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Domenica 11 Novembre 2012 16:41

Israele: una società divisa
di Giorgio Gallo

Nel 2006 l’uso da parte dell'ex presidente americano Jimmy Carter della parola “apartheid” nel titolo del suo libro sulla Palestina suscitò forti polemiche e durissime critiche, sia negli USA che in Israele. Il libro fu considerato offensivo e ai limiti dell'antisemitismo. Sembra che ora le cose siano cambiate e che, in un certo senso, il termine sia stato ‘sdoganato’ anche in Israele, ma non per il meglio. Secondo i risultati di una indagine, pubblicati su Haaretz lo scorso 23 ottobre, “la maggioranza degli ebrei israeliani sarebbe a favore di un regime di apartheid in Israele, nel caso di annessione formale della Cisgiordania”, e il 69% sarebbe contrario a dare ai palestinesi dei territori annessi il diritto di voto. È vero che la maggior parte degli ebrei israeliani resta contraria all'annessione, ma è anche vero che la situazione di occupazione attuale, contro la quale pochissimi in Israele si mobilitano, costituisce un’annessione de facto anche se non de iure. Inoltre “una maggioranza è anche a favore di una discriminazione nei riguardi dei cittadini arabi di Israele”. È interessante il fatto che il 58% degli ebrei israeliani ritenga che già oggi sia in vigore una politica di apartheid nei riguardi degli arabi in Cisgiordania. Il fatto che termine non solo non crei più scandalo, ma anzi che abbia connotazioni positive, è uno degli effetti di una progressiva radicalizzazione del senso comune all’interno della società israeliana, anche come conseguenza del protrarsi del conflitto.

Già prima della formazione dello Stato di Israele esisteva in Palestina una corrente sionista ultra-nazionalista che predicava un regime ebraico monolitico e che si opponeva alla divisione del paese. La formazione dello Stato e un’arena politica monopolizzata dal Mapai (i laburisti) al governo, e dall'opposizione di destra relativamente pragmatica dell'Herut (successivamente Likud) aveva fatto almeno apparentemente scomparire l'estrema destra ultra-nazionalista. È dopo la guerra dei sei giorni, con l’occupazione di tutta la Palestina, che l'estrema destra ricompare, sia pure con caratteristiche per certi versi nuove. Gush Emunim, il Blocco dei Fedeli, si forma agli inizi degli anni ‘70 ed è all’origine della politica degli insediamenti. Il suo forte sentimento religioso e messianico introduce una nuova componente nella ideologia della destra nazionalista. La realizzazione degli insediamenti non è solo un atto politico, ma ha un senso metafisico: è la realizzazione di un comandamento religioso. Nello stesso periodo nasce il partito Kach del rabbino Kahane, di ispirazione chiaramente razzista. Un impatto importante hanno gli accordi di Camp David, considerati un tradimento, che spingono alcune frange dell'estrema destra verso ‘strategie extra-legali’, e alla nascita di un movimento clandestino che programma attentati contro gli arabi.

Ma al di là dei diversi gruppi e partiti dell'estrema destra nazionalistica, ciò che è molto preoccupante è la diffusione di una cultura caratterizzata da estremismo nazionalista, messianismo e razzismo che si trova presente in diversi settori della società israeliana. Secondo una stima del ricercatore Ehud Sprinzak agli inizi degli anni ‘90 questa cultura estremista si ritrovava nel 20-25% dei cittadini ebrei di Israele, e si poteva avvertire dovunque: nelle scuole, nei partiti politici, nell'esercito, nei mercati e nelle sinagoghe. Oggi la cultura dell'estrema destra radicale è fortemente presente nell'establishment politico israeliano, e ne determina le politiche in un'ampia gamma di settori. Il governo cede sistematicamente di fronte alle richieste dei coloni, le limitazioni per i non ebrei in Israele sono andate aumentando negli ultimi anni, e diversi attivisti della destra più radicale hanno assunto posizioni di rilievo nella élite del paese. È il caso dell'attuale ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ultra-nazionalista e razzista a un punto tale che, in occasione di un incontro franco-isreliano nel giugno 2009, l'allora presidente francese Sarkozy chiese a Netanyahu di liberarsene, paragonandolo al francese Le Pen.

La violenza e il sentirsi al di sopra della legge civile da parte di quella componente della destra radicale che fa riferimento ai coloni si è andata concretizzando negli ultimi anni in una strategia particolarmente aggressiva che va sotto il nome di “Price Tag” (Kershner, 2008). L'idea è di “rispondere sempre, ovunque e comunque” a qualsiasi azione contro i cosiddetti insediamenti illegali e contro i coloni messa in pratica non solo da parte palestinese, ma anche da parte dell'esercito israeliano o della polizia. A ciascuna di queste azioni si attacca idealmente una etichetta con un prezzo, chiamata appunto price tag, da far pagare a volte anche ai militari israeliani (ci sono stati attacchi di basi militari con la distruzione di materiale e veicoli), ma più frequentemente ai palestinesi con lancio di pietre, azioni vandaliche contro case, moschee e chiese, e distruzione di coltivazioni. Ad esempio lo scorso giugno, a seguito dell'ordine della Corte Suprema di smantellare diversi outpost su terre palestinesi, piccoli insediamenti provvisori costituiti da roulottes o containers con i quali si vuole creare un fatto compiuto e costituire un avamposto con l'obiettivo di arrivare a un insediamento vero e proprio, dimostranti in Gerusalemme hanno messo a fuoco delle proprietà pubbliche, e degli estremisti hanno imbrattato i muri nel villaggio misto arabo-ebreo di Neve Shalom all'interno di Israele scrivendo la frase “morte agli arabi” (Byman e Sachs, 2012).

A questo atteggiamento aggressivo si accompagna la volontà dei coloni di resistere con tutti i mezzi agli eventuali tentativi di evacuazione. Secondo un'inchiesta dell'Università Ebraica del 2010, il 54% dei coloni non riconosce l'autorità del governo a evacuare gli insediamenti, e il 21% è disposto a resistere anche l'uso delle armi. E le armi certamente non mancano. Infatti sin dal 1979 l'importante compito di mantenere la sicurezza a livello territoriale nei territori occupati è stato affidato alle Unità di Difesa Regionale, milizie locali composte da coloni riservisti armati. Da una indagine condotta da Maagar Mochot, un istituto di ricerca israeliano, nel febbraio 2010 risulta che il 48% degli studenti di liceo israeliani disobbedirebbe a eventuali ordini di evacuazione di insediamenti.

Alla frattura che nella società israeliana produce la presenza di una così forte destra nazionalista e razzista si aggiungono, con essa intersecandosi, le divisioni di tipo etnico, alcune molto vecchie e altre più recenti. La principale è quella fra gli ebrei provenienti dall'Europa, gli Ashkenazi, e quelli provenienti dal mondo arabo, i Mizrahim. I primi hanno tradizionalmente costituito la classe dirigente e comunque la parte più ricca della popolazione. I secondi, più poveri e discriminati, avevano però finito per avere un peso politico particolarmente rilevante, contribuendo alla sconfitta del partito laburista e alla vittoria della destra del Likud. Alla fine degli anni ‘80 con la fine dell'Unione Sovietica le cose sono cambiate fortemente. Il milione circa di russi immigrati fra il 1989 e il 2001 ha inserito nel panorama sociale e politico israeliano una nuova componente etnica. Una comunità abbastanza coesa, che si differenzia dal resto della società costituendone un settore separato dal punto di vista linguistico, culturale e sociale, con i suoi quartieri, mass media, associazioni di volontariato e partiti politici. Si tratta di una comunità caratterizzata da un livello culturale relativamente alto e quindi con un forte vantaggio competitivo sul mercato del lavoro rispetto ai Mizrahim. Oggi il partito di estrema destra Yisrael Beytenu che rappresenta la comunità russa è il terzo partito nella Knesset e il suo leader Avigdor Lieberman è il ministro degli esteri nel governo di Netyanahu.

Un altro aspetto delle tensioni etniche esistenti in Israele è legato alla crescente presenza di immigrati provenienti da diversi paesi dell'Asia e dell'Africa. Si tratta di un fenomeno che ha origine con gli accordi di Oslo quando iniziò il processo di sostituzione della manodopera palestinese con gli immigrati, una manodopera poco costosa, facile da usare, senza diritti né rivendicazioni politiche, e soprattutto non musulmana. Inoltre i permessi erano limitati a 5 anni. Lavoratori che potevano essere usati e scartati a piacere. Il problema è che col tempo è andato aumentando il numero di quelli che sono rimasti nel paese dopo i 5 anni o che vi sono entrati illegalmente, spesso provenienti da paesi in guerra, alla ricerca di asilo. Si parla di 100.000 lavoratori regolari e di circa 150.000 irregolari. Molti si sono sposati e hanno figli nati in Israele, la cui lingua madre è l'ebraico, ma questo non li salva da possibili espulsioni. Sempre più frequenti sono in Israele le manifestazioni razziste soprattutto contro gli immigrati provenienti dai paesi africani. Il partito più fortemente xenofobo e aggressivo verso gli immigrati è lo Shas, il partito ultra-ortodosso degli ebrei di origine orientale, i Mizrahim, che accusa i lavoratori stranieri di diffondere l'alcolismo e l'uso delle droghe, e di rubare il lavoro agli israeliani. Come spesso accade, sono le fasce più povere della popolazione, e quindi i Mizrahim, che si sentono maggiormente minacciati dagli immigrati.

Come ha scritto Michal Schwartz: “Nella sua lotta per una maggioranza ebrea, Israele non sa ciò che vuole. Vuole liberarsi dei palestinesi, ma non rinunciare all'occupazione. Vuole “lavoratori stranieri”, ma non vuole che si vedano nelle strade. Vuole essere democratico, ma limita i diritti della minoranza araba. Israele è prigioniero delle sue contraddizioni senza una strategia per risolverle – eccetto nascondere la testa nella sabbia. Il risultato è che lentamente sta perdendo la sua maggioranza ebraica e viene spinto verso il razzismo contro un crescente numero di gruppi. Giorno per giorno Israele sta perdendo la sua legittimità nella comunità internazionale”.

Oltre alle linee di divisione che fanno riferimento, in modi diversi, al nazionalismo ebraico e alle appartenenze etniche, un’altra linea di frattura potrà avere conseguenze particolarmente gravi per la tenuta della società israeliana. Si tratta della linea che separa laici e religiosi, e che corre fra i diversi gruppi all'interno di una stessa confessione religiosa. Si tratta di una linea di divisione in parte trasversale rispetto alle precedenti, ma che in parte vi si sovrappone.

La presenza degli ebrei ortodossi e ultra-ortodossi sta crescendo a tutti i livelli nella società israeliana, con effetti sempre più evidenti. Gli ebrei ultra-ortodossi con il loro altissimo tasso di natalità (7-8 figli per donna in media) sono arrivati a essere circa 750.000, il 10% di tutta la popolazione, e il 20% se si considerano i bambini di prima elementare. Gli ultra-ortodossi per molto tempo hanno costituito una comunità abbastanza separata ed estranea rispetto allo Stato di Israele. Ma, al contrario dei più anziani nati nella diaspora, i giovani, nati in Israele, sono molto più integrati e danno ormai per scontato lo Stato. Non se ne sentono estranei, ma anzi tentano di influenzarne la vita, diventando sempre più aggressivi nel tentativo di imporre le loro regole a tutta la società. Ad esempio quelle che riguardano la segregazione di genere. Ha avuto una forte eco nei media il caso di quella donna che nel dicembre scorso, su un autobus a Gerusalemme, è stata invitata ad alzarsi dal posto che occupava per spostarsi ad uno posteriore. La segregazione negli autobus è stata dichiarata illegale dalla Corte Suprema, ma permessa se su base strettamente volontaria. In effetti gli autobus delle linee che collegano le aree abitate da ultra-ortodossi sono spesso segregati (uomini davanti e donne dietro). Ci sono anche aree in cui si è cercato di imporre una segregazione nei marciapiedi (da una parte gli uomini e dall'altra le donne), e nelle quali donne, o anche bambine, vestite in un modo considerato non adeguatamente modesto, sono state insultate e aggredite anche fisicamente.

Uno dei settori in cui sta visibilmente crescendo la presenza degli ortodossi e anche degli ultra-ortodossi è l'esercito israeliano, l’Israeli Defence Force (IDF). In un paese di immigrati come Israele, l’IDF ha tradizionalmente svolto un ruolo fondamentale nell'integrazione di cittadini, uomini e donne, provenienti da diverse paesi, da diverse culture e di diverso orientamento religioso, svolgendo un ruolo educativo che metteva al suo centro i valori condivisi dell'ebraismo e del sionismo. Anche qui le cose sono andate progressivamente cambiando, con il comparire di forme di segregazione militare. Da un lato, c'è la costituzione di reparti speciali per gli ultra-ortodossi. Già esiste un battaglione formato solamente da ultra-ortodossi, e si sta studiando la costituzione della prima unità di commando tutta composta da Haredim ultra-ortodossi (Harel, 2012). È un primo effetto della decisione della corte suprema di dichiarare inefficace la legge che permetteva l'esenzione dal servizio militare degli studenti delle scuole religiose ultra-ortodosse. Dall'altro lato, c'è di nuovo il problema della segregazione di genere. Si chiede con sempre maggiore insistenza che uomini e donne siano inquadrati in unità di combattimento separate, e che si eviti il più possibile il contatto fra soldati dei due sessi.

Ma la crescita degli ortodossi ha anche altri effetti di tipo ideologico. “Oggi oltre un quarto degli ufficiali giovani indossa la kippah” ha dichiarato un generale all'International Crisis Group che ha dedicato parte del suo rapporto del 2009 a questo fenomeno. “Nelle unità di combattimento la loro presenza è due o tre volte il loro peso demografico. Nelle forze speciali è anche maggiore”.

Molti militari vengono preparati nelle scuole religiose. La hesder yeshiva è una sorta di accademia religiosa in cui gli studenti (tutti maschi) per 5 anni dividono il loro tempo fra la Torah e l'istruzione militare. Ne esistono circa 50 in Israele, in generale finanziate dal governo. I militari che escono da queste scuole sono molto orientati ideologicamente a favore dell'occupazione e in diverse occasioni hanno dichiarato la loro indisponibilità a obbedire a ordini di evacuazione di insediamenti “illegali”. Ci sono poi anche i “pre-army Torah college”, dove le reclute possono studiare un anno prima del servizio militare. Il nazionalismo ha cominciato a prendere piede fra gli ebrei ortodossi dopo la guerra dei sei giorni, e questo ha portato a un significativo e crescente numero di religiosi altamente motivati fra le reclute. Tra l'altro mentre gli ebrei secolari sempre più considerano il servizio militare come un obbligo, da svolgere nel modo meno impegnativo possibile, i religiosi nazionalisti tendono a scegliere le unità di combattimento e quelle d'élite. Se il trend continua, nel giro di pochi anni la maggior parte dei comandanti di brigata saranno religiosi nazionalisti.

Le conseguenze di ciò si sono manifestate nella recente operazione Piombo Fuso a Gaza. Un riservista ha affermato che, durante l'operazione Piombo Fuso a Gaza, si è trovato ad ascoltare nella sua base militare il discorso di un rabbino dell'esercito, che spiegava coma la battaglia di Gaza fosse una battaglia fra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre” (Press, 2010). Si tratta di espressioni che nella letteratura ebraica fanno riferimento alla guerra escatologica o messianica. In uno dei pamphlet distribuiti dal rabbinato militare, sempre durante la guerra di Gaza, si invitavano i soldati a non avere pietà per i nemici. In un altro si poneva la domanda “È possibile comparare i palestinesi di oggi ai filistei del passato?” La risposta era “Il paragone è possibile perché i filistei del passato non erano nativi. (…). I palestinesi pretendono di avere il diritto a uno stato qui, quando in realtà non è mai esistito uno stato palestinese o arabo all'interno dei confini di questo paese”.

Ulteriormente preoccupante è il fatto che dalla fine degli anni '90 anche gli ultra-ortodossi hanno cominciato a essere coinvolti nel processo di colonizzazione dei territori occupati. Due sono gli insediamenti ultra-ortodossi, Beitar Illit e Modi'in Illit. Il primo, vicino a Betlemme, è l'insediamento che cresce più velocemente. Si prevede che in un decennio passi dagli attuali 35.000 ai 100.000 abitanti. Il secondo è più grande ed è in parte costruito sulle terre dei villaggi palestinesi di Bil'in e Nili'in, noti per la lotta popolare che da diversi anni stanno portando avanti per riottenere le proprie terre. Anche se la motivazione ufficiale che giustifica questi insediamenti è quella della necessità di abitazioni, tuttavia sempre di più le posizioni degli ultra-ortodossi si stanno avvicinando a quelle dei religiosi nazionalisti. Indagini di opinione recenti indicano che di tutte le comunità in Israele quelle ultra-ortodosse sono le più contrarie a negoziati con i palestinesi e a ulteriori evacuazioni. La loro posizione può essere nel migliore dei casi espressa così: “La terra non è loro. Il massimo in cui possono sperare è di ottenere i diritti individuali di colui che la Torah chiama 'residente straniero', lo straniero che riconosce pienamente l'egemonia della nazione ebrea e al quale di conseguenza è permesso di avere un pieno diritto individuale di residenza”. Ma ci sono coloro che vanno al di là chiedendo l'espulsione dei palestinesi.

Questo quadro fornisce un'idea dei notevoli problemi che la società israeliana sta affrontando e delle preoccupanti dinamiche che in essa si stanno sviluppando. Si tratta di dinamiche che in parte sono originate dal modo con cui lo Stato è nato, ma che sono anche l'effetto di un lunghissimo conflitto che nessuno in Israele ha voluto affrontare con coraggio e visione. Un conflitto che, come è stato detto da diverse parti, sta cambiando radicalmente il paese e ne sta distruggendo quella, in parte solo presunta, democrazia di cui tanto si vanta.

Le conseguenze di queste dinamiche rendono del tutto irrealistica l'ipotesi dei due stati, già per altro svuotata dalla sistematica colonizzazione della Cisgiordania, ma rendono anche molto improbabile la realizzazione di uno stato bi-nazionale. Forse l’unica speranza è che i democratici in Israele si rendano conto che la democrazia è indivisibile e che essi hanno molto più in comune con chi in Palestina porta avanti una lotta popolare contro l'occupazione e per la pace di quanto non ne abbiano con la destra radicale, razzista, nazionalista o religiosa del proprio stesso paese. Da ciò potrebbe nascere in Israele-Palestina un impegno comune per la democrazia e per la giustizia, che attraversi le frontiere fisiche, etniche e religiose.

Riferimenti bibliografici

Byman D. e N. Sachs, “The Rise of Settler Terrorism - The West Bank’s Other Violent Extremists”, Foreign Affairs, settembre-ottobre 2012.

 

Harel, A., “IDF planning first ultra-Orthodox commando unit”, Haaretz, 18 ottobre 2012.

 

Kershner, I., “Radical Settlers Take On Israel”, New York Times, 26 settembre 2008.

 

Press, E., “Israel’s Holy Warriors”, The New York Review of Books, 29 aprile 2010.

 

Schwartz, M., “Help! Racism!”, Challenge, 7 gennaio 2011.

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