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24 settembre 2012

Venezia 2012: si chiude la cinque giorni dedicata alla decrescita
di Andrea Bertaglio

È tempo di rompere con il neo-liberismo, la globalizzazione e le imposture di un capitalismo nella sua fase terminale. Il tutto, iniziando a ragionare “passando dall’io al noi”. La pensano così i partecipanti alla terza conferenza internazionale sulla decrescita: cinque giorni di eventi, workshop e manifestazioni. Che, vista l’affluenza, hanno dato un forte messaggio sulla rilevanza degli argomenti trattati: da quello politico-economico a quello ambientale, da quello occupazionale a quello spirituale. Fino al confronto con i modelli offerti dal sud del mondo e dall’eco-femminismo. Ma attenzione, avvertono i ‘decrescisti’, la strada è ancora lunga: “Del quadro che si vuole dipingere, il lavoro fatto finora equivale solo a due pennellate”.

A Venezia, negli scorsi giorni, si è capita una cosa: per molti è ormai tempo di cambiare. Non si spiegherebbe altrimenti il livello di partecipazione: se le persone iscritte ai seminari de “La grande transizione: la decrescita come passaggio di civiltà” erano 671, sono state infatti 850 quelle che vi hanno partecipato. Si parla di alcune migliaia, invece, se si considerano tutte quelle presenti agli incontri pubblici ed ai vari “eventi paralleli”. Come quello su “Immaginazione e spiritualità”, che da solo ha visto la Basilica dei Frari accogliere oltre mille persone, provenienti da 47 Paesi diversi.

Dopo la giornata di apertura, mercoledì 19 settembre, giovedì si è parlato di beni comuni, focalizzandosi sulla loro gestione equa e sui vantaggi della condivisione delle risorse. Venerdì è stato il giorno dedicato al lavoro: si sono trattati temi delicati come il precariato e la crisi del welfare. Sabato, invece, la protagonista è stata la democrazia, e quindi il bisogno di una transizione verso modelli di governo maggiormente partecipati. Fino a domenica, giornata di chiusura dei lavori. Parole d’ordine, durante tutta la conferenza: partecipazione, localizzazione, valorizzazione delle diversità. Ed ovviamente sostenibilità.

Principale accusata, a Venezia, è risultata la cultura consumistica: competitiva ed alienante, è stata ritenuta all’unanimità la vera origine delle crisi ambientali, sociali ed occupazionali che stiamo vivendo. Come sconfiggerla, dunque? Secondo l’economista Serge Latouche, è necessario innanzitutto “de-colonizzare l’immaginario, magari incominciando a buttare la tv, vero strumento di colonizzazione”. “La riconversione delle attività tossiche – ha ribadito il professore parigino – riguarda infatti anche quelle che lo sono a livello spirituale, come la pubblicità e il marketing”, il cui scopo è l’omologazione sui modelli occidentali di consumo, che “generano solo frustrazione”.

Nel mondo globalizzato “avere molte differenze e sviluppare la dimensione locale non è ritenuto efficiente, né un bene per il profitto”, afferma l’eco-attivista Helena Norberg-Hodge: “Ma è una grande menzogna. Se tutti ad esempio mangiassero prodotti locali, le multinazionali ridurrebbero i loro profitti, ma letteralmente milioni di persone ne potrebbero trarre vantaggi anche in termini economici”. Ciò non significa bloccare il turismo o i commerci internazionali, aggiunge Norberg-Hodge, ma “far fronte ai problemi odierni, sfatando appunto il mito della crescita”. Stesso discorso per l’autoproduzione di beni, cavallo di battaglia di Maurizio Pallante, che ammette: “Ci sono cose che non si possono auto-produrre. Pensiamo a un computer o ad una tac: sono beni molto utili, che dobbiamo necessariamente acquistare sul mercato”. “L’importante – aggiunge il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice – sarebbe però ricominciare a ragionare in termini qualitativi, quando si parla di produzione, e non solo quantitativi”.

Spunti di riflessione interessanti. Che, si spera, possano andare oltre la critica teorica e le buone intenzioni. Di sicuro ci vorrà ancora del tempo, prima che si possano trasformare in azioni politiche ed economiche concrete. Ma è meglio sbrigarsi, avvertono i sostenitori della decrescita, perché il tempo stringe. Gli sconvolgimenti ambientali e sociali che si stanno già verificando, infatti, rendono più urgente un cambio di direzione che può partire solo dall’unione dei singoli. “Non c’è la cavalleria che verrà a salvarci”, fa presente Rob Hopkins, fondatore del Transition Network riferendosi a governi ed istituzioni: “Il cambiamento deve partire da noi, perché la decrescita non è solo cambiare le proprie lampadine o coltivare carote. È un cambiamento interiore, per cui ci dobbiamo aiutare l’un l’altro”. Gli fa eco Alex Zanotelli, per cui ormai “la speranza nasce solo dal basso”. “Dall’alto – conclude il missionario – non aspettiamoci più nulla”.

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