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22/12/2012

Speranza per Betlemme
di Mazin Qumsiyeh
Traduzione di Stefano Di Felice

“Abbiamo delle speranze perché la storia non è statica”.

Facendosi beffe della comunità internazionale, in questo periodo di festività, il governo israeliano sta proseguendo con la costruzione di migliaia di unità abitative in insediamenti ebraici esistenti e in altri nuovi, nelle aree di Betlemme e di Gerusalemme. Non è facile vivere nei pressi di Betlemme dopo aver vissuto 29 anni negli Stati Uniti. La vita può essere a fasi alterne difficile, esilarante, deprimente, divertente e piena di speranze. Israele occupò questa zona nel 1967, ma il paesaggio cominciò a cambiare ben prima. Nel 1948 Betlemme accolse migliaia di rifugiati palestinesi, in seguito alla cacciata di oltre 750mila persone dalle loro case, che si trovavano in quella che sarebbe diventata terra di Israele. Ai palestinesi fu proibito il ritorno e tre campi profughi già affollati (Dheisheh, Azza e Aida) accolsero i migranti dei villaggi cui fu sottratta la terra.

I 180mila cristiani e musulmani originari di Betlemme sono ora confinati nel 13% del territorio distrettuale. L’87% della nostra terra è ora controllata da un anello di insediamenti israeliani, di zone militari e di infrastrutture destinate all’utilizzo dei soli occupanti israeliani. Dal 2002 stiamo affrontando l’enorme disagio causato dall’imponente muro di segregazione, costruito a zigzag intorno a Betlemme in modo tale da ritagliare e riservare i fertili terreni agricoli palestinesi e molte delle nostre risorse d’acqua per la zona israeliana. Il muro spesso attraversa villaggi vecchi di secoli, separando le famiglie palestinesi e separando le persone dal proprio lavoro, dagli ospedali, da scuole, chiese e moschee. Il muro e i posti di blocco impediscono a docenti e a studenti di raggiungere l’Università di Betlemme, e il nostro corpo studentesco ha progressivamente perso la sua diversità geografica. Il percorso tra Nazareth e Betlemme è bloccato da molti posti di blocco e da placche di cemento alte 9 metri.

Molti dei miei parenti hanno perso il lavoro a Gerusalemme, o hanno perso i mezzi di sussistenza collegati alla città, di cui siamo un sobborgo. È praticamente impossibile per i palestinesi della Cisgiordania ottenere i permessi per recarsi a Gerusalemme, o per gli abitanti di Gerusalemme dedicarsi al commercio con noi. Se anche si riesce a ottenere un permesso (pochi sono i privilegiati), i posti di blocco rendono il viaggio imprevedibile e spesso  impossibile, precludendo un’economia soddisfacente. La disoccupazione è ora al 35%, ma le donne e i bambini sono coloro che soffrono di più. Attualmente il 50-60% di palestinesi sono bambini, e sono loro che soffrono di più per la difficile situazione. La malnutrizione è diffusa, e le donne devono pagare un prezzo più alto degli uomini in termini di occupazione, vivendo in una società tradizionalmente a dominazione maschile – nonostante le cose stiano cambiando, ultimamente.

Ma noi, a Betlemme, possiamo ringraziare di non vivere a Gaza, dove le cose vanno molto peggio, e dove in una sola settimana, lo scorso novembre, le Forze israeliane hanno ucciso 191 persone, tra cui 48 bambini. Le Nazioni Unite prevedono che Gaza diventerà invivibile entro il 2020. In tutta la Striscia sembra di essere su una bomba a orologeria. Il desiderio di Israele di acquisire una grande geografia con il minimo di demografia palestinese è la radice della sofferenza che affligge la Terra Santa. Oggi ci sono circa 7 milioni di rifugiati palestinesi e di sfollati. Amnesty International ha constatato il fallimento del “processo di pace” a causa del mancato rispetto, da parte israeliana, dei diritti umani, tra i quali il diritto dei palestinesi al ritorno alle loro case e alle loro terre. Al momento c’è un vasto consenso internazionale (ad eccezione dei governi degli Stati Uniti e di Israele) sul pericolo che le continue violazioni israeliane dei diritti umani e del diritto internazionale costituiscono per la pace e per la sicurezza. Chiaramente, se si vuole la pace in Medio Oriente e non solo, bisogna partire dalla giustizia per i palestinesi. Sono doppiamente addolorato, in quanto americano e in quanto cristiano palestinese, per il sostegno a questa carneficina che dura da 60 anni dato dalle mie tasse. Israele è il maggior beneficiario degli aiuti americani, e l’amministrazione degli Stati Uniti si impegna molto per soddisfare le influenze della lobby israeliana.

Israele, in quanto potenza occupante, è responsabile per il benessere di coloro che si trovano sotto il suo dominio militare, secondo quanto disposto dalle Convenzioni di Ginevra. Ciononostante, Israele ha intenzionalmente causato il sottosviluppo dell’economia palestinese. Con la collusione dell’Unione europea e degli Stati Uniti, l’economia della Cisgiordania e di Gaza è diventata via via più dipendente dagli “aiuti umanitari” occidentali. Circa il 30% di tali aiuti viene però travasato in Israele, e circa il 30% è diretto al sostegno delle “Forze di sicurezza” palestinesi, il cui compito sembra essere più diretto a combattere i palestinesi che osano resistere all’occupazione o sfidare l’usurpazione della loro terra, che non a proteggere i palestinesi dagli attacchi dei coloni.

C’è un sistema di corruzione, che coinvolge i governi e le “autorità”, e che si ripercuote sulla popolazione. A ciò è associata una strategia mediatica che fa attribuire ai palestinesi le sole scelte di farsi saltare in aria la capitolazione o i negoziati infiniti. Questo triste stato di cose non è casuale, è stato progettato ed è gestito in modo tale da perpetuare l’occupazione e la dipendenza. Perché Israele nega l’accesso alle nostre università agli accademici, o non permette che anche il più semplice dei macchinari industriali passi il confine? Perché nega l’elettricità a Gaza e i macchinari necessari alla depurazione degli scarichi fognari, permettendo come conseguenza che gli scarichi di 1 milione e mezzo di persone confluiscano nel mar Mediterraneo inquinando l’Europa e anche Tel Aviv?

La logica del potere politico-militare dice che Israele sta costruendo ulteriori insediamenti ebraici, demolendo altre case e fattorie palestinesi, nonostante gli obblighi presi con accordi sottoscritti e dettati dal diritto internazionale. L’amministrazione Obama e il Congresso (obbligati a servire gli interessi della lobby sionista) sono isolati, tra il resto della comunità internazionale, nel sostegno a tale regime di apartheid.

Ma noi abbiamo delle speranze, perché la storia non è statica. Qui a Betlemme traiamo forza dalla consapevolezza che le precedenti occupazioni militari straniere sono tutte finite, compresa quella di Roma dei tempi di Gesù. Traiamo speranza dal fatto che le crociate sono terminate dopo aver provato per 130 anni a portare l’uniformità. Anche il sionismo è destinato a fallire nel suo compito. Ci fa poi sperare il fatto che migliaia di visitatori, ogni anno, vengono qui a testimoniare la loro solidarietà. Ci danno forza le reazioni positive ricevute dalle Chiese di tutto il mondo con il documento Kairos Palestina, e il movimento del boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (come quello attuato contro l’apartheid in Sudafrica).

In questo periodo dell’anno, festeggiando la nascita di Gesù cerchiamo di lavorare  per porre fine al razzismo, all’occupazione e all’apartheid. Permetteteci di insistere sull’importanza del diritto al ritorno per i rifugiati, e perché sia loro data la possibilità di costruire una società democratica in Terra Santa. Quando ci riusciremo, gente di ogni religione e di qualsiasi estrazione potrà condividere questo pezzo di terra in pace e armonia.