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27 aprile 2012

Gramsci, che predisse il nostro tempo
di Vincenzo Maddaloni 

Gramsci aveva visto giusto quando scriveva che il dominio di un gruppo su altri gruppi  con o senza la coercizione della forza viene esercitato finché i modelli culturali del gruppo dominante si impongono agli altri i quali si adattano e favoriscono il gruppo egemone

Se le tante sinistre facessero il loro mestiere che è anche quello di correlare i meriti e i demeriti all’assetto sociale, sicuramente vivremmo la trasformazione del mondo lavoro con qualche speranza in più. Che non è poco se si pensa che in questo Paese tre lavoratori al giorno muoiono a causa delle condizioni nelle quali si trovano a svolgere la propria attività; e nel silenzio pressoché totale. «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»,  scriveva nei  Quaderni dal carcere  Antonio Gramsci, del quale ricorre il settantacinquesimo anniversario della morte, (Roma, 27 aprile 1937).

 Eppure i fatti di cronaca non mancano. Ogni giorno ci sono spunti per riaccendere la discussione sull’argomento. Basti pensare che a livello nazionale nei primi quattro mesi di quest’anno ci sono stati 105 morti sul lavoro, dei quali quindici soltanto in Lombardia e addirittura sei a Brescia. Vuol dire che gli operai sono disattenti? Che il lavoro è male organizzato? O peggio ancora che si debba morire lavorando? Lavorando per salari bassi, talvolta perfino indecenti.  Insomma, si deve disseppellire il concetto di egemonia culturale inventato da Gramsci? Secondo il quale per egemonia culturale s’intende l’imposizione, attraverso le pratiche quotidiane e le credenze condivise, delle rappresentazioni e della visione culturale di un gruppo egemone (quello borghese) agli altri gruppi sociali, fino alla loro interiorizzazione. Succede perché le istituzioni egemonizzate come la scuola dell’obbligo, i mass media, la cultura popolare, i tecnocrati indottrinano le masse dei lavoratori  verso una falsa coscienza, con l’ acquisizione di falsi valori, come lo sono il consumismo ed il nazionalismo. Insomma la classe egemone «attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise», crea «i presupposti per un complesso sistema di controllo», avvertiva Gramsci.

Come oggi sta accadendo col governo tecnico di Monti?  Oppure  il monito di  Gramsci è al giorno d’oggi esagerato? Credo di no, perché il mondo del lavoro sta vivendo uno dei suoi momenti più neri. Infatti, i salari italiani sono i più bassi tra quelli dei paesi fondatori dell’Unione europea, e diversamente da quanto è avvenuto in Francia, Germania e Inghilterra, in termini reali quelli italiani  sono rimasti pressoché fermi se si tiene a mente che sono saliti dell’1,2 per cento su base annua. E’ la crescita tendenziale più bassa dall’inizio delle serie storiche ricostruite, cioè si è tornati al 1983. Lo dichiara l’Istat  il quale  sottolinea che la forbice tra stipendi e inflazione è al top, a far data dal 1995.  E il governo che fa? Tace e aumenta le tasse mantenendo le motivazioni sul vago. Eppure una delle cause, la più macroscopica è l’aumento massiccio del lavoro precario dovuto al fatto che le imprese tendono sempre di più a sostituire porzioni di forza lavoro stabile e qualificata con forza lavoro precaria e atipica. Sono quest’ultime figure contrattuali, tutte debolissime, quelle che puntano non ad elevare la condizione del lavoratore, ma ad aggredire la condizione del lavoratore stabile. Si tenga a mente pure – lo sottolinea sempre l’Istituto di Statistiche – che la media dei mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto è aumentata rispetto ad aprile del 2011. Oggi essa supera ampiamente i due anni. La ministra Fornero tutte queste cose le sa?

Certo che lo sa, tuttavia – per la prima volta in Italia e nonostante i tecnocrati al governo –  coloro che lavorano rischiano di ritrovarsi in condizioni economiche non diverse da quelle del disoccupato assistito. Inoltre, chiunque abbia superato i quarant’anni è  consapevole che ai primi segni di crisi il suo posto di lavoro è a rischio, e che in caso di licenziamento sarà molto difficile trovarne un altro di pari livello professionale e a parità di retribuzione. Infine, l’allungamento dell’età pensionabile rende particolarmente critica la condizione di tale fascia delle forze di lavoro. Ma non va bene nemmeno per i giovani, anzi.  Secondo i dati sulla disoccupazione giovanile pubblicati dall’Istat, tra il 2008 e il 2011 il numero degli occupati tra i 15 e i 34 è calato di un milione e 54 mila unità, passando dai 7 milioni e 110 mila di quattro anni fa ai 6 milioni e 56 mila dello scorso anno. Le giovani generazioni sono dunque quelle che scontano più di ogni altro gli effetti della crisi economico-finanziaria.

Tuttavia al di là della crisi c’è pure una rivoluzione in atto con protagonista la tecnologia che oggi non è più un mezzo nelle mani dell’uomo, ma per effetto della globalizzazione è diventata la vera protagonista del mondo dell’economia e del lavoro. La tecnologia non conosce il sociale, sa soltanto ottimizzare l’ impiego minimo delle risorse umane per conseguire il massimo dell’utile. Progetti a lunga durata se ne fanno sempre di meno per il semplice motivo che, la nuova tecnologia agisce in un arco di tempo compreso tra il recente passato e l’immediato futuro preferendo soprattutto l’immediato. E dunque alla progettazione di lungo periodo è subentrata quella di breve periodo, il che vuol dire la ricerca spasmodica per inserirsi in circostanze favorevoli tendenti a sfruttare  tutte opportunità che esse possono offrire. In un contesto del genere quel che si richiede al lavoratore è la capacità di cambiare tattica e stile nel breve periodo con la cosidetta flessibilità, che naturalmente deve essere a basso costo, di alta efficienza e di perfetta funzionalità poiché è la macchina, e soltanto essa che determina la tempistica di produzione e quindi ancora rimane – come nel più cupo fordismo -  il modello che incanala e impone all’operaio il ritmo alla corsa.

Sicché Gramsci aveva visto giusto quando scriveva che il dominio di un gruppo su altri gruppi, con o senza la coercizione della forza – viene esercitato – finché i modelli culturali del gruppo dominante si impongono agli altri, i quali si adattano e favoriscono il gruppo egemone. Il fatto è che in questo confronto i lavoratori partono svantaggiati poiché tra essi e le imprese non vi è  (nemmeno vi è mai stata) una normale relazione di scambio, bensì un rapporto strutturalmente asimmetrico. Infatti, i lavoratori partono da posizioni di estrema debolezza ogni volta che debbono contrattualizzare la propria forza lavoro, poiché chi sa soltanto lavorare e possiede soltanto il “bene” lavoro non ha altre alternative di scambio da proporre. Gli imprenditori, invece, possono essere meno «impazienti» nell’acquistare la forza lavoro, poiché  possono sopravvivere consumando il proprio capitale. Inoltre, soltanto gli acquirenti della forza lavoro possono perseguire strategie dirette ad indebolire la controparte, vuoi ricorrendo a tecnologie risparmiatrici di manodopera, vuoi spostando gli investimenti da un Paese all’altro, vuoi modificando i requisiti professionali richiesti. E così da un’asimmetria strutturale nasce una prevaricazione di potere delle imprese sui lavoratori. Gramsci, aveva visto giusto? Settantacinque anni dopo la sua scomparsa il suo pensiero è ancora valido?

In Italia quel che più preoccupa sono i rapporti di lavoro non standard, quelli che fanno temere una maggiore instabilità del posto e tragitti lavorativi più discontinui, tanto più che il centro-destra aveva aggiunto un armamentario di impieghi flessibili alle modalità già introdotte dal centro-sinistra. Va anche detto che i vari tipi di contratti a termine hanno sostituito il tradizionale periodo di prova, sia perché certi imprenditori li sfruttano per dilazionare al massimo l’assunzione stabile, o per evitarla, sia perché molti ritengono insufficiente il periodo previsto dai contratti.  Spiega il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere : «La credibilità e l’efficacia delle politiche economiche del governo si misura esattamente dalle politiche per la crescita, rispetto alle quali si registra un grave ritardo. Se da una parte si contano un milione di under 35 occupati in meno in tre anni», continua Scudiere, «dall’altra parte abbiamo tre miliardi di ore di cassa integrazione relative allo stesso periodo: uno scenario che raffigura la pesantezza di una crisi che si abbatte prevalentemente sulle fasce più deboli, i giovani».

Infatti sempre l’Istat rileva che tra il 2010 e il 2011 il numero dei giovani occupati (15-34 anni) si è ridotto di 233 mila unità. Ancor più drammatica la situazione dei giovanissimi (fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni), la cui quota di occupati è crollata del 20,5 per cento tra il 2008 e il 2011 (303 mila unità in meno). Per completare il quadro va aggiunto che sebbene rappresentino un’opportunità di ingresso nel mondo lavoro, i rapporti a termine creano la «ghettizzazione» professionale e l’emarginazione sociale quando il lavoratore vi rimane intrappolato. Infatti, è risaputo che chi ha un contratto a termine stenta a ottenere prestiti e ad affittare appartamenti. Così diventa comunque difficile costruirsi un percorso, formulare previsioni e progetti di una certa portata in campo professionale e spesso anche in campo esistenziale e familiare.

Come si fa di fronte a tanta evidenza, a non capire che il problema del lavoro con tutte quelle morti bianche, assieme ai suicidi dei tanti piccoli imprenditori è un problema prioritario? Dire che non si risolve commemorando le vittime degli incidenti nei cantieri e nelle fabbriche, o predicando che è tutta colpa della crisi economica che stiamo vivendo è storia vecchia, troppo vecchia ormai.  Le sinistre, come detto, dovrebbero ritornare a farsene carico adeguando le strategia ai nuovi tempi, ma finché continuano a sbranarsi, compagno contro compagno sul partito di sinistra ideale da fondare o sulle alleanze da fare, non si inquadrano i problemi nuovi del mondo del lavoro. Sicché o sbagliano quando intervengono poiché non hanno proposte adeguate da presentare o nel peggiore dei casi addirittura non le presentano affatto. Insomma, una catastrofe.

Intanto, la grande impresa con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli  della competizione globale,  è sempre meno disposta a  contrattare e sempre più disposta a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali come tra i maggiori cause del disastro economico. Così vivendo il rischio  è che prevarrà nella società civile la convinzione secondo la quale “è giusto” “è bello” soltanto la conquista dell’utile economico. Sicché le rivendicazioni operaie non possono essere considerati che un fastidioso incidente di percorso, e quindi vanno cassate. Gramsci, aveva visto giusto, almeno così pare.

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