Christophe Besuchet è un art director e da molti anni un sostenitore del movimento per l’indipendenza del Tibet. E’vice presidente della sezione svizzera della Rangzen Alliance.

L’articolo è stato pubblicato sul sito web di Rangzen Alliance e ripreso nella sezione “Latest Opinions” del sito Phayul.com


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2 febbraio 2012

Segnali di Resistenza, Non Atti Disperati
di Christophe Besuchet
Traduzione dall’inglese di Vicky Sevegnani

2 febbraio 2012. Pubblichiamo questo interessante e stimolante articolo di Christophe Besuchet che, da un diverso punto di vista rispetto al comune sentire, ci aiuta a dare un senso ai numerosi casi di auto immolazione avvenuti in Tibet. Non si tratta – afferma l’autore – di atti dettati dalla disperazione ma di consapevoli ed eroici atti di resistenza destinati non solo a dare speranza ma anche ad unire e ispirare milioni di tibetani che si battono contro l’oppressione cinese.

Non so se la pensiate come me, ma provo un grandissimo dolore nel vedere quanto l’aggettivo “disperato” venga comunemente usato dai media e dai tibetani in esilio per descrivere le auto immolazioni avvenute in Tibet dal 2009 – diciassette casi fino a questo momento. Frasi come “atti di profonda disperazione” o “auto immolazioni disperate” sono entrate nel nostro vocabolario e vengono ripetute automaticamente, come se scrittori, governanti e politici non sentissero la necessità di analizzare in modo più approfondito le motivazioni che sono dietro a queste azioni.

Etimologicamente, il termine disperazione deriva dal latino desperatus, o “privo di speranza”, termine che, riferito alle azioni di protesta, implica un senso di sofferenza e sconforto. Le auto immolazioni di donne e ragazze avvenute in Afghanistan (103 casi tra il marzo 2009 e il marzo 2010) possono probabilmente essere considerate “atti disperati” perché chi li ha compiuti ha preferito morire piuttosto che vivere costantemente in un clima di violenza e abusi domestici. Interrogate sui motivi che le avevano spinte a cercare di darsi la morte, le donne afgane sopravvissute hanno risposto di sentirsi in una situazione “senza via d’uscita”. Quando è stato chiesto a una di loro se voleva lasciare un messaggio alle altre donne, ha risposto: “Non datevi fuoco, se volete una via d’uscita usate un fucile, è meno doloroso”.

Le auto immolazioni dei tibetani sono completamente diverse. Anzitutto, è del tutto evidente che sono motivate da una causa superiore, non dalla depressione, dalle costrizioni sociali o da responsabilità finanziarie. Come ha scritto Sopa Tulku, un lama di alto rango che si è immolato a Golok Darlak il giorno 8 gennaio: “Non lo faccio per miei personali interessi o problemi, ma per i sei milioni di tibetani privi della libertà e per il ritorno in Tibet del Dalai Lama”. In secondo luogo, se è vero che i tibetani sono privati della libertà, non hanno tuttavia perso la speranza. A partire da Thubten Ngodup, il primo tibetano che si diede fuoco nell’aprile 1998 a New Delhi, possiamo dire che gli auto immolati dei quali conosciamo un poco il background erano persone serene e in buona salute e non avevano alcuna ragione per morire se non quella di offrire le loro vite per la lotta contro l’occupazione cinese del Tibet. Nel suo testamento politico, Sopa Tulku dice chiaramente di non essere disperato: “I tibetani non devono perdere la speranza nel futuro, un giorno saranno sicuramente felici”. Questo senso di ottimismo si estende anche ai famigliari: la madre del ventiduenne Lobsang Jamyang, che si è immolato il 14 gennaio, ha dichiarato che la famiglia “non è dispiaciuta per la sua morte” perché “Lobsang ha dato la vita per la causa tibetana”. 

Le speranze alimentate da queste coraggiose proteste hanno un forte impatto su coloro che nel Tibet occupato si oppongono all’oppressione cinese. Ngawang Choephel, un etnomusicologo e film maker che ha passato sei anni nelle carceri cinesi sotto una pretestuosa accusa di spionaggio, ha recentemente dichiarato: “Nel 1997, quand’ero in prigione, ho saputo dell’auto immolazione di Ngodup Tsering in India”. (…) La notizia ha dato forza e coraggio a me e a tutti gli altri prigionieri politici perché ho capito che qualcosa sarebbe successo anche in Tibet”. Ha inoltre aggiunto: “Sono certo che, in Tibet, la maggioranza dei tibetani a conoscenza dell’eroico gesto di Thubten Ngodup si è sentita ispirata e spronata”. 

Non vi è alcun senso di disperazione in questi atti di protesta. E nemmeno mancanza di speranza. Quello che possiamo dire è che queste auto immolazioni sono, come ogni singolo gesto di resistenza in Tibet, uno straordinario esempio di fiducia nella propria capacità di risollevarsi, un segno di grande speranza e di ferma determinazione. Questi sacrifici mostrano il sogno e la forza morale di un’intera nazione e non possono essere ridotti, con noncuranza e cinismo, ad atti individuali tragici ma inutili.

È dunque necessario sottolineare che l’abuso, anche se per molti del tutto involontario, del termine “disperato”, non rende giustizia a questi atti eroici. È anzitutto un’offesa alla memoria della persona in quanto esprime una sconcertante mancanza di rispetto nei confronti delle motivazioni, della determinazione e delle aspirazioni di quanti si sono immolati. Porre l’accento su una generica forma di angoscia o di disperazione significa ricordare un atto eroico semplicemente come una sorta di fuga o, ancora peggio, come un atto di debolezza o di codardia. Nella psiche collettiva questo atteggiamento può avere delle conseguenze dannose. Il regime cinese è perfettamente conscio della necessità di svilire il ricordo di quanti si sono auto immolati tanto che, per fare un esempio, ha cercato – peraltro senza successo – di dire che Sopa Tulku si è suicidato a causa di un segreto affare di cuore. Ma il definire le immolazioni “un gesto disperato” può nuocere anche al messaggio che esse possono trasmettere, quello di un nuovo tipo di lotta contro l’occupazione cinese: definendole un gesto disperato e considerandole proteste senza speranza rischiamo di troncare sul nascere ogni fiducia in una possibile rivoluzione. E qui tocchiamo un tasto delicato, almeno per quanto riguarda la leadership di Dharamsala.

Quando si auto immolano, questi tibetani hanno senz’altro in mente qualche obiettivo. Probabilmente non pensano di compiere un plateale gesto fine a se stesso. In genere si dice che il loro scopo è di attirare l’attenzione del mondo sulla repressione cinese in Tibet, ma ciò non è completamente vero. Molti tibetani, sia in Tibet sia in esilio, non credono più in un significativo impegno politico dei paesi stranieri nei confronti della loro causa. Del resto, nei loro messaggi, né le Nazioni Unite né alcun paese straniero hanno accennato alle immolazioni. Il fine superiore delle auto immolazioni – forse non pianificato consapevolmente ma anticipato nei fatti – è stato senza dubbio quello di richiamare i tibetani all’unità e ad insorgere contro l’occupazione cinese. Questi gesti di sfida hanno senz’altro infuso coraggio a quanti hanno la volontà di resistere e chi li ha compiuti era senz’altro consapevole dell’eventualità di una reazione a catena. Le proteste indipendentiste scoppiate nella regione di Golok dopo l’auto immolazione di Sopa Tulku o, nella contea di Ngaba, dopo quella di Lobsang Jamyang, indicano chiaramente che queste azioni hanno agito da catalizzatori, anche se la seconda protesta sembra essere stata causata dal pestaggio disumano con cui le forze di polizia ha infierito sul corpo ancora in fiamme di Lobsang Jamyang.

Sarebbe davvero sorprendente se i tibetani che si sono dati fuoco, soprattutto i monaci e le monache, che conoscono perfettamente il concetto di causalità, non fossero stati consapevoli che le loro azioni avrebbero potuto avere terribili conseguenze e fare presa sullo scontento e la frustrazione dei loro compatrioti. Possono – o non possono – aver saputo di Mohamed Bouazizi, l’uomo la cui auto immolazione ha ispirato la rivoluzione tunisina dello scorso anno e la stessa Primavera Araba, ma erano certo consapevoli dell’immenso potenziale di rivolta che il loro gesto avrebbe innescato. Alla luce dello sproporzionato numero di truppe paramilitari, di forze di polizia e di corpi speciali SWAT dispiegati dai cinesi nelle aree tibetane in rivolta, non vi è dubbio che Pechino ha compreso la natura esplosiva delle proteste e le sta prendendo sul serio. Perché allora Dharamsala non approfitta della situazione?

Il Governo Tibetano in Esilio, ostinatamente prigioniero dell’approccio della Via di Mezzo, ha in realtà ragione quando minimizza il fine ultimo delle auto immolazioni. In primo luogo, queste azioni di confronto sono contrarie alla politica ufficiale di pacificazione che, secondo le convinzioni della leadership, sono l’unica chiave per risolvere il conflitto. Ma, considerazione molto più importante, le richieste di indipendenza formulate da alcuni tibetani che si sono auto immolati e il riferimento al Tibet come una “nazione” (rgyal-khab), formulato da altri, indicano chiaramente quanto poco sia sentito all’interno del Tibet il concetto di “genuina autonomia”.

Non deve quindi sorprendere che, come riferisce il Washington Post, il Primo Ministro Lobsang Sangay definisca le auto immolazioni “atti disperati” e dichiari, in una recente intervista, che “i monaci si stanno immolando perché sono senza speranza”. E non deve nemmeno sorprendere che, lo stesso Primo Ministro, davanti a 200.000 tibetani riuniti a Bodh Gaya per gli insegnamenti di Kalachakra, leggendo i nomi di coloro che si sono dati fuoco in Tibet non abbia menzionato il nome del ventenne Tapey, il primo tibetano a darsi fuoco nel febbraio 2009.

Tuttavia, nonostante la riluttanza di Dharamsala a riconoscere le reali motivazioni di chi si è auto immolato e il rifiuto dei media a descrivere la lotta tibetana per ciò che veramente rappresenta, è urgente fare qualcosa per evitare che gesti simili si ripetano. Le auto immolazioni – e la comprensione del loro scopo – non cesseranno soltanto togliendo l’assedio ai monasteri e allontanando le truppe paramilitari. Carri armati e fucili sono soltanto il tratto visibile della spietata dominazione cinese. Non importa quanto i cinesi allenteranno la morsa sui residenti locali: non sarà altro che una tregua a termine. Un giorno o l’altro scoppierà ancora la protesta, molto probabilmente più forte, su più ampia scala e con un maggior numero di vittime.

D’altra parte, una nuova forma di resistenza, organizzata e di maggiore contrapposizione, spingerà i patrioti all’interno del Tibet a intraprendere azioni che non comportano necessariamente l’auto immolazione con il fuoco. Dal 2008, i tibetani in Tibet hanno mostrato in modo inequivocabile la loro determinazione e il loro coraggio. Negli ultimi quattro anni, il movimento di resistenza contro l’occupazione cinese è costantemente cresciuto e ha raggiunto livelli mai visti dagli anni ’50. Intellettuali ed artisti che prima avevano evitato di esprimersi hanno preso ora una posizione decisa. La richiesta di indipendenza e il dispiego della bandiera nazionale tibetana sono più frequenti di quanto lo siano mai stati e in ogni angolo del Tibet si compiono atti di non cooperazione, secondo le direttive, estremamente ispiranti, del movimento Lhakar. Cresce in tutto il paese un nuovo senso dell’identità nazionale, si escogitano nuove forme di resistenza. Il malcontento dilaga. Una simile congiuntura capita raramente.

In questa situazione, non è difficile immaginare che se Dharamsala lanciasse un appello ufficiale all’unità e all’impegno in azioni non violente, susciterebbe in Tibet un effetto dirompente. Per esempio, l’esortazione a dare vita a un movimento di non cooperazione su scala nazionale sarebbe senza dubbio accolta e coinvolgerebbe la maggioranza dei tibetani che vivono sotto la dominazione cinese. E vale la pena di notare che un passo di questo tipo conferirebbe una solida legittimità alla nuova leadership in esilio la cui elezione è stata seguita in Tibet con entusiasmo e nella quale i tibetani in Tibet ripongono ancora grandi speranze. Tuttavia, ancora  una volta, nutro dei dubbi sulla volontà del Governo in Esilio di mettersi alla testa della lotta. L’approccio della Via di Mezzo non si basa soltanto su una richiesta di autonomia, è un appello alla non-azione e alla resa e non ha mai indicato ai tibetani in Tibet una direzione da seguire a parte, forse, un invito a collaborare con gli occupanti cinesi. Stando alle dichiarazioni del Primo Ministro e al suo timore di violente ritorsioni da parte della Cina, Dharamsala non incoraggerà mai, almeno a breve, qualsiasi forma di protesta politica.

Sono tuttavia convinto che, se la resistenza tibetana non troverà nuove forme, difficilmente cesseranno le auto immolazioni e le altre manifestazioni estreme di protesta. Il ritorno al precedente status quo è impensabile e i tibetani si stanno avvicinando al punto di non ritorno. La “Rivoluzione della Tsampa”, termine coniato da Jigme Ugen, è in movimento. Citando le parole del cantante inglese Peter Gabriel, scritte dopo la morte in un carcere Sud Africano di Steven Biko, “Soffiando puoi spegnere una candela ma non un fuoco; quando la fiamma ha preso, il vento la renderà più alta”.

Le persone che si immolano sono degli autentici combattenti per la libertà che ricorrono alla forma estrema di azione non violenta – la più dolorosa – per liberare il loro paese dall’oppressione. Il minimo che dobbiamo fare è vedere i loro sacrifici per quello che sono, non per quello che il nostro miope approccio vorrebbe che fossero. Questi uomini e queste donne non sono vittime disperate del totalitarismo cinese. Non sono persone che si sono arrese perché “prive di speranza”. Si stanno sacrificando per il bene dei loro compatrioti - uomini e donne - e per restituire l’orgoglio a una nazione in quanto consapevoli che le loro azioni possono fare la differenza. Sono portatori della speranza che un giorno il Tibet sarà libero. Sono i segnali di una nuova lotta contro la tirannia della Cina e fonte di ispirazione per milioni di tibetani ad unirsi e combattere per l’indipendenza. Possa il sacrificio di questi tibetani segnare l’inizio della caduta della Cina.

 

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