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23 ott, 2012

La tossicità a lungo termine degli Ogm

Quando alla fine degli anni Ottanta gli Ogm si apprestavano ad arrivare sul mercato, venne introdotto il principio di sostanziale equivalenza, tale per cui gli Ogm sono considerati sostanzialmente equivalenti alle controparti non modificate, eliminando così la necessità di condurre test a lungo termine degli effetti indotti dal loro consumo. Molti scienziati (e gran parte dell’opinione pubblica) contestano da sempre questo principio, sostenendo che le modifiche introdotte nel Dna non forniscono alcuna certezza su quanto può avvenire nel lungo termine. Come sostiene, ad esempio, Marcello Buiatti, docente di genetica dell’Università di Firenze “il controllo di eventuali rischi è stato affidato all’EFSA, l’Agenzia Europea per la sicurezza alimentare, le cui linee guida per l’analisi del rischio risultano inadeguate. In particolare, gli esperimenti di valutazione dell’eventuale tossicità degli Ogm devono essere condotti su un arco temporale di soli 90 giorni, un periodo che permette lo studio della tossicità a breve termine, ma che spesso non è sufficiente per evidenziare una serie di malattie, tra cui i tumori, che si manifestano su tempi più lunghi. Inoltre, le linee guida impongono solo poche delle possibili analisi che potrebbero essere condotte sui ratti trattati, tralasciando importanti studi fisiologici, metabolici e anatomico-funzionali”. Nasce così, tra le atre cose, anche la richiesta di condurre studi in questa direzione, ora qualcuno questi studi ha provato a farli.

Il 19 settembre scorso è stato reso pubblico un nuovo studio che cerca di far luce proprio sulle conseguenze a lungo termine di un’alimentazione in cui sono presenti organismi geneticamente modificati. Il lavoro, condotto da un gruppo di ricercatori italiani e francesi guidati dal professor Gilles-Eric Séralini, ha esaminato per due anni 200 ratti nutriti con mangimi contenenti Ogm in percentuali variabili. In particolare l’Ogm utilizzato è un mais Monsanto, l’NK603, modificato per conferirgli resistenza al glifosato, un erbicida commercializzato col nome di Roundup.

Come affermano gli stessi autori, da soli i risultati dello studio non possono considerarsi risolutivi nel dibattito ancora aperto sui possibili effetti per la salute umana e animale del consumo di Ogm, ma «il lavoro è stato pubblicato su una rivista internazionale peer-reviewed (Food and Chemical Toxicology, ndr), cosa che garantisce la validità scientifica dello studio e la serietà professionale del team che ci ha lavorato, perché se così non fosse, significherebbe mettere in discussione la rivista intera e tutti coloro che a vario titolo ci lavorano», commenta il prof. Federico Infascelli, ordinario di Nutrizione animale all’Università di Napoli Federico II.

I dubbi e quesiti che lo studio di Séralini apre sono sicuramente preoccupanti anche perché, continua il prof. Infascelli: «Gli autori mettono a confronto materiali e metodi da loro impiegati con quelli di lavori precedenti volti a dimostrare la non tossicità degli Ogm, che risultano essere per molti aspetti molto più incompleti di questo».

Il fatto che non siano mai stati riscontrati effetti collaterali immediati in seguito al consumo di Ogm, vuol dire che essi non presentano tossicità immediata, ma quanto si conosce degli effetti cronici o sub-cronici legati all’ingestione di quantità ridotte per un periodo prolungato di tempo? Gli studi tossicologi normalmente condotti per l’approvazione di un alimento geneticamente modificato durano solo 90 giorni, mentre l’analisi di Séralini osserva gli effetti su un arco temporale di due anni. Si tratta di studi complessi, non solo per la lunga durata e l’alto numero di animali, ma anche perché i mais gm utilizzati soggiacciono a un brevetto, in genere di proprietà di una qualche multinazionale, che non sempre li concede con facilità per questo tipo di analisi. I 200 ratti analizzati in questo periodo sono stati divisi in quattro gruppi: il primo è stato alimentato con mais gm non trattato con l’erbicida, il secondo con mais gm trattato con il Roundup, il terzo con mais convenzionale, ma diluendo nell’acqua una certa dose di Roundup e il quarto era il gruppo di controllo nutrito con mangimi convenzionali e senza erbicida nell’acqua. Su questi animali sono state valutate la mortalità a lungo termine, la comparsa e l’estensione di masse tumorali e le possibili malattie metaboliche, fisiologiche e anatomiche. L’analisi dei risultati ha evidenziato che i primi tre gruppi hanno fatto tutti registrare tassi di mortalità molto più alti, oltre che forti danni e alterazioni alla funzionalità di fegato e reni.

Aldilà delle preoccupanti differenze di mortalità e del fatto che questo rappresenta il primo studio di così lunga durata, è interessante osservare che per la prima volta sono state studiate le conseguenze dell’alimentazione di mangimi trattati con l’erbicida, così come viene impiegato in campo e come poi si può eventualmente ritrovare come residuo nei cibi o nei mangimi che vengono venduti. Generalmente, infatti, a venire testati sono gli effetti del solo principio attivo presente nell’erbicida, decontestualizzandolo rispetto alla soluzione in cui è disciolto quando viene commercializzato, cosa che fa una certa differenza dal momento che nella soluzione si trovano anche diversi coadiuvanti che aiutano l’azione del principio attivo. Nello studio di Séralini, la concentrazione di Roundp nell’acqua con cui venivano abbeverati i ratti era al di sotto della soglia autorizzata per l’acqua potabile, eppure bastava per indurre conseguenze sulla salute degli animali.

Ora il lavoro è al vaglio dell’ANSES, l’agenzia francese di sicurezza alimentare, e dell’EFSA, il cui parere è atteso per fine anno. Tuttavia, di fronte a studi di questo tipo risulta difficile non chiedersi perché non ci pensi l’EFSA a condurre questo lavoro di analisi e controllo, invece di lasciare la sperimentazione in mano alle stesse multinazionali che successivamente commercializzano i prodotti, e controllare che la documentazione che esse forniscono sia affidabile.

Servirebbe, in generale, che analisi così si facessero più spesso e che ci fosse una legge chiara sull’etichettatura degli alimenti, cosicché non solo siano riconoscibili i cibi contenenti Ogm (come indicati nei Regolamenti 1829 e 1830/2033/CE), ma anche i prodotti derivati (come carne e formaggi) da animali nutriti con mangimi gm.

Insomma, come sostiene Federica Ferrario, responsabile campagna Ogm di Greenpeace: «I risultati dello studio sono molto preoccupanti e per questo li andremo a verificare in modo approfondito. Resta il fatto che non ha senso correre rischi inutili, bisogna applicare il principio di precauzione e adottare subito una moratoria all’importazione e alla coltivazione di Ogm a livello europeo».

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