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12 luglio 2012

Genova 2001, nomi e cognomi
di Marco Trotta

La preparazione di Genova 2001, la protesta, il dopo G8, sono per molte ragioni il simbolo dell’emersione di punti di vista e di pratiche sociali che hanno segnato la storia di singoli cittadini, di movimenti e pure di media indipendenti. Indirettamente anche di Comune-info, che all’epoca non era nato, ma tutti i suoi promotori e redattori erano lì. Di seguito, un articolo che ricostruisce in modo puntuale quanto accaduto negli ultimi anni, partendo dai processi. Non lo leggerete sui «grandi» media. Fatelo girare, come hanno cominciato a fare Wu Ming e altri.

I commenti che sta suscitando la sentenza della cassazione sulla Diaz dimostrano almeno un fatto: il G8 di Genova non si può derubricare a una questione giudiziaria. Ma ora che lo stanno scrivendo anche i maggiori quotidiani italiani c’è un rischio: quello di dare le risposte sbagliate alle tante domande che si stanno ponendo all’attenzione dell’opinione pubblica. E allora tanto vale chiarirne qualcuna e usare nomi e cognomi.

Intanto sulla famigerata commissione d’inchiesta bocciata durante il governo Prodi. Fu discussa e votata dalla commissione Affari costituzionali il 30 ottobre del 2007. Non passò perché dei 45 membri presenti, votarono in 44: 22 a favore e 22 contro. E dalla maggioranza si sfilarono i radicali e socialisti Cinzia Dato e Angelo Piazza (assenti, ma non rimpiazzati), Carlo Costantini dell’Idv che votò no come Francesco Adenti (Udeur). L’altro Idv Massimo Donadi era assente. Di Pietro giustificò questo voto dicendo che era una commissione a senso unico contro la polizia, Mastella perché non l’aveva visto nel programma dell’Unione (falso: era a pagina 77). Quello che nessun commentatore ha sottolineato è che la differenza la fece il non voto del presidente della commissione: Luciano Violante, allora democratici di sinistra ora Pd. Del resto cosa ne pensasse l’ex presidente della camera era scritto nero su bianco in una intervista a La Stampa del 23 Giugno 2007 nel quale si dichiarava personalmente contrario. E il motivo lo ha spiegato l’editoriale del 9 luglio di Marco Menduni su Il Secolo XIX, unico quotidiano a scriverlo oltre al manifesto. Quella commissione rischiava di mettere in imbarazzo sia il governo di destra che l’opposizione di centrosinistra. Questo perché il G8 a Genova fu deciso sotto il governo D’Alema e gestito dal governo Amato che nominò De Gennaro capo della polizia il 26 maggio del 2000. Il governo Amato ero lo stesso che gestì l’ordine durante il global forum di Napoli (che anticipò quello che avvenne dopo a Genova). Insomma non è solo la destra a dover dare risposte, come chiede Concita De Gregorio su Repubblica. Che poi da quelle parti ci siano state altre connivenze è poco ma sicuro.

Uno dei deputati più attivi al G8 fu Filippo Ascierto, ex carabinieri, ovviamente di Alleanza nazionale. Il 5 giugno del 2001 intervistato da Repubblica disse, riferendosi ai manifestanti che stavano preparando il contro vertice di Genova: «Non dormano tranquilli perché noi li andremo a prendere uno per uno». Quando il giornalista chiese a chi si riferisse con il «noi» aggiunse «ho detto andremo perché mi sento ancora un carabiniere». E ancora, è noto che Fini, allora vicepresidente del consiglio, fu personalmente presente a Forte San Giuliano, nella sede operativa dei Carabinieri. Lui disse per portare un saluto istituzionale, peccato che si durò dalle 10 alle 16,30. E tutto questo fu accertato in una sede istituzionale. Già perché prima della commissione d’inchiesta mai nata ci fu una commissione di indagine con tre relazioni finali (una di maggioranza, una di centrosinistra ed una di rifondazione) che a rileggerle oggi contenevano già tutti gli elementi per farsi un’idea di quello che era accaduto facendo delle proposte. Per esempio in quella di Mascia (Prc) si prendeva atto dell’impossibilità di riconoscere gli operatori di polizia in piazza chiedendo l’introduzione di codici identificativi. Cosa che è passata nel dimenticatoio. Per l’opposizione della destra? Difficile crederlo visto che Claudio Giardullo, il segretario del Silp, sindacato di polizia vicino alla Cgil, intervistato l’anno scorso dal manifesto si dichiarava contrario a questo provvedimento («aumenta il rischio del singolo operatore») e perfino all’introduzione del reato di tortura («un messaggio di sfiducia per la polizia»), mentre più di recente Giuseppe Corrado del Sap (vicino alla destra) dichiarava a La Stampa «se lo Stato decidesse in questo senso non ci opporremo in nessun caso». E a proposito del reato di tortura, fu discusso in parlamento nel 2004 con una proposta bipartisan, ma poi si preferì non fare nulla visto che fu approvato a maggioranza un emendamento dell’onorevole Carolina Lussana, della Lega, che definiva tortura solo il comportamento reiterato con il paradosso che che se fosse stato fatto una solva volta o più volte nei confronti di più persone non susisterebbe.

Oggi diverse proposte giaciono nei cassetti e del resto cosa ne pensasse uno dei massimi esponenti della Lega fu chiaro nel 2008 quando Repubblica intervistò Roberto Castelli, all’epoca di Genova ministro della giustizia in visita al carcere di Bolzaneto, disse che tenere in piedi le persone per ore non era tortura: perché «i metalmeccanici stanno in piedi otto ore al giorno e non si sentono umiliati e offesi». Per fortuna si può ancora sostenere l’appello sul sito di Amnesty international. Eppure quella non è stata l’unica voce isolata in tutto questo tempo. Il Comitato Verità e Giustizia che oggi chiede le dimissioni di Manganelli e De Gennaro aveva chiesto tutte queste cose sia al presidente della Repubblica Napolitano che ai segretari del centrosinistra Bersani, Di Pietro, Bonelli e Vendola. Risposte? Nessuna. Eppure perfino il procuratore generale di Genova, Luciano Di Noto, aveva chiesto a suo tempo scuse e dimissioni per una situazione che non è certo circoscritta solo alla vicenda Diaz. Uno degli avvocati delle parti civili al processo Diaz, Emanuele Tambuscio, ha calcolato che ci sono altre 9 condanne nella polizia passate in giudicato per falso e calunnia, mentre su altri processi che sono in corso o devono partire incombe la prescrizione.

Se su tutti questi fatti oggi abbiamo un po’ di verità non è certo per la maggioranza dei media nazionali che oggi si stracciano le vesti sulle responsabilità della politica. Se i processi sono andati in un certo modo è stato grazie al lavoro di decine di attivisti che con il lavoro del supporto legale hanno fornito materiali audio video agli avvocati delle parti civili e alla magistratura. Oggi tutti quei materiali sono fruibili in rete e hanno smentito tutte le ricostruzioni più mistificatorie sentite in questi anni. Della Diaz abbiamo delle immagini grazie al fatto che le videocamere di Indymedia erano posizione nel palazzo di fronte ed hanno potuto riprendere la scena dell’irruzione che ha smentito le ricostruzioni della polizia (il Tg5 di Mentana lo mandò in onda qualche tempo dopo oscurando il logo del network). Filmati, foto e testimonianze di giornalisti freelance sono stati il racconto in presa diretta che ha prodotto decine di video e di libri ben prima del film Diaz di Vicari e Procacci alimentando un dibattito nel paese taciuto dai tv e giornali se non per qualche cronaca locale che non ha mai raggiunto le prime pagine fino ad oggi. Molte delle informazioni raccolte qui provengono da libri come “Genova nome per nome” di Carlo Gubitosa o “L’eclisse della democrazia” di Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto che non hanno trovato spazio su giornali blasonati né in trasmisioni come quelle di Fazio, Dandini, ecc. E invece continua l’abitudine, tutta italiana, di riportare commenti piuttosto che fatti.

Eppure, anche in queste ore, sarebbe stato troppo chiedere ai giornalisti che ne hanno riportato le parole di Paola Severino, ministro della giustizia, e quelle di Luigi Li Gotti, parlamentare Idv, sulla professionalità dei condannati di spiegare anche sono stati avvocati difensori rispettivamente di Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi e Francesco Gratteri?

Genova non è finita. Venerdì 13 ci sarà la sentenza per 10 ragazzi che rischiano 100 anni di pena complessivamente in un processo che forse qualcuno vorrebbe far diventare una specie di secondo tempo con pareggio per la vicenda Diaz. Una concezione indecente per chiunque sostenga in buona fede le ragioni dello stato di diritto. In questi giorni un altro tema è stato la richiesta di scuse da parte delle istituzioni. Giuste, certo, ma accettarle o meno riguarda un piano umano ed emotivo che avrebbe meritato parole migliori e gesti più concreti che non si sono visti in questi 11 anni. Alle istituzioni, invece, bisognerà porre un’altra domanda: «Come si potrà evitare altri episodi come Genova per il futuro?». Oggi che la verità ottenuta con il sacrificio di tante persone è diventata anche un pezzo di giustizia, gran parte delle possibilità di trovare risposte dipenderanno dalla capacità di chiedere conto del proprio operato a chi in quei giorni aveva incarichi di responsabilità, a chi ha taciuto pur sapendo e a chi sta ancora tacendo. Non generiche responsabilità politiche, ma chiamandoli per nome e cognome. Altrimenti non avremo alibi se Genova sarà l’ennesima pagina nera della storia di questo paese di un libro che non si vuole chiudere.

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