Internazionale, numero 931, 13 gennaio 2012
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15 gennaio 2012

Israele minaccia una nuova guerra
di Gideon Levy
Traduzione di Marina Astrologo.

La situazione è chiara. Khaled Meshal, il capo di Hamas, ha ordinato all’ala militare della sua organizzazione di sospendere gli attacchi terroristici contro Israele, dicendo che si limiterà alla protesta popolare.

Hamas si dichiara favorevole a uno stato palestinese nei confini del 1967, e l’Autorità Nazionale Palestinese si è detta disposta a rinunciare – in cambio di cento suoi prigionieri detenuti nelle carceri d’Israele – alla richiesta di congelare la costruzione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, avanzata finora come precondizione per la ripresa delle trattative di pace. Che altro vogliono gli israeliani?

Purtroppo la situazione è chiara anche sull’altro versante: Israele continua a ignorare i cambiamenti nelle posizioni dei palestinesi. Quasi tutti i mezzi d’informazione si dedicano sistematicamente a confondere le acque. Fonti degli apparati di sicurezza dicono che si tratta solo di mosse tattiche. Inoltre Israele respinge le condizioni assolutamente accettabili poste dall’Anp con la solita serie di ripetuti “no”.

Ma stavolta lo stato ebraico non si accontenta: all’improvviso, nel terzo anniversario dell’operazione Piombo fuso scatenata a Gaza, si leva dagli alti gradi militari un coro di minacce di un nuovo attacco contro la Striscia. Il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, insieme all’ex capo del comando meridionale e al comandante della brigata sud, sostengono all’unisono che non ci sono alternative a un Piombo fuso II. Il comandante della brigata ha addirittura promesso che la nuova edizione sarà “più dolorosa” e “più energica” della prima. Come dice, signor comandante? Più dolorosa della prima operazione Piombo fuso?

Lasciamo perdere il costante rifiuto israeliano del processo di pace. Perché si sa, noi israeliani prendiamo sul serio i palestinesi solo quando parlano di guerra e di terrorismo, mentre quando parlano di pace e di trattative li ignoriamo. Ma cos’è questa storia di un nuovo attacco a Gaza? Perché? Cos’è successo? Qualcuno è in grado di spiegare questo brutto e stonato rullo dei tamburi di guerra, a parte l’esigenza innata di Israele di minacciare continuamente?

Bisognerebbe ricordare al capo di stato maggiore dell’esercito che la prima operazione Piombo fuso ha inflitto a Israele danni enormi. Magari dalle basi militari non se ne saranno accorti, ma da allora l’opinione pubblica mondiale ha cambiato completamente atteggiamento verso Israele, isolandolo come mai era accaduto prima. Le immagini trasmesse da Gaza si sono impresse per sempre nella coscienza del mondo.

Ed ecco un altro promemoria per i comandanti militari: sotto i nostri occhi sta prendendo forma un Egitto nuovo, un paese che probabilmente non se ne starebbe a guardare nel caso di un nuovo brutale attacco a Gaza. Gli esponenti dei Fratelli musulmani che in questi mesi si stanno affermando sulla scena politica egiziana sono fratelli di Hamas, e sarebbe meglio non andare a stuzzicarli quando non occorre.

Nei primi giorni dell’anno i comandi militari israeliani hanno comunicato tutti fieri che nel corso del 2011 a Gaza le nostre truppe hanno ucciso cento palestinesi mentre di israeliani, grazie a Dio, ne è stato ucciso solo uno. Insomma, abbiamo fatto “un passo avanti” rispetto al raccapricciante conteggio delle vittime dell’operazione Piombo fuso: allora la proporzione è stata 1 a 100, ma nel secondo anno successivo è stata praticamente 0 a 100. Un affarone.

Le raffiche di razzi contro il sud di Israele, anche se intollerabili, sono state sparate quasi tutte per reazione alle operazioni omicide dell’esercito israeliano a Gaza. E allora perché abbiamo bisogno di un’altra guerra? Se Israele volesse davvero cercare la pace, si affretterebbe ad accogliere con favore i cambiamenti nelle posizioni dei palestinesi.

Se il governo fosse stato un po’ più ragionevole, almeno avrebbe lanciato una sfida: liberiamo cento prigionieri di Al Fatah e torniamo al tavolo delle trattative. Anziché incoraggiare la moderazione – autentica o tattica che sia – Israele si affretta a strozzarla nella culla. E allora perché Hamas dovrebbe diventare moderato, se la reazione israeliana è minacciare Gaza? E perché Abu Mazen dovrebbe dar prova di disponibilità se lo stato ebraico reagisce sempre con un rifiuto? Siamo forse troppo presi a contrastare l’estremismo degli ebrei ultraortodossi per poterci occupare degli altri nostri problemi, che sono più importanti?

Oggi Israele non ha assolutamente alcun motivo di scatenare un altro attacco a Gaza. Nulla danneggia di più lo stato ebraico della mancanza di una soluzione al conflitto con i palestinesi. E allora, forse, sembrerà noioso tornare a chiedere: se la risposta è no e ancora no, a cosa gli israeliani diranno di sì? Se dicono no all’Anp e no ad Hamas, no al presidente palestinese Mahmoud Abbas e no a Khaled Meshal, no all’Europa e no anche agli Stati Uniti, a chi mai diranno di sì? Ma soprattutto, dove sta andando il paese?

La situazione effettivamente è chiara. Ed è molto preoccupante.