THE IRISH TIMES DUBLINO
7 marzo 2012

Vogliono bandire Keynes
di Fintan O'Toole
Traduzione di Anna Bissanti

Il governo irlandese ha annunciato che organizzerà un referendum sul trattato fiscale. In gioco c'è il pluralismo delle idee economiche, che la destra europea vuole sottomettere alla sua ortodossia.

“…il delitto fondamentale che comprendeva tutti gli altri. Lo chiamavano psicoreato”. 
George Orwell, 1984.

La domanda di fondo del referendum che ci sarà proposto è… già, qual è la domanda? Non sarà, come ha erroneamente affermato l’anno scorso il ministro delle finanze irlandese Michael Noonan, un referendum sull’eventualità che l’Irlanda possa uscire dalla zona euro (non possono estrometterci).

Non avrà a che vedere, come ha dichiarato la settimana scorsa in più occasioni il premier irlandese, con la “ripresa economica” o con i “posti di lavoro” o il presunto “desiderio di far parte della comunità europea, dell’euro e della zona euro da adesso in poi”. E di sicuro non riguarderà neppure il modo di definire un deficit strutturale dello 0,5 per cento, perché se lo fosse si tratterebbe della cosa più astrusa mai sottoposta al giudizio dell’opinione pubblica.

Il referendum riguarderà l'introduzione dello psicoreato, ovvero un modo di pensare che dovrebbe essere messo al bando. Non ha a niente a che spartire col nazismo, il razzismo o qualche altra ideologia dell’odio. Si tratta di un modo di pensare che per circa trent’anni, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stato il prevalente “modo di pensare” l’economia di buona parte del mondo sviluppato: la filosofia di John Maynard Keynes.

Stiamo parlando del contesto intellettuale della maggioranza del centrosinistra europeo e dei neodem negli Stati Uniti. E a metterlo al bando sarà un trattato internazionale, alla stregua di quelli che vietano il traffico di esseri umani o le armi chimiche.

Mettere al bando la teoria keynesiana dopo il grande crollo del 2007 è un po’ come reagire a un massacro vietando i giubbotti antiproiettile. L’Irlanda ne è un caso esemplare. L’idea di fondo di Keynes era che i governi dovessero mettere in atto politiche anticicliche, governare con i deficit per dare slancio alle economie deboli e tagliare la spesa per raffreddare le economie surriscaldate.

Alla base della proposta del trattato fiscale c’è invece il concetto molto semplice che un governo deve comportarsi come un nucleo familiare, che negli anni delle vacche grasse fa uso di  bigliettoni, ma in quelli di magra chiude tutti i portafogli. La sua opinione ponderata della teoria economica keynesiana è: non pensarci nemmeno. Le politiche fiscali anticicliche sono proibite.

Anche se credete che l’approccio keynesiano sia errato, pensate davvero che elevare un’ortodossia allo status di legge irrevocabile sia una buona idea? Questa è la stupidità di un’ideologia che non contempla la possibilità di sbagliare. Utilizzare la crisi per trasformare l’opinione di parte dell’economia in un dato di fatto indiscutibile è crasso opportunismo ideologico.

Il trattato fiscale non è un “dato di fatto”: è opinione della destra a cui è stata data forza legale. Il “deficit strutturale” è un’interpretazione molto avversata di dati complessi e cercare di farne un concetto legale è roba da pazzi.

Le circostanze contano

L’idea che esista un livello sostenibile di indebitamento pubblico è tutta da dimostrare. La risposta dipenderà sempre dalla situazione contingente e da circostanze specifiche quali la crescita economica, la situazione demografica, la stabilità politica.

Il Giappone ha un indebitamento pubblico pari al 230 per cento del suo pil, ovvero il quadruplo della soglia massima consentita nella zona euro. I mercati – le valutazioni dei quali si suppone che siamo tutti pronti ad accogliere come il vangelo – non lo vedono come un problema: il rendimento dei bond decennali giapponesi è inferiore all’1 per cento. A determinare se siamo o non siamo in crisi sono dunque le circostanze, e non il livello assoluto di indebitamento.

Il trattato fiscale, invece, dà per scontato che le circostanze siano irrilevanti: si arroga un potere arbitrario sul debito, ne trasforma le leggi in oggetti di culto e ci obbliga a rendere loro omaggio. Finge che circostanze e contingenze non esistano e che un unico livello di indebitamento sia giusto, sempre e ovunque.

Non si prende neppure la pena di affermare per quale motivo abbiano senso i limiti particolari che lo definiscono. In linea generale, è opinione corrente tra gli economisti che un debito pubblico superiore all’80 per cento del pil ostacoli la crescita economica. Peccato che il limite della zona euro sia del 60 per cento, una cifra scelta soltanto perché suonava bene.

In altre parole ci stanno per chiedere di approvare un potere ideologico mal concepito e mal strutturato, mirante a proibire un aspetto della politica fiscale. Ciò è tanto paradossale quanto l’idea di una “guerra che ponga fine alle guerre”, di un dibattito democratico che miri a mettere al bando il dibattito democratico su precise questioni politiche, di un voto per limitare il significato di voto.

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