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15 aprile 2012

Quello che Diaz fa vedere
di Barbara Sorrentini

Una bottiglietta trasparente che vola nell’aria filmata in prima piano con un passo lento, piena di luce, un sollievo per gli occhi prima di cadere a terra sull’asfalto ed infrangersi in mille pezzi. Ritorna più volte questa immagine in Diaz. L’immagine della purezza, dell’innocenza, della trasparenza spezzata dall’impatto sull’asfalto con una forza da cui è impossibile salvarsi. L’oggetto si riferisce a quella bottiglia di birra lanciata, o forse no, su una volante della Polizia; uno dei tanti motivi assurdi a cui le forze dell’ordine si sono aggrappate per motivare il massacro avvenuto tra le mura della Scuola Diaz, a Genova il 21 luglio 2001. Vittime le centinaia di ragazzi che avrebbero passato lì la notte e dove si trovava anche la sede del media center. Tornare insistentemente su questa immagine da parte del regista Daniele Vicari offre il senso del film. Carlo Giuliani, una vita spezzata sull’asfalto in un giorno d’estate. Le migliaia di ragazzi pieni di ideali andati a Genova per manifestare contro la globalizzazione, contro i potenti della terra, contro l’ingiustizia nei confronti di chi ha meno, per chiedere l’annullamento del debito per i paesi del tercer mundo. Giovani, e meno giovani, arrivati da tutta Europa e che manifestavano pacificamente per le strade di una città italiana. Da una parte. Dall’altra c’era la violenza. Nei primi minuti del film si alternano alcuni spezzoni tratti dalle migliaia di video girate da filmmaker, giornalisti, attivisti e da chiunque avesse una telecamera: si vedono uomini incappucciati e vestiti di nero che con le spranghe devastano un bancomat e le vetrine di una banca. Altri danno fuoco a dei cassonetti della spazzatura. Accanto a queste immagine sporche e sgranate Vicari gira le stesse scene, identiche, con attori in una scenografia riprodotta a Bucarest. E’ tutto uguale, ma improvvisamente diventa cinema. Ritmo serrato quando arriva la polizia dispiegando sirene, muovendosi in auto tra vie piccole in mezzo la gente come se fosse in un circuito di Formula 1. Di questo passo e di questo ritmo si arriva alla Diaz. Già carichi di rabbia, per quella che da una giornata di pace e di magone per Carlo Giuliani, si è trasformata in una mattanza ingestibile tra black block, poliziotti e gente inerme. Ma se le scene che mostrano la “macelleria messicana” che si è scatenata alla Diaz sono le più temute e nello stesso tempo le più attese, Vicari non trascura mai quello che accade prima e dopo, anzi, con la scelta di ripetere alcuni fotogrammi preparatori da differenti angolazioni rende ancora più violenta l’irruzione nella scuola. Non racconto più, andatelo a vedere. Diaz riproduce con forza quel senso d’angoscia, ma anche l’energia positiva e di speranza che regnava prima della rovina; e poi dolori, pugni per chi c’era. A un ragazzino forse resta la paura, la sfiducia totale nella polizia e la voglia di saperne di più. Per questo il film raggiunge l’obbiettivo, con una regia che è la narrazione e che racconta molto più di quello che per qualcuno “questo film non dice”. E si esce dal cinema storditi e pestati.

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