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20 aprile 2012

Grecia. Storie di donne e di crisi
di Margherita Dean

Valassia, 48 anni, ingegnere ad Atene, Anna, 36 anni, impiegata a Syros, Konstantina, 35 anni, ostetrica ad Atene.

Sono donne, sono madri, sono greche e vivono sulla loro pelle la crisi: senza rendersene pienamente conto, hanno ribaltato ruoli e stereotipi ancora persistenti nella società ellenica. Non si tratta di una rivoluzione culturale ma di necessità: mantenere la famiglia ora che il loro compagno è disoccupato o quasi.

Valassia lavora per una grande impresa edile. Per dieci mesi non è stata pagata ma ora, che ha accettato una riduzione dello stipendio di 330 euro, viene retribuita regolarmente. “Chissà per quanto, l’edile è il settore maggiormente in crisi e non ho speranze, presto sarò licenziata ma, almeno, a quel punto saranno costretti a versarmi gli stipendi che ancora mi devono. Mio marito è logoterapeuta, lavorava in progetti finanziati da alcuni comuni dell’Attica ma, ovviamente, le amministrazioni locali non hanno più un soldo. Così, ora vive del suo solo studio ma, come dice, gli introiti sono poco più della paghetta di nostro figlio. È così che viviamo del mio solo stipendio, i risparmi sono finiti e l’idea di quello che ci aspetta mi annichilisce. Quanto tempo ci vorrà prima che si torni a respirare?”.

Anna è commercialista, vive a Syros, nelle Cicladi, con il compagno e i loro due bambini. “Lavoro nell’amministrazione di una società che commercia elettrodomestici. Non sono contenta, mi hanno già ridotto lo stipendio e la società naviga in cattive acque. Il mio compagno ha un negozio di oggettistica che sta andando male e ha deciso che dopo l’estate lo chiuderà. Non abbiamo idea di cosa farà: se è difficilissimo trovare lavoro ad Atene, figuriamoci a Syros ma, almeno, qui gli affitti costano meno e, per un po’ di tempo, potremo arrangiarci col mio stipendio. Almeno fino alla prossima riduzione. Fosse solo per me, potrei far finta di essere tornata agli anni dell’università, quando non avevo in tasca quasi niente ed era normale. Però ora ho 36 anni e due bambini, lavoro per ore che sono sempre più di otto, guadagno 950 euro e non so mai se il prossimo mese sarò licenziata o meno. Questo non è normale”.

Kostantina lavora in una clinica privata. Non ha uno stipendio ma viene pagata a parto dalle pazienti. “Ho un figlio di 6 anni, siamo in affitto, alla cassa previdenza e pensioni devo versare 700 euro al mese e mio marito è disoccupato da un anno. Lavoro non ne trova e, nel frattempo, è insorto un problema di salute per cui deve farsi operare e la lista d’attesa all’ospedale è di due mesi. Le donne che partoriscono in clinica sono sempre meno, alcune scompaiono nel nulla durante la gravidanza. Io mi deprimo, non solo per me ma anche per loro: come si può sentire una donna che viene licenziata durante la gravidanza? Succede sempre più spesso. Sì, sto piangendo, continuo a chiedermi come sia possibile che ci abbiano ridotto così, senza diritti, senza lavoro, senza speranza. Se entro settembre le cose non cambiano, ho deciso di andare via, di tornare nel paesino dell’Epiro da cui erano emigrati i miei negli anni ’60. Non so cosa farò ma, almeno, lì una casa dove non pagare l’affitto c’è. È come durante la guerra: in città si sta molto peggio”.

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