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13 marzo 2012

Gaza: Mirati O Indiscriminati Sono Omicidi
di Michele Giorgio

Un fragile e non dichiarato cessate il fuoco regna dalla scorsa notte lungo le linee tra Gaza e Israele. Ieri una nuova giornata di intensi raid aerei con sette morti palestinesi. In totale da venerdi' sono 25. Decine i feriti

Gaza, 13 marzo 2012, Nena News – «Colpiremo chiunque intenda colpire i nostri cittadini… la forza dei nostri cittadini e le nostre capacità offensive e difensive ci permettono di agire in maniera precisa». L’avvertimento lanciato dal premier israeliano Netanyahu ha trovato per tutto il giorno di ieri conferme sul terreno. Una ondata di raid aerei si è abbattuta su Gaza facendo anche vittime civili. A Beit Lahiya un missile ha ucciso l’anziano Muhammad al-Hasoumi e sua figlia Alia; a Sudaniyeh l’esplosione di un altro missile ha dilaniato Nayef Qarmout, un 15enne che giocava con i suoi compagni di classe davanti alla scuola (Israele però nega un suo coinvolgimento). Qualche ora prima, vicino Khan Yunis, invece erano stati fatti a pezzi da un razzo aria-terra due militanti del Jihad Islami. In tarda serata altri due morti. In poche ore il bilancio dei quattro giorni di bombardamenti israeliani è salito a 25 morti. Decine i feriti, tra i quali anche donne e bambini, in gran parte vittime di attacchi aerei alla periferia del campo profughi di Jabaliya. Per il portavoce militare i cacciabombardieri a Jabaliya avrebbero colpito un deposito di armi ma i palestinesi denunciato danni a due edifici civili.

La reazione dei gruppi armati palestinesi ieri si è intensificata e non è bastato il sistema di difesa «Iron Dome» a fermare i razzi diretti verso le regioni meridionali di Israele. Due razzi hanno colpito Gedera, a sud di Tel Aviv, l’obiettivo più lontano raggiunto sino ad oggi da un Grad sparato da Gaza. Un razzo ha centrato e danneggiato un edificio di Ashdod causando il ferimento leggero di una donna. Altri razzi sono caduti in campo aperto nel Neghev costringendo le autorità locali a tenere chiuse le scuole e decine di migliaia di persone sono rimaste per ore tra casa e i rifugi. Jihad islami e i Comitati di resistenza popolare hanno annunciato che non accetteranno il cessate il fuoco sino a quando proseguiranno i bombardamenti israeliani e hanno esortato le altre fazioni palestinesi «ad unirsi alla lotta», in evidente riferimento ad Hamas.

Di fronte al bombardamento di Gaza, il movimento islamico, che controlla Gaza, sta tenendo una posizione di basso profilo, in linea con le sue recenti scelte «moderate», che non pochi trovano ambigue.  Il governo di Hamas allo stesso tempo ha inviato una delegazione al Cairo incaricata di cooperare con i mediatori egiziani nella ricerca di un accordo di cessate il fuoco. Ma non ha ottenuto molto. Secondo il deputato islamista Younis al-Astal, l’Egitto avrebbe offerto di aumantare le forniture di carburante alla Striscia di Gaza, in cambio della fine dei lanci di razzi.

Ieri sono giunte le dichiarazioni rituali di varie parti internazionali che non cambiano nulla sul terreno, a cominciare dal blocco israeliano di Gaza che va avanti dal 2007, da quando Hamas ha preso il potere. «Israele e le milizie palestinesi di Gaza dovrebbero astenersi da «azioni provocatorie», recita lo sterile comunicato diffuso dal Quartetto per il Medio Oriente (Russia, Usa, Onu e Ue). «Grave preoccupazione» ha espresso il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, inquieto per il prezzo che stanno pagando i civili. Da parte sua il segretario di stato Usa Hillary Clinton ha condannato «nei termini più duri il lancio di razzi da Gaza» e ha esortato «entrambe le parti a compiere ogni sforzo per ristabilire la calma». Poco prima una portavoce dell’amministrazione Obama aveva dato pieno sostegno al «diritto all’auto-difesa di Israele».

Governi occidentali e buona parte media internazionali continuano a ripetere che l’escalation è la conseguenza dei lanci di razzi. Eppure gli stessi giornali israeliani riferiscono che la tregua è saltata in seguito alla decisione del governo Netanyahu di «eliminare», venerdì scorso, Zuhair Qaisi, il segretario dei Comitati di resistenza popolare, accusato di aver organizzato l’attacco dello scorso agosto, via Sinai, nei pressi di Eilat in cui furono uccise otto persone, tra cui diversi soldati (in quell’occasione Israele lanciò una rappresaglia che costò la vita a 14 palestinesi). Sul Jerusalem Post Yaakov Katz ha scritto che quando le forze armate e governo hanno dato luce verde all’assassinio «mirato» di Qaisi, conoscevano bene le conseguenze e stimavano in un centinaio di razzi al giorno la reazione palestinese, quindi sopportabile. In altre parole Israele sapeva che ci sarebbe stata una rappresaglia. Ma ha agito ugualmente perché, spiega Katz, occorre «falciare il prato» quando si ha a che fare con il «terrorismo», ossia bisogna rafforzare la propria «capacità di deterrenza» e rinviare la prossima tornata di violenza il più a lungo possibile.
Salvo poi innescarla proprio a causa delle «esecuzioni mirate», come ha spiegato Gideon Levy su Haaretz. Le autorità politiche e militari israeliane approvano gli «omicidi mirati» di palestinesi ogni volta che possono, senza curarsi di ciò che comporta, usando come pretesto l’urgenza di impedire attentati. Nena News