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8 agosto 2012

Segregazione residenziale a Hebron
di Julian Cole Philipps

Per me, è stato il peggior aspetto della situazione a Hebron: il sistema di segregazione è ineludibile. Nessun palestinese e nessun turista può girare per la città senza “normalizzare” l’occupazione.

Muri anti-esplosione, filo spinato e 4mila soldati separano i 120mila residenti palestinesi di ebro dai 400 ebrei. Come in simili situazioni di segregazione urbana, la vicinanza tra le due comunità dà ad ognuno una miriade di possibilità di trasgredire, superficialmente, i confini. Le forze militari israeliane e i turisti stranieri passano liberamente dalla zona israeliana a quella palestinese; i civili smerciano proiettili nelle linee di divisione. In una recente visita alla città divisa, mi sono chiesto se tali atti fossero veramente trasgressivi o servissero a rafforzare il gap di potere che sta dietro la segregazione di Hebron.

Civili israeliani hanno cominciato a stabilirsi a Hebron negli anni ’70 occupando terre e strutture vacanti (spesso di proprietà privata palestinese). Il governo israeliano si è rifiutato di cacciare i coloni e ha  legalizzato la loro presenza in cinque aree nella zona Sud-Est della Città Vecchia. Da que momento, poche centinaia di ebrei si sono stabiliti in tre complessi nella parte medievale della città e in edifici occupati nella collina adiacente.

Al fine di proteggere questa popolazione, Israele mantiene il controllo sulla Città Vecchia di Hebron e sui quartieri vicini (circa il 20% della municipalità) a seguito del ritiro dai principali centri urbani palestinesi a metà anni ’90. Tra le fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000, le autorità israeliane hanno espulso residenti palestinesi e proprietari di negozi da Shuhada Street (che corre lungo quattro colonie e la Moschea di Abramo) e piazzato barriere e checkpoint tra la Città Vecchia e il resto di Hebron.

Come americano, sono stato in grado di passare facilmente i checkpoint. Conversazioni in inglese o francese hanno fatto da passaporto de facto (nessuno mi ha mai chiesto i documento). Gli scambi erano piuttosto veloci:

“Lo Ivrit. Inglese?”
“Lei è un turista?”
“Sì”
“Passi pure”.

Oppure:

“Lo Ivrit. Inglese?”
“Ha un coltello?”
“No”
“Passi pure”.

Dal lato palestinese, i residenti raccontano le loro storie, storie di occupazione israeliana. Un venditore di frutta di nome Shadhi Sadar mi ha fermato per la strada e mi ha portato a casa della sua famiglia, vicino a due palazzi israeliani in Shuhada Street. In un inglese educato ha snocciolato una serie di ingiustizie che i coloni hanno perpetrato contro i suoi parenti. Ancora più drammatico, mi ha raccontato del suo giovane nipote che ha sofferto di disturbi alla vista dopo che i coloni israeliani gli hanno lanciato dell’acido dall’edificio accanto (il fratello di Shadhi, Abad, ha riportato la stessa testimonianza all’International Solidarity Movement lo scorso febbraio. Né io né l’ISM abbiamo incontrato il ragazzino, per cui non posso confermare l’accusa).

Dal lato israeliano, nessun passante mi ha avvicinato per chiedermi perché mi trovassi lì o per raccontarmi la sua storia. La maggior parte dei contatti li ho avuti con i poliziotti di frontiera. Erano molto prudenti nelle loro brevi conversazioni, sebbene volessero rispondere alle domande sulla situazione. La guardia di stanza davanti alle Tombe di Jesse and Ruth identificava facilmente le case vicine come palestinesi o israeliane, ma ha dato una risposta non impegnativa sulla domanda se i vicini di casa andassero d’accordo.

La mia libertà di entrare e uscire da entrambi lati della segregata Hebron è stato estremamente inusuale. I palestinesi necessitano di un permesso per poter accedere nei quartieri ebraici; i civili israeliani non possono entrare nelle aree palestinesi secondo l’accordo stretto tra Israele e Autorità Palestinese. Quando ho scritto a un’amica israeliana di sinistra a proposito della mia esperienza, ha commentato: “Probabilmente ha già visto più di me. Le mie informazioni arrivano dai media, nonostante la distanza sia breve”.

Durante la mia visita, ho visto un palestinese attraversare la zona israeliana in condizioni molto diverse dalle mie. A metà pomeriggio, ero fuori dall’entrata della zona israeliana della Moschea di Abramo, a cavallo della linea che separa la Hebron palestinese da quella dei coloni. Ho sentito un pianto venire dalla vicina entrata per i musulmani, mi sono voltato e ho visto un piccolo gruppo di poliziotti di frontiera israeliani trascinare una giovane donna palestinese che urlava attraverso il gate che divide le due aree. I poliziotti l’hanno sbattuta contro la parete esterna della camionetta e l’hanno spinta dentro. La donna ha continuato ad urlare, di dolore e di paura, quando gli ufficiali l’hanno spinta a terra con le braccia dietro la schiena.

Secondo due osservatori internazionali dei Christian Peacemakers Teams, la giovane palestinese aveva spruzzato spray al peperoncino contro una poliziotta durante un controllo all’ingresso della Mosche. Non è chiaro cosa abbia fatto precipitare la situazione. Un portavoce israeliano ha detto che la donna voleva accoltellare la poliziotta dopo averle spruzzato contro lo spray. L’accusa di premeditazione è discutibile, visto che l’area intorno alla Moschea è così fortemente controllata che difficilmente un aggressore potrebbe fuggire facilmente.

Quel pomeriggio la donna palestinese sarebbe così entrata nell’area israeliana. Il suo viaggio è stato sia letterale che figurativo. È fisicamente entrata in uno spazio generalmente riservato a coloni e turisti stranieri. E lei e la poliziotta hanno per breve tempo scambiato i loro ruolo convenzionali. Per un secondo, la donna in divisa ha avuto paura e quella palestinese è stata a guardare.

Ma alla fine, il passaggio della donna palestinese nella zona israeliana non ha fatto che rafforzare la segregazione di Hebron. Probabilmente passerà del tempo in prigione per aver assaltato un membro delle forze di sicurezza israeliane, mentre i poliziotti che l’hanno picchiata durante l’arresto non subiranno alcuna conseguenza legale. Questo perpetrerà il doppio standard legale per le violenze israeliane e quelle palestinesi che è parallelo alla divisione geografica.

Anche il mio viaggio tra le due zone di Hebron ha rinforzato le basi razziali ed etniche della divisione della città. In entrambi i lati, il mio status di visitatore straniero mi ha reso un privilegiato rispetto ai residenti locali. I palestinesi hanno speso del tempo con me a condividere le loro storie nell’illusione che io, come americano, avrei in qualche modo potuto amplificare le loro voci. I poliziotti israeliani mi hanno dato informazioni – il loro calendario, i nomi delle loro città natale – che dubito avrebbero condiviso con un passante palestinese.

Invece di combattere questa gerarchia di segregazione, l’ho perpetrata. Non ho detto ai miei conoscenti palestinesi che non possedevo l’influenza politica necessaria a giustificare il tempo che hanno perso nel raccontarmi le loro storie. Né ho rivelato ai poliziotti che, a differenza di molti turisti americani, ero ideologicamente opposto al loro pensiero.

Per me, è stato il peggior aspetto della situazione a Hebron: il sistema di segregazione è ineludibile. Nessun palestinese e nessun turista può girare per la città senza “normalizzare” l’occupazione.