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11 ottobre 2012

Palestina. Perché Abbas punta sull'Onu?
di Stefano Nanni

Solo un anno fa un’accoglienza calorosa attendeva il presidente palestinese al suo rientro da New York. Ora l’atmosfera è decisamente diversa. Gli effetti della crisi economica si fanno sentire, ma Abbas sembra comunque intenzionato ad insistere con le Nazioni Unite.

Si respirava un’aria di eccitazione il 24 settembre di dodici mesi fa a Ramallah, dove Mahmoud Abbas fu accolto come un eroe al suo ritorno da New York.

“Sono andato alle Nazioni Unite per portare il vostro messaggio. Il mondo intero ha accolto la nostra richiesta di riconoscimento di uno Stato indipendente con grande rispetto ed apprezzamento”, queste furono le sue prime parole di fronte ad una folla in tripudio.

L’inviato di Al Jazeera scrisse che una tale popolarità del presidente era stata raramente osservata in passato. Una popolarità testimoniata dalla grande partecipazione alla festa che si tenne al quartier generale dell’ANP, la Muqataa.

Scuole, uffici e negozi chiusero in anticipo e i funzionari di al Fatah organizzarono dei pullman a Jericho, Nablus ed altre città e villaggi circostanti per permettere a quanti volessero di prendervi parte.

A distanza di un anno, sempre a Ramallah, le cose sembrano piuttosto diverse. L’entusiasmo palestinese è meno evidente, e il nuovo discorso di Abbas di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite è stato seguito con scarso interesse.

“A dire la verità, la gente qui pensa che siano soltanto chiacchiere, non crediamo più alle parole del presidente”, ha commentato un palestinese che ha seguito comunque il discorso.

In effetti al centro delle preoccupazioni palestinesi ci sono ben altre questioni. Inoltre, l’iniziativa diplomatica di Abbas è profondamente cambiata rispetto ad un anno fa.

Da un iniziale pieno riconoscimento dello Stato palestinese si è passati infatti ad una più semplice richiesta di 'ammissione' alle Nazioni Unite, come Stato non membro.

 

UN'AUTORITÀ IN CRISI

L’Autorità Nazionale Palestinese si è ritrovata ad affrontare in questi mesi una situazione che per gravità ricorda quella vissuta nel 2006, quando - a seguito della vittoria di Hamas - Stati Uniti ed Unione europea ridussero al minimo i loro finanziamenti.

La crisi fiscale e l’aumento dei prezzi di benzina e generi alimentari hanno provocato una serie di proteste di piazza che hanno animato le città di Hebron, Nablus, Ramallah e anche i campi profughi fino al mese scorso. 

Come ricordato recentemente da Ghada Karmi, l’economia è in ginocchio: la disoccupazione giovanile è al 40% e il budget risente della diminuzione dei fondi internazionale, senza i quali si verificano cronici ritardi nel pagamento di 153 mila dipendenti pubblici.

Ma la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso pare sia stata la decisione del governo Fayyad di portare l’IVA dal 14,5 al 15,5%, una misura resasi necessaria dato l’incremento di uguale portata verificatosi sulla corrispettiva tassa israeliana.

Le proteste hanno costretto il premier a rivedere l’aumento, ridotto di mezzo punto, e a dichiarare la crisi fiscale del suo governo.

Un resoconto della visione popolare sulla generale stagnazione economica è stato pubblicato il 24 settembre sul sito dell’Alternative Information Center dal Social and Economic Policies Monitor (Al Marsad).

Questo rapporto contiene anche delle previsioni molto negative per l’economia palestinese per i  prossimi cinque anni.

“Diversi sono i fattori che rendono critica la situazione: lo stallo politico, con elezioni presidenziali e legislative che vengono costantemente rimandate e la divisione tra Fatah ed Hamas; la disoccupazione, aumentata del 3% rispetto all’anno scorso; l’aumento del 40% dei prezzi dei generi alimentari dal 2007; ma soprattutto la dipendenza da Israele, in particolare per quanto riguarda i monopoli nel settore energetico".

Ed è quest’ultimo aspetto che lega inevitabilmente l’economia alla realtà dell’occupazione.

Ciò che la popolazione sembra chiedere, dunque, è la revisione, se non lo smantellamento degli accordi che regolano i rapporti economici tra Autorità palestinese e governo israeliano.

Si tratta del Protocollo di Parigi, un particolare allegato degli Accordi di Oslo.

Secondo il rapporto di Al Marsad è proprio “a causa del protocollo che, ad esempio, il prezzo della benzina nei Territori Occupati Palestinesi è così alto”.

Infatti oltre all’IVA è presente la cosiddetta ‘Tassa Blu’, che corrisponde ad un’imposta israeliana di 4 shekel su ogni litro di benzina.

Addizionata all’IVA, praticamente il 55% del prezzo di quest’ultima serve a coprire le tasse che gravano sull’economia palestinese.

Un’analisi più dettagliata, e in linea con queste affermazioni, proviene invece dalla Banca Mondiale, che ha prima pubblicato, lo scorso luglio, un rapporto in cui conclude senza mezzi termini che "l’economia palestinese non è più sostenibile", riconducendone i motivi proprio alla dipendenza dagli aiuti esterni e dalla mancanza di uno Stato effettivo.

Successivamente, il 23 settembre, la stessa organizzazione internazionale ha pubblicato un secondo rapporto, nel quale ribadisce l’analisi precedente ma si rivolge ai donatori internazionali perché continuino con il loro supporto economico, che rappresenta al momento anche “l’unica fonte di investimento per il settore privato”.

Entrambi i documenti servono a sottolineare la grave crisi in cui riversa un’istituzione che avrebbe dovuto assolvere il difficile compito di sviluppare un’economia senza uno Stato.

E si tratta di una crisi non soltanto economica, ma soprattutto politica dato che i suoi due leader riscuotono sempre meno consensi tra i cittadini.

Ad inizio settembre il primo ministro aveva addirittura paventato la possibilità di dimettersi, dopo che durante una manifestazione ad Hebron era stato fatto bruciare un manichino che riportava l’immagine del suo volto.

Dimissioni che sono state richieste anche per il presidente Abbas, oggetto di contestazioni di piazza la settimana scorsa a Ramallah. 

Tuttavia, il malcontento diffuso non sembra aver scalfito la volontà del leader di Fatah di portare avanti la sua personale iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite.

 

LA PALESTINA NELL’ONU

La strada per una ‘piena statualità’ – dall’inglese “full statehood” – iniziò proprio il 25 settembre di 12 mesi fa, quando il segretariato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ricevette dagli ufficiali dell’OLP la richiesta ufficiale.

Spetta infatti all’Organizzazione per la liberazione della Palestina, organizzazione ad ombrello che raccoglie la maggioranza dei partiti e movimenti politici palestinesi nata nel 1964, e non all’Autorità nazionale palestinese, organo esecutivo e amministrativo sorto dagli Accordi di Oslo del 1993, la rappresentanza unica dei palestinesi in ambito internazionale.

Distinguere le due entità - presiedute comunque dalla stessa leadership, quella di Fatah, nella persona di Mahmoud Abbas -  può essere utile per capire meglio la storia palestinese all’interno dell’Onu.

Yasser Arafat, predecessore di Abbas alla presidenza dell’OLP, riuscì a far ottenere all’organizzazione lo status di osservatore nel 1974. Tale posizione non è prevista nella Carta delle Nazioni Unite, ma per prassi l’Assemblea generale (AG) l’ha conferita a quegli stati ed entità che ne condividono i fini ed i principi.

Nel 1988, in seguito alla Dichiarazione di indipendenza di Arafat il termine “Palestine” rimpiazzò la dicitura dell’OLP: fu tuttavia soltanto un cambio di nome, poiché l’Organizzazione esiste tutt’ora e non ha modificato la sua struttura.

Dal 1998 l’Assemblea generale ha concesso alla Palestina dei privilegi che storicamente sono una prerogativa dei soli Stati membri, ovvero la possibilità di partecipare alle sue sedute plenarie e di co-promuovere delle risoluzioni.    

L’anno scorso l'OLP ha invece chiesto di diventare un membro a tutti gli effetti, una decisione giustificata dal fatto che la formazione di uno Stato attraverso i negoziati con Israele sembra una strada ormai difficilmente praticabile.

La validità della richiesta originaria durò soltanto alcuni mesi: la minaccia del veto americano rese 'inaccessibile' il Consiglio di sicurezza.

"Uno stato palestinese è possibile soltanto attraverso negoziati diretti con Israele. Azioni diplomatiche unilaterali non possono essere considerate accettabili": si riassume così la visione degli Stati Uniti sull’intera vicenda, inamovibile e condivisa dal governo israeliano.

Posizione riconfermata anche il 1° ottobre scorso, quando in una nota privata i funzionari statunitensi invitavano i governi europei a non supportare la nuova richiesta presentata da Abbas: il passaggio da osservatore a Stato non membro all’interno dell’Assemblea generale, dove non sono previsti veti.

"Un eventuale esito positivo del voto sarebbe estremamente controproducente e potrebbe comportare delle conseguenze negative importanti", riporta il Guardian, che afferma di aver visionato il memorandum.

Queste potrebbero risultare in riduzioni drastiche al finanziamento americano dell’Autorità palestinese.

 

L’UNESCO

Basta infatti ricordare gli effetti che una decisione simile ha avuto nei confronti dell’UNESCO lo scorso novembre, quando la Palestina è diventato un membro a titolo pieno e di pari livello rispetto agli altri suoi 195 componenti.

Uno ‘Stato’ insomma, dato che all’interno dell’organo assembleare di quest’ultima non sono previsti veti e si è raggiunta una maggioranza dei due terzi dei membri senza particolari ostacoli.

Un passo ‘storico’ per la Palestina – si tratta infatti della prima agenzia dell’Onu a riconoscere lo Stato palestinese, un successo diplomatico di cui Abbas può vantarsi a ragione – che ha comportato con sé delle conseguenze importanti. 

Tra quelle positive per i palestinesi c’è la possibilità di farsi riconoscere dei siti storici ed archeologici come patrimonio dell’umanità.

Uno di questi è la Chiesa della Natività a Betlemme - che tra l’altro fa parte anche della speciale lista del “Patrimonio mondiale in pericolo” - ma altri 12 siti sono già inclusi nella lista provvisoria come potenziali candidati.

Ciò significa innanzitutto l’obbligo di non attaccare tali siti in caso di conflitto armato per gli Sati terzi, oltre alla protezione e cura internazionale di cui questi godrebbero nel senso di assistenza nel restauro e valorizzazione archeologica.

Ma oltretutto potrebbe rappresentare una potenziale voce di entrata economica per il settore turistico, dettaglio non di poco conto per le casse di Ramallah.

Ma non tutti hanno gioito della decisione dell'Unesco.

Dal 1 novembre 2011, esattamente il giorno dopo il voto all’assemblea di Parigi, gli Stati Uniti hanno ritirato infatti la loro quota di contribuzione all’organizzazione, che equivale a ben il 22% del budget totale.

Una misura ‘punitiva’ giustificata dalle stesse ragioni per cui la richiesta di Abbas è stata bloccata nel Consiglio di sicurezza, oltre al fatto che gli americani ritengono che non spetti all’organo principale di cooperazione internazionale in materia di cultura delle decisioni politiche così sensibili, quali la questione dello Stato palestinese.

 

UNA STRATEGIA SENZA IMPORTANZA?

Nell’ordinamento giuridico americano vi è inoltre una legge del 1990 che proibisce al governo di finanziare qualsiasi agenzia Onu o organizzazioni internazionali che riconoscano al loro interno dei gruppi o delle entità che non godano del riconoscimento formale da parte del governo di Washington.

A tal proposito una specificazione riguarda proprio l’OLP ed evidentemente anche in questo caso il cambio di nomenclatura in “Palestina” del 1988 conferma di avere una scarsa rilevanza pratica.

Infatti - anche all’interno dell’UNESCO - l’OLP si chiama “Palestine”.

Di pari importanza saranno anche gli effetti di un cambio di un passaggio a Stato non membro per la vita dei palestinesi.

L’unica conseguenza potrebbe essere quella di entrare a far parte della Corte penale internazionale, cosa che permetterebbe alla Palestina di presentare richieste di parere su questioni inerenti all’occupazione ed al conflitto.

L’ingresso nella corte però non è scontato: già lo scorso aprile questa non dichiarò ammissibile un’ennesima richiesta palestinese, affermando che la sua giurisdizione non si applica e non si applicherà ai Territori Occupati finché non ci sarà uno Stato, cosa che il nuovo eventuale status alle Nazioni Unite non garantisce.

Perché, aldilà del conflitto e del caso sui generis che la Palestina rappresenta, per avere uno Stato, come ribadiscono il diritto internazionale e la scienza politica, non basta solo il riconoscimento da parte di altri Stati o organizzazioni internazionali.

Occorrono un popolo, un territorio e una sovranità effettiva, tre elementi che mancano tutti ad Abbas.

Forse per cominciare basterebbe tornare al primo: a quel popolo che scende in piazza, che chiede diritti, dignità, rispetto, lavoro piuttosto che puntare su New York.