forza, per risolvere dispute tra e all’interno di stati sovrani, così coloro che sono stanchi della forza e i cittadini pacifisti, cercheranno di risolvere perfino le situazioni più estreme  di conflitto spaventoso insistendo sulle capacità della diplomazia non-violenta.

Alla fine, perfino nelle democrazie liberali, la maggior parte di noi si basa fin troppo su valutazioni piuttosto inattendibili e manipolate offerte dai mezzi di informazione per formare i nostri giudizi sugli eventi mondiali in corso. Come dovremmo comprendere la terribile prova attuale di violenza in Siria? E’ quasi sicuro che le percezioni particolarmente estremizzate del conflitto trasmettano false impressioni unilaterali: o le atrocità e la violenza sono opera di un regime sanguinario che ha una storia di oppressione brutale, oppure  quella sventurata nazione è diventata teatro di una guerra per procura tra estranei irresponsabili, con forti sfumature  religiose di tipo settario della divisione regionale tra Sunniti e Sciiti, e complicata ulteriormente da vari allineamenti dovuti alla geopolitica e alle segrete ambizioni di Stati Uniti, Russia, Israele, Iran, Arabia Saudita, e di altri paesi.  Indubbiamente la verità si trova in un qualche punto tra i due estremi, con molte ambiguità, interferenze segrete, e incognites eterogenee che indeboliscono la nostra capacità di raggiungere una qualsiasi comprensione “oggettiva” e che portano molti a non tenere conto del fatto che esistono mani estremamente sporche di tutti i principali partecipanti, visti e non visti, così da permettere una chiara posizione partigiana di stare a favore o contro.

Le difficoltà sono perfino maggiori. Se, invece, cerchiamo di interpretare il conflitto da tutte le angolature, con il maggiore distacco possibile, il risultato sarà, probabilmente, paralizzante per quanto riguarda l’azione. C’è troppa incertezza, segretezza, e complessità perché nasca la chiarezza necessaria a dar forma alla politica con una qualsiasi sicurezza, e senza la sicurezza che le uccisioni continuino o che si permetta che continuino, non si può arrivare a nessuna conclusione responsabile. In effetti soltanto la schematizzazione, cioè le interpretazioni estremiste, sono in grado di superare la passività, ma a caro prezzo.  Presumibilmente, in relazione al vortice siriano, la passività funziona come virtù politica, o, in altre parole, come il minore dei mali.

In una situazione del genere, supponendo di ripudiare agende programmi per procura e quelle geopolitiche come basi auspicabili per determinare il futuro della Siria, che cosa dovremmo sperare?  Una rapida fine della violenza, una qualche specie di accordo attualmente inimmaginabile tra le due (o le molte) parti in lotta, l’ammissione da parte delle varie terze parti ‘interessate’ che i loro scopi non si possono raggiungere a costi accettabili, l’abdicazione di Bashar al-Assad, un embargo per le armi  attuato in modo uniforme, la nascita assolutamente non plausibile di una democrazia costituzionale, compreso il rispetto per i diritti delle minoranze. Soltanto comporre una lista di desideri come questa sottolinea l’apparente mancanza di speranza di risolvere la situazione in maniera accettabile, e tuttavia sappiamo che alla fine in qualche modo sarà risolta.

Dalla prospettiva delle fazioni e dei partecipanti siriani, essi hanno versato così tanto sangue che probabilmente sembra inaccettabile e inattendibile  a questo punto essere aperti a qualsiasi offerta di riconciliazione, e quando l’unica speranza è o di una vittoria senza condizioni per se stessi o lo stermino dell’altro. E con questi atteggiamenti estremistici, non sorprende che i cadaveri continuino ad accatastarsi! Che cosa dobbiamo fare quando ogni traiettoria realistica si aggiunge a un risultato che è già tragico?

Il mio approccio in queste situazioni di conflitto interno è stato di opposizione e di diffidenza delle finte umanitarie e di democratizzazione di coloro che consigliano l’intervento per la causa seducente della ‘responsabilità di proteggere.’ (R2P) e di altre logiche liberali che appoggiano l’intervento militare, ciò che Noam Chomsky chiama efficacemente ‘umanesimo militare’. In situazioni concrete, tuttavia, come erano quelle del Kosovo nel 1999, della Libia nel 2011, e della  Siria oggi, consigliare una replica internazionale passiva ai crimini più gravi contro l’umanità e alle atrocità del genocidio sembrerebbero negare i più elementari legami etici di solidarietà umana in un mondo globalizzato, collegato in rete,  legami che potrebbero risultare indispensabili in un prossimo futuro se dobbiamo raggiungere la sostenibilità ambientale prima che il pianeta ci riduca in carbone.

Ci sono problemi strutturali che sorgono dal carattere statalista dell’ordine mondiale nell’era post-coloniale che rendono le scelte politiche in queste situazioni di aspro conflitto interno tragicamente difficili. Da una parte c’è la logica statalista che dota i governi territoriali di autorità incondizionata per sostenere la loro unità di fronte a sfide di insorti, un principio politico che ha avuto sostegno costituzionale nell’Articolo 2(7) della carta dell’ONU, che proibisce un intervento dell’ONU in caso di conflitti interni. Questa logica statalista è profondamente confusa e contraddetta dalla legittimazione del diritto inalienabile e di emancipazione dell’autodeterminazione conferita a ogni ‘popolo’ e non ai governi. Sullo sfondo, ci sono anche i vari ricordi collettivi e uniformemente brutti dei paesi non-occidentali, del periodo di dominio coloniale, e sospetti contemporanei ben fondati che gli interventi umanitari, per quanto ben descritti e in modo intenzionale, rappresentino tentativi di rinascita colonialista, sia in senso ideologico che comportamentale.

Dall’altra parte della recinzione politica, c’è una strana coalizione di internazionalisti liberali che sinceramente considerano l’intervento come uno strumento essenziale  per la promozione di un mondo più umano, insieme a cinici strateghi della geopolitica che considerano le zone di conflitto, specialmente quelle dove esistono vaste riserve petrolifere, come obiettivi di occasioni per allargare gli interessi dell’Occidente. Inoltre si crea una confusione di norme per la tendenza della prassi  da parte dell’ONU che si è capito abbia attribuito competenze illimitate al Consiglio Nazionale di Sicurezza di interpretare la Carta come desidera.  (Vedere la decisione della Corte mondiale nel caso Lockerbie che per coincidenza aveva coinvolto la Libia).* A questo riguardo, la retorica dei diritti umani è stata usata per aggirare i limiti della carta che restringono la competenza dell’ONU a occuparsi dei conflitti interni agli stati: per esempio, il Consiglio di Sicurezza del 2011 autorizzava una ‘Zona di interdizione ai voli aerei’ in Libia, che è stata immediatamente trasformata dagli interventisti della NATO in un mandato de facto per un ‘cambiamento di regime’; l’intera iniziativa è stata  convalidata per molti difensori di questa iniziativa allargata, perché liberava la Libia da una dittatura criminale; altri hanno approvato, credendo che l’operazione implicasse invocare la norma R2P, (Responsability to protect)** e ancora altri hanno approvato l’intervento sulla base dei suoi ipotizzati successi della costruzione di uno stato dopo il conflitto, evitando il caos, e specialmente gli sforzi molto notevoli per basare il modo di governo della Libia su procedimenti democratici. Dato che la situazione continua a evolversi, c’è una controversia riguardo al modo di valutare gli aspetti positivi e negativi della Libia del dopo-Gheddafi.

Nel valutare le nostre posizioni a favore o contro un dato intervento, dovrebbe contare il nostro senso delle motivazioni strategiche? Per esempio, l’intervento in Kosovo era stato almeno parzialmente motivato dal desiderio che c’era a Washington e tra molte altre elite europee di dimostrare che la NATO era ancora utile malgrado la fine della Guerra Fredda e la scomparsa della minaccia sovietica che era stato il primo motivo della alleanza. Queste considerazioni strategiche sono importanti se in realtà al popolo del Kosovo è stato risparmiato il tipo di pulizia etnica sopportato non molto tempo prima dal popolo bosniaco e culminato nel genocidio di Srebrenica del 1995?  Non si potrebbe sostenere che soltanto quando esistono gli incentivi strategici, un intervento sarà di vastità sufficiente per essere efficace? In effetti, l’altruismo da solo non produrrà forme efficaci di intervento umanitario. E’ importante il fatto che ci siano due pesi e due misure? Certi crimini contro l’umanità producono una reazione interventista mentre su altri si sorvola; un esempio è la punizione collettiva della popolazione di Gaza che continua a essere attuata. Dovremmo bere da un bicchiere che è soltanto mezzo pieno? La stessa domanda può essere fatta a proposito della recente ondata di azioni penali per crimini da parte dell’autorità della Corte Penale Internazionale.

Ci sono altri modi per valutare ciò che è accaduto. Per esempio, le conseguenze dell’intervento o del non intervento influenzano le nostre valutazioni della scelte di linea politica? Diciamo che il Kosovo si evolve nella direzione costruttiva del rispetto dei diritti umani, compresi quelli della minoranza serba, o, per contrasto, diventa repressivo nei confronti della minoranza della sua popolazione. Riesaminiamo, dovremmo riesaminare la nostra precedente opinione riguardo a che cosa era preferibile fare nel 1999? E infine, dovremmo dare priorità ai postulati della solidarietà umana, quella che si potrebbe chiamare ‘globalizzazione morale’, o alla supremazia dell’auto determinazione in quanto migliore speranza che i popoli del mondo hanno per raggiungere gli scopi di emancipazione, per riconoscere che le grandiose strategie dei protagonisti della geopolitica sono indifferenti, nel migliore dei casi, e spesso ostili a tali rivendicazioni?

La mia discussione si riduce a questo: in uno scenario globale di questo tipo, non possiamo evitare di fare errori disastrosi, ma per rinunciare al tentativo di trovare la linea di azione preferita, non dovremmo allontanarci dalla politica e arrenderci per la frustrazione. Possiamo esporre false rivendicazioni, contraddizioni, usare due pesi e due misure, e possiamo stare dalla parte di coloro che agiscono allo scopo di emanciparsi in molti scenari politici. Ci sono spesso parti ‘giuste’ e ‘sbagliate’ in base alla prospettiva della moralità internazionale, della legge internazionale, e della giustizia globale, ma non sempre.  Quando tutte le parti sembrano avere profondamente torto, i dilemmi per il cittadino coinvolto globalmente sono aumentati al punto in cui l’unica posizione responsabile può essere una posizione di umiltà, e il riconoscimento della incertezza estrema. In tali circostanze, l’imperativo morale più saliente è astenersi da atti che probabilmente intensificheranno la violenza, intensificheranno la sofferenza, e aumenteranno le morti e le uccisioni. Forse questa non è una posizione politica eroica, ma può offrire la replica più costruttiva a una particolare mescolanza di circostanze, minimizzando le prospettive di ulteriore intensificazione.

Infine, non è molto utile osservare che ‘il tempo dirà se questa è stata la risposta migliore.’ Forse possiamo imparare per il futuro circa i fattori sui quali si è sorvolato che potrebbero avere alterato la nostra valutazione, ma la nostra decisione era basata su quello che sapevamo e percepivamo in quel periodo, e che non dovrebbe essere riveduto tenendo conto dei successivi sviluppi. In alcune situazioni, come le molte lotte dei popoli oppressi e occupati, sembra auspicabile essere fiduciosi anche quando ci si rende conto che il risultato finale potrebbe portare a una profonda delusione. Penso che dovremmo, il più spesso possibile, affrontare i dilemmi dell’incertezza estremista. Dovremmo anche fare del nostro meglio per non essere manipolati da quei furbi realisti del mondo dei mezzi di informazione che mettono in risalto le paure, sostengono una convergenza di generosità e interessi, esagerano i vantaggi della superiorità militare, e, specialmente in America, servono come i principali  programmatori (che si sono nominati da sé), di modelli di sfruttamento di sicurezza formati in base alla geopolitica.

Grazie alla speranza possiamo spesso superare l’incertezza con il desiderio, e impegnarci in lotte per un futuro giusto e sostenibile che onori il potenziale umano per una crescita morale, per il miglioramento politico, e la saggezza spirituale.

Senza speranza saremo vittime della disperazione e saremo trascinati dalla corrente storica che sta portando verso la catastrofe la nazione, la società, la civiltà, la specie e il mondo.

Noi viviamo in quella che si può definire l’Età dell’Informazione e facciamo fronte quotidianamente al sovraccarico di informazioni. Si ipotizza che possiamo dar forma alla politica sulla base della conoscenza, e tuttavia, quando si tratta di problemi fondamentali come guerra/pace o il cambiamento del clima, agiamo e  difendiamo senza sufficiente conoscenza, o ignoriamo perfino un consenso informato, e, ciò che è peggio, mettiamo da parte la legge, l’etica e la nostra sensibilità spirituale.

Infine, pensare, agire e sentirsi come un pellegrino cittadino, fornisce la base necessaria per la speranza e per le sue due sorelle, la saggezza e la spiritualità.


*http://www.silviacattori.net/article975.html

**http://it.wikipedia.org/wiki/Volo_Pan_Am_103

Da: Z Net -Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.orgFonte: http://www.zcommunications.org/ /hope-wisdom-law-ethics-and-spirituality-in-relation-to-killing-and-persisting-syrian-dilemmas-by-richard-falk

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