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Lun, 12/03/2012 - 11:23

New York : 18° giorno di digiuno a tempo indeterminato per il Tibet
di Piero Verni

Una mattina assolata ma fredda.Del tutto dimentica della primavera ormai imminente e spazzata da folate di vento gelide che arrivano direttamente dal fiume Hudson.Il Palazzo di Vetro si staglia nitido contro un cielo cobalto mentre il presidio dei digiunatori si appresta a vivere il suo 18° giorno.A partire dalle nove gruppi di tibetani di ogni età e condizione sociale iniziano ad arrivare al presidio per rendere omaggio ai tre digiunatori, sdraiati e infagottati dentro ai loro sacchi a pelo per difendersi dal vento e dalla temperatura rigida che nemmeno i raggi del sole riescono a far salire. E‘ una continua processione di ragazzi, uomini, laici, monaci, donne che arrivano con le loro kata (sciarpe cerimoniali) in mano, si inchinano davanti ad ognuno dei digiunatori e lasciano in segno di omaggio le sciarpe sul collo dei tre uomini impegnati in questa non violenta prova di forza con il carrozzone burocratico dell’ONU. Si inchinano a mani giunte, scambiano con i tre qualche parola e poi procedono oltre. Quasi tutti hanno le lacrime agli occhi e la commozione dipinta sui volti. In diversi si fermano al presidio ma quando la gente all’interno del perimetro ha superato la sessantina, arrivano due poliziotti in borghese a ricordare che il numero delle persone che stazionano qui non può superare le trenta. Quindi i responsabili del TYC sono costretti a chiedere alla gente di allontanarsi dopo essere venuta a salutare i tre digiunatori. A questo proposito vorrei dire due parole sul comportamento della polizia di NY. Mi hanno detto che i primi giorni è stato piuttosto burbero ai limiti della brutalità. Poi è cambiato anche grazie al grande numero di “complaints” arrivati sul sito della persona incaricata dall’amministrazione comunale di prendere nota delle proteste contro il comportamento della polizia in città. Adesso non posso dire che l’atteggiamento dei poliziotti sia cordiale ma certo è meglio di prima.

Verso le undici è previsto l’arrivo della tradizionale manifestazione che commemora l’insurrezione di Lhasa del 1959 in una piazza a poche decine di metri da qui dove si terranno i discorsi conclusivi e una rappresentazione teatrale di un gruppo artistico tibetano. Gli organizzatori hanno invitato i digiunatori a presenziare e così Shingza Rinpoche, Dorje Gyalpo e Yeshi Tenzin vengono messi sulle sedie a rotelle e portati nella piazza e fatti sedere sotto il palco.

Verso le 12 arriva la manifestazione. E’ davvero imponente. Pochissimi occidentali ma una vera marea di tibetani. A occhio dovrebbero essere più di quattromila. Forse cinquemila. Sono arrivati da tutti gli Stati Uniti. Una distesa di bandiere tibetane e cartelli che chiedono la libertà per il Tibet. Vengono vendute delle magliette verdi con Pö Rangzen (Indipendenza per il Tibet) scritto in tibetano che i manifestanti indossano sopra cappotti e giacche. I ritratti dei 26 martiri immolatosi con il fuoco sono portati in processione da un gruppo di donne. Gli slogans chiedono tutti la libertà per il Paese delle Nevi. Da tempo non vedevo una manifestazione così dura e determinata.

Poco dopo mezzogiorno sale sul palco Lobsang Nyantak, il rappresentante dell’Amministrazione Tibetana in Esilio per USA e Canada, che legge il discorso del nuovo Kalon Tripa Lobsang Sangay. Dal 1960 è la prima volta che il 10 marzo il Dalai Lama non rilascia un suo statement e per uno come il sottoscritto che ha partecipano a decine di queste commemorazioni, la cosa fa un certo effetto.

Dopo la lettura del discorso del Kalon Tripa, non ho capito bene se il fatto era programmato o meno, gli organizzatori chiedono a Shingza Rinpoche di intervenire. Il giovane lama, nonostante le condizioni di salute (ha perso 12 chili dall’inizio del digiuno), riesce a parlare e a farsi sentire distintamente aiutato dal microfono che amplifica la sua esile voce. Ma se la voce è esile il contenuto delle sue parole è forte e chiaro. Spiega le ragioni della protesta in corso. Chiede ai tibetani di rimanere uniti e combattere per l’indipendenza del Tibet, di non lasciar perdere la speranza e termina ribadendo la assoluta determinazione dei tre digiunatori ad andare avanti con la loro protesta fino a quando l’ONU non avrà dato delle risposte convincenti.

Un uragano di applausi segna la fine del discorso di Shingza Rinpoche. E a questo punto vengono invitati a salire sul palco una serie di leader che si battono per l’indipendenza del Tibet. Nella concitazione del momento non sono riuscito a comprendere quanto la cosa fosse prevista o invece sia stata decisa all’ultimo momento. Fatto sta che dopo Rinpoche parlano (prima in tibetano poi in inglese) Tsewang Ringzin, il carismatico presidente del Tibetan Youth Congress, e a seguire lo scrittore e attivista Jamyan Norbu (evidentemente molto amato qui negli USA a giudicare dagli applausi ricevuti) e il poeta Tenzin Tsundue, anche lui molto impegnato nella lotta politica per l’indipendenza del Tibet. Tutti i discorsi sono a lungo applauditi e spesso interrotti dal grido ritmato e ripetuto di Pö Ranzen, Pö Rangzen.

Dopo il discorso di Tsundue, è il turno di Lhamo Tso, moglie del filmmaker Dhondup Wangchen arrestato e condannato nel 2009 a sei anni di carcere per aver girato e prodotto il documentario “Leaving Fear Behind”. Anche quello di questa giovane donna è un discorso intenso, reso ancor più drammatico dalle lacrime che sovente le incrinano la voce e la costringono a interrompersi.

Terminata questa commovente testimonianza i tre digiunatori e il gruppo di persone che li accudiscono tornano al presidio davanti al Palazzo delle Nazioni Unite mentre la folla, in un silenzio commosso, fa ala al loro passaggio e si inchina a mani giunte in segno di devozione.

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