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Questo articolo è stato scritto appositamente per Radio Free Asia

Gli studenti a difesa della lingua tibetana
di Tsering Woeser
Traduzione di Mauro Crocenzi

Il post che segue è stato scritto da Woeser nel mese di ottobre 2010 e affronta il tema delle proteste studentesche nelle regioni tibetane, una questione che ha avuto molta risonanza sui mezzi di informazione cinesi e internazionali.

Alla fine dello scorso anno è stato approvato un nuovo regolamento che prevede l’abolizione del curriculum di studi in lingua tibetana e la fusione degli istituti per le minoranze con quelli comuni, dove gli insegnamenti sono effettuati in lingua cinese. Il provvedimento ha colpito le regioni autonome tibetane del Qinghai (che corrisponde a gran parte della regione tibetana nord-orientale dell’Amdo). Proprio il Qinghai era la provincia cinese dove sembra che il sistema dei due curricula avesse dato finora i migliori risultati. L’approvazione del provvedimento ha scatenato una serie di proteste e cortei studenteschi, con eco anche in altre città come Pechino.

Questo post prende spunto da un fatto di cronaca ed è molto significativo per capire lo stile diretto di Woeser e gli ideali che sono alla base del suo attivismo critico contro il governo cinese, incentrati sulla libera espressione dell’identità tibetana.

Gli studenti a difesa della lingua tibetana

Dal 19 ottobre 2010, in quattro prefetture autonome tibetane della provincia del Qinghai più di diecimila studenti tibetani delle scuole elementari e medie sono scesi in strada a manifestare. Anche a Pechino centinaia di studenti universitari tibetani dell’Università cinese per le minoranze si sono radunati all’interno del campus. In breve, il motivo della protesta è la difesa della lingua tibetana. Lo stesso era accaduto nel mese di agosto a Canton, dove migliaia di persone sono scese in piazza a difesa del cantonese (1).

L’unica differenza è che il cantonese è un dialetto del cinese e il tibetano è la lingua di un’etnia a sé (2). Ad ogni modo, che si tratti del cantonese o del tibetano, il contesto è lo stesso e le persone hanno rivendicato pubblicamente il proprio volere allo stesso modo, per cui vanno anche trattate nello stesso modo. Il caso del cantonese non è così diverso da quello del tibetano. Di fronte all’impoverimento del loro dialetto, i cantonesi hanno trovato il coraggio di affermare «Vogliamo parlare mandarino, ma non vogliamo essere costretti a parlare mandarino». In questo sono associabili ai tibetani, che nelle regioni a maggioranza tibetana vivono una realtà ancora più esposta al rischio di assimilazione linguistica. Ma, quando prendono parola, sono subito etichettati come «separatisti» e «indipendentisti».

Se ho scritto questo post è solo per criticare un modo di agire che da secoli caratterizza gli han: quando le «minoranze nazionali» si trovano di fronte a uno stesso problema ricevono un trattamento diverso. In particolare tibetani, uiguri, mongoli o altre «minoranze nazionali» della Cina interna è possibile che subiscano dei trattamenti iniqui, ingiustizie che sono a monte delle proteste. Ora che la condotta dei cantonesi è stata «compresa», «accolta» e «supportata», anche la posizione dei tibetani dovrà essere «compresa», «accolta» e «supportata»; altrimenti non si tratterebbe di uno spudorato caso di disuguaglianza etnica (3)?

Naturalmente il parallelo tra l’attivismo dei tibetani e quello dei cantonesi fa emergere anche un’altra preoccupazione. Per dirla tutta ho davvero timore che così tanti bambini, adolescenti e ragazzi, impegnati nella lotta per la sopravvivenza di una lingua ferita ma che gli appartiene dalla nascita, possano essere colpiti uno a uno dalla repressione e dai soliti mezzi arbitrari del potere. Temo che le loro vite possano essere dei boccioli non ancora dischiusi che vengono strappati e gettati a terra. Bisogna avere chiaro che i loro slogan ruotano attorno a valori universali come «l’uguaglianza etnica e la libertà della lingua», che sono la forma più elementare di diritti umani e quanto di più distante da rivendicazioni radicali [...].

In realtà le ragioni che hanno portato alla manifestazione in difesa della lingua tibetana sono ben più complesse di quelle che riguardano il dialetto cantonese. Non si tratta solo di un’autorità che vuole rendere ogni lingua conforme al cinese mandarino per realizzare un’unità culturale. La questione non è affatto così semplice. La politica di riforma del sistema educativo, iniziata nella provincia del Qinghai, è di natura sperimentale. Lo stesso era accaduto più di dieci anni fa con l’introduzione della «rieducazione patriottica» nei monasteri di Lhasa (4), una politica ormai giunta alla piena implementazione in tutte le zone tibetane. Oggi lo stesso avviene per l’educazione laica, partendo proprio da quelle sei prefetture autonome tibetane nella provincia del Qinghai che avevano conseguito dei buoni risultati nel precedente curriculum di studi in lingua tibetana. In queste regioni le scuole medie e elementari per minoranze verranno fuse con gli istituti ordinari per divenire degli «istituti misti di han e minoranze».

Verrà attuato un programma di studi in cui «la lingua cinese avrà la funzione di lingua principale, mentre il tibetano quella di lingua ausiliare. Gli insegnamenti saranno impartiti in lingua cinese, che verrà introdotta in età prescolastica...» [...]. Un’ultima, importante, considerazione è correlata ai fenomeni di protesta che nel 2008 hanno colpito tutte le regioni etnicamente tibetane. I ragazzi delle elementari e delle medie erano nel gruppo dei manifestanti e questo ha senz’altro rappresentato un problema da risolvere a tutti i costi per le autorità. L’anno scorso, alla fine di aprile, nella contea di Sangchu centinaia di studenti di scuole elementari e medie non sono entrati in classe per manifestare la propria insoddisfazione verso le campagne di critica lanciate contro il Dalai Lama negli istituti e per chiedere alle autorità di ricorrere a misure reali per prevenire le «migrazioni per l’esame di accesso universitario» (5).

In seguito a ciò, in occasione di un’assemblea plenaria, Chen Jianhua, segretario generale della Prefettura autonoma tibetana di Gainlho, ha ammonito severamente gli studenti tibetani: «A che serve studiare tibetano? Studiare tibetano vi permetterà di andar via da casa? Che tipo di persone stanno formando le scuole elementari e medie tibetane? Stanno educando i nostri successori o dei nemici di classe?». Il programma di riforma dell’educazione nella provincia del Qinghai è stato considerato un «obiettivo politico di primaria importanza».

Alla luce di tutto ciò, le conseguenze del ripensamento politico a partire dalla protesta tibetana del 2008 sembrano puntare in modo sempre più deciso e una volta per tutte all'eliminazione alla radice dell’educazione tibetana.

Note al testo:

(1) Woeser fa riferimento ai cortei a difesa del dialetto cantonese che si sono svolti tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2010 a Canton e Hong Kong. Le manifestazioni sono state organizzate in seguito all'annuncio da parte delle autorità di volere aumentare le programmazioni in mandarino nelle stazioni radio-televisive nel Sud della Cina. Le reazioni ufficiali alla protesta hanno sminuito e condannato il movimento.

(2) Nel testo l’autrice definisce il cantonese un dialetto, evidenziando così un’adesione alla versione ufficiale, secondo cui esisterebbe una sola lingua cinese con diversi dialetti. In realtà la definizione di “dialetto” è tutt’altro che condivisa in ambito linguistico: il cantonese, pur essendo derivato dal ceppo cinese della famiglia linguistica sino-tibetana (la cui esistenza è stata messa in discussione), potrebbe essere considerato una lingua a sé (yue), diversa rispetto a quella del cinese mandarino e sviluppatosi già in epoca antica. Tuttavia, il tibetano ha un grado di parentela ancora più distante dal cinese mandarino, appartenendo al ceppo tibeto-birmano (e non cinese) del gruppo linguistico sino-tibetano. Ancora più estremo è il caso della lingua mongola e di quella uigura, che appartengono a due ceppi diversi di un altro gruppo linguistico –quello altaico- distinto da quello sino-tibetano.

(3) Nel testo Woeser pone molta enfasi sul valore dell’uguaglianza etnica che, –va ricordato- sin dall’ epoca maoista è stato e continua a essere uno dei punti di riferimento della politica per le minoranze del Partito Comunista cinese.

(4) La “rieducazione patriottica” è una campagna ideologica che ha le sue origini durante l’epoca maoista. In Tibet la pratica è ripresa con vigore dopo le rivolte che hanno colpito Lhasa alla fine degli anni Ottanta, quando le squadre di lavoro –selezionate tra i quadri locali- fecero ingresso nei monasteri per condurre incontri di rieducazione ideologica votati alla denuncia pubblica del separatismo e del XIV Dalai Lama.

(5) In Cina l’ammissione all’università passa attraverso un esame a cui partecipano tutti gli studenti diplomati. Secondo questo sistema è possibile iscriversi ad università più o meno qualificate in tutta la Cina in base ai punti ottenuti all’esame di accesso universitario. L’esame di accesso va effettuato nella città di residenza, tuttavia il numero di punti necessari per iscriversi alle università più ambite varia di città in città. Questa situazione ha fatto sì che gli studenti con i giusti “agganci” abbiano iniziato a cambiare la loro residenza per effettuare l’esame universitario in città dove ci sono requisiti inferiori per accedere alle migliori università.

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