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Mercoledì 14 Novembre 2012 20:58

#Italia #14N: la rabbia cresce

Il 14 novembre ci consegna un dato importante, da analizzare con attenzione perché ci parla di quella che è oggi l’Italia del conflitto, e il 16 novembre, tra due giorni, di nuovo il meridione sarà attraversato dalla mobilitazione contro la crisi. C’è infatti una totale separazione tra sindacato e pratica effettiva dello sciopero. Chiunque lavori nei settori dove la Cgil è presente sa quanto i funzionari sindacali siano stati attenti a minimizzare la portata di questa giornata tra i lavoratori, e i risultati, in molti casi – quanto ad astensione effettiva dal lavoro e numeri degli spezzoni sindacali – si sono visti. L’Italia non si è fermata come la Spagna, ed è stato necessario il protagonismo dei giovani studenti e precari (che in molti casi tutele sindacali non ne hanno) per portare la giornata a un’altezza europea.

Il sindacato ha passato anni e anni a sabotare con metodo la pratica dello sciopero come strumento di riappropriazione, rifiuto e lotta, imponendo a ripetizione scioperi di due, quattro o addirittura di un’ora, e quindi depotenziando un simile strumento di rottura sociale fino a renderlo mero strumento di “rappresentanza” statistica attorno a una vertenza, e per questa via assimilandolo a ciò che dello sciopero è l’esatto contrario, ossia il voto. Gli scioperi rituali degli ultimi anni sono stati forme malintese di espressione disciplinata del dissenso verso le politiche governative, sempre in vista di un tavolo a cui i sindacati avrebbero dovuto sedersi , e non certo più forti per aver portato in piazza qualche migliaio di lavoratori e qualche pensionato affezionato, ma per il fatto di partecipare a riunioni tra pari, cioè tra membri indispensabili della casta. Già, perché la casta ha disperato bisogno del sindacato concertativo di stato, e soprattutto di una finzione di sciopero, affinché le masse atomizzate possano ingannarsi (in modo del tutto analogo a quanto accade con il voto, appunto) circa il loro peso nei processi politici.

A questa tendenza si oppone concretamente, e di fatto, la composizione sociale studentesca e precaria che non ha semplicemente partecipato allo sciopero del #14N, né l’ha propriamente egemonizzato, ma lo ha letteralmente costituito, è stata lo sciopero, in tutto e per tutto. Non soltanto per aver saputo esprimersi in cifre con quattro zeri in tutte le principali città, ma per aver saputo sottrarre al controllo dell’apparato dominante significativi segmenti delle aree urbane per molte ore, e le loro appendici parassitarie del mondo istituzionale, con riappropriazioni collettive a azioni dirette.

A Roma, anzitutto – città dove per tantissimi anni, lo sappiamo bene, sfidare la Questura è stato un tabù – gli studenti hanno imposto le loro scelte di piazza con determinazione, come già era accaduto il 5 ottobre. Sul piano concreto si sono viste decine di migliaia di giovani manifestare e poi resistere alle cariche sul Lungotevere, ma anche sul piano simbolico – che è un piano del reale – le pratiche del conflitto hanno prodotto degli effetti, e il nome di Roma è subito rimbalzato all’estero con forza, sui media internazionali, assieme a quello di Milano, dove gli studenti hanno sanzionato banche e università private, e hanno sfidato i divieti della polizia a Porta Genova.

Anche a Torino lo sciopero sociale ha totalmente surclassato il corteo della Cgil, numericamente minoritario rispetto a quello studentesco e precario. L’astensione dalla scuola e dal lavoro è stata occasione per attraversare la città in lungo e in largo per occupare e danneggiare sedi di apparati finanziari e di istituzioni politiche, sedi distaccate di ministeri, fino alla riappropriazione di un ulteriore spazio abitativo per gli studenti universitari e i borsisti, la Verdi 3.0. La polizia si è mostrata del tutto incapace di gestire la situazione, generalizzata tra Torino e la valle, dove il movimento No Tav si sta opponendo alle trivellazioni di Susa e ha occupato autostrada e statali la scorsa notte, e si sta scontrando con la polizia in questo momento (sera del 14).

A Napoli, città reduce da una giornata di rabbia contro i ministri del governo Monti, è stata occupata la stazione, come a Palermo; a Bologna, a Genova, a Catania, a Pisa, a Modena, a Bergamo la pratica dello sciopero metropolitano ha paralizzato gli spostamenti e imposto centralità alla rabbia sociale contro la crisi, riuscendo a trasformare un simulacro vuoto – lo sciopero composto e politicamente militarizzato della Cgil – in un dispositivo di accensione degli animi, di riappropriazione degli spazi, di attacco contro i palazzi del potere (anche quando il sindacato è il potere, come a Bologna dove è stata occupata la Cisl), di resistenza contro i suoi apparati repressivi. Apparati violenti, ma in palese crisi operativa in molte circostanze: se a Torino la sede della provincia è stata invasa e saccheggiata da centinaia di persone senza che le forze dell’ordine riuscissero a manifestarsi, dopo esser state costrette alla ritirata già in due occasioni, i reparti celere a Brescia e Roma si sono abbandonati alle consuete provocazioni, dalle cariche a freddo alle violenze gratuite sui fermati.

Il dato fondamentale del #14N italiano è insomma il seguente: dopo anni di passività assoluta e di imbrigliamento politico delle forze sociali, qualcosa si sta muovendo. In una sola giornata abbiamo dato l’assalto alle nostre città ognuno con i propri mezzi, nei limiti delle possibilità offerte dai contesti, ma l’abbiamo fatto con dei risultati. Ciò è stato possibile perché sapevamo di essere tanti e in tanti luoghi contemporaneamente, e tutti sapevamo che l’Italia giovane e precaria, ovunque sia, lotta, non passeggia; sapevamo e sappiamo che in Italia l’aria sta cambiando molto, troppo lentamente… ma sta cambiando. E tutti insieme abbiamo azzerato le disoneste messinscene delle burocrazie sindacali con la nostra sola presenza nelle piazze, e conquistato la scena politica ben al di là e oltre il dato spettacolare che interessa a giornali e tv. Una situazione trionfale? No: un minuscolo passo avanti nella trasformazione che dobbiamo compiere, utile proprio perché ce ne aspettano mille altri.

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