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20 luglio 2012

Le radici del 20 luglio
di Angelo Miotto


20 luglio, Carlo Giuliani. C’è un aspetto simbolico che ritorna al di là delle commemorazioni, che costellano lugubri i nostri calendari. Oggi ricordiamo le 17.27, la pistola, lo sparo, il sasso che colpisce violentemente il cranio di Carlo, i depistaggi a opera dei periti e comunque l’archiviazione per legittima difesa del carabiniere Placanica, oggi finito in guai seri per abusi su minorenne. Piazza Alimonda tornerà a vestirsi di striscioni e fiori, militanti e amici, semplici passanti, parole e musica, Giuliano, il padre, che si agita e Heidi, la madre di Carlo, che ha una parola per tutti, Elena, la sorella, con i suoi occhi azzurri e i capelli color del grano.

Oggi è ricordo, ma il 20 luglio è ormai radice, che scava e che cresce inesorabile, proprio per la giustizia negata che sta dentro la storia di un ragazzo ucciso senza nemmeno un processo. La sentenza, quella storica e della ricostruzione dei fatti, è scritta. Ma nel complesso sistema di regole e limiti codificati che reggono la convivenza sociale dentro un territorio in cui si riconosce una comunità, l’assenza di un processo ha un significato profondo.

Carlo senza un processo, perizie leggendarie di calcinacci e proiettili deviati in volo, passamontagna che spariscono e pietrate che volano. Nelle caotiche ore dei giorni del G8 genovese, i giorni della paura e delle botte per tanti, saltò lo Stato di diritto, sopraffatto da quello di polizia. Lo abbiamo visto e raccontato in tanti dalle strade di Genova. Ma la distanza di tanti anni passati, di tanta politica inutile e dannosa, di mestatori del torbido e di polizie cresciute alla repressione su scala internazionale insegnano un’amara lezione. È quella dei poliziotti condannati, ma non incarcerati, per tortura. Del loro capo che siede nel Palazzo e non ha parole né atti da vero servitore dello Stato. E i numeri degli anni di carcere che piovono addosso a una decina di persone, che son quello che è restato nel pugno delle guardie. Uomini e donne chiamati, undici anni dopo, a pagare per danni a cose come se fossero spietati assassini.

Le cose, le persone. In fondo siamo lì, al dibattito sulla violenza e sui destinatari di quest’ultima. Essere contrari alla violenza presuppone subirla? Tempi difficili per le sfumature di grigio, mentre le parole vuote delle anime belle insegnano a ogni occasione quale sia il comportamento etico per questa nostra società. Peccato che poi, alla prima protesta che sia territoriale o ideologica, ma che si esprime con il dissenso a vari livelli, si chieda sempre di obbedire agli ordini lanciati dai megafoni in divisa, pena passare immediatamente nella sovversione. Violenta comunque, perché in contrasto.Con uno sforzo di immedesimazione in chi undici anni fa aveva otto o nove anni – difficile immaginare – sui risultati processuali di Genova G8 si potrebbero mettere in fila gradi di responsabilità, condanne e loro effetti, un dubbio legittimo sul perché per un ragazzo ucciso non c’è un processo, non c’è un colpevole.

Più realisticamente oggi, 20 luglio, la denegata giustizia è occasione di denuncia, come in tutti questi anni, senza stanchezze, una ferita aperta che condiziona il futuro, anche quando Alimonda dovesse diventare una polaroid sbiadita nella nostra testa. Ma l’ignavia, l’ipocrisia, l’incapacità dolosa della politica è qualche cosa di imperdonabile. In undici anni non c’è stata nessuna assunzione di responsabilità, né ripensamento critico. Come se vedere decine di migliaia di persone che chiedono cambiamento e radicale, sia stato, ed è stato, solo un ostacolo ai programmi degli apparati che pensano di dirigere il Paese, senza curarsi delle singole volontà che si uniscono nel nome delle battaglie per un mondo diverso.

Oggi 20 luglio, domani 21 luglio anniversario del macello della Diaz, sono e saranno date in cui auguriamo a tutti quei politici di sentirsi tremendamente scomodi e fuori luogo. Colpevoli. Hanno un debito con la società, anche con quelli che hanno odiato quella marea umana.
Per loro non ci saranno gradi di giudizio o Cassazioni. La sentenza è inappellabile.

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