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12 luglio 2013

Le zone di pulizia etnica di Israele
di Jonathan Cook
Traduzione di Giuseppe Volpe

Se non fosse per il tagliente filo spinato, i giganteschi blocchi di cemento, le torri di guardia e il solito scorbutico soldato adolescente, sarebbe impossibile dire in quale punto il brullo altopiano del Negev orientale israeliano ceda il passo alle colline meridionali di Hebron, nella West Bank.

Il posto di controllo militare di Shani segna approssimativamente la demarcazione formale tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ma in pratica la distinzione è priva di significato. Israele comanda su entrambi i lati della Linea Verde.

Nelle settimane recenti è andato intensificando una campagna per cacciare sommariamente le comunità contadine palestinese dalle loro terre ancestrali per sostituirle con nuovi venuti ebrei.

Gli avvocati israeliani sostenitori dei diritti umani, stanchi delle critiche stereotipate della comunità internazionale, affermano che è ora di essere più diretti. Definiscono queste: zone di pulizia etnica, mirate a cacciare i palestinesi indipendentemente dalle prescrizioni della legge internazionale e da se i palestinesi in questione siano o no cittadini israeliani.

Nelle colline meridionali occupate di Hebron una dozzina di comunità tradizionali – cui da molto tempo Israele nega servizi moderni, come l’elettricità e l’acqua corrente – stanno lottando per rimanere nella case-grotte che le proteggono da secoli.

Israele ha riclassificato gran parte della loro terra come zona di esercitazioni militari e pretende che se ne vadano per la loro stessa sicurezza. Un appello ai tribunali israeliani, la puntata più recente di una saga che dura da quattordici anni per evitare la cacciata, è in programma nei prossimi giorni.

La preoccupazione di Israele per il benessere degli abitanti dei villaggi suonerebbe più convincente se non incoraggiasse gli ebrei a vivere in insediamenti illegali nelle vicinanze.

Anche i palestinesi che vivono in altre parti dei territori occupati appetite da Israele – come i villaggi vicino a Gerusalemme e quelli nella fertile Valle del Giordano, la spina dorsale di qualsiasi futuro stato palestinese – sono espulsi. Poligoni di rito, zone militari interdette e parchi nazionali sono i pretesti di Israele per sequestrare queste aree agricole di cui le comunità rurali hanno bisogno per sopravvivere.

In conseguenza la vita palestinese sta avvizzendo in quasi due terzi della West Bank affidata temporaneamente a Israele – la cosiddetta Area C – in base agli Accordi di Oslo.

Palestinesi eternamente molestati hanno cercato rifugio nelle città della West Bank sotto il controllo palestinese. Oggi i rimasti nell’Area C, una popolazione di circa 100.000 persone, sono superati di tre volte nel numero dai coloni ebrei.

Un’Unione Europea frustrata, normalmente evasiva riguardo all’occupazione israeliana, ha cominciato a descrivere questo come un “trasferimento forzato”. L’espressione può suonare sinistra e di riprovazione, ma i gruppi per i diritti umani affermano che, da un punto di vista legale, la terminologia oscura, piuttosto che evidenziare, ciò che sta avendo luogo.

Il “trasferimento forzato”, osserva Suhad Bishara, un avvocato di Adalah, un centro legale per la minoranza di 1,5 milioni di cittadini palestinesi, descrive solitamente casi non coordinati e non ufficiali di trasferimento di popolazioni, spesso come conseguenza di una guerra.

Bishara e altri sostengono invece che Israele sta attuando una politica sistematica e intenzionale per cacciare i palestinesi dalla loro terra e per sostituirli con comunità ebraiche. Questo, dicono, andrebbe chiamato “pulizia etnica”, un’espressione che ha ricevuto per la prima volta valore legale e peso morale nel conflitto dei Balcani, nei primi anni ’90.

Come prova i legali segnalano i recenti sviluppi in Israele. Il trattamento di decine di migliaia di beduini nel Negev, tutti cittadini israeliani, è virtualmente identico a quello riservato ai palestinesi delle colline meridionali di Hebron.

Anche i beduini sono stati sottoposti a una campagna prolungata per cacciarli dalle loro terre ancestrali, dove per la maggior parte vivono come pastori, e mandarli in una serie di “distretti”, urbanizzandoli a forza nelle comunità più indigenti di Israele. Nello sconcertante linguaggio della burocrazia israeliana, i beduini devono essere “concentrati”.

Israele ha accresciuto la pressione – come nella West Bank- negando a questi beduini ogni servizio pubblico e demolendo tutte le case in muratura da loro costruite. Come i palestinesi sotto occupazione, i beduini hanno visto le loro comunità riclassificate come poligoni di tiro, zone militari o foreste nazionali.

Il villaggio di al-Araqib, vicino a Beersheva, ad esempio, è stato demolito più di cinquanta volte negli anni recenti mentre Israele piante sul suo territorio – con un’adatta sinistra ironia – la Foresta degli Ambasciatori, che ricorda l’aiuto offerto a Israele dai corpi diplomatici della comunità internazionale.

In attesa in agguato ci sono sviluppatori pronti a costruire dieci cittadine sulla terra beduina, per soli ebrei. Il resto del territorio è inghiottito da fattorie ebree, vasti spazi sono destinati a creare nuove opportunità turistiche, come vigneti e servizi di assaggio dei vini, centri per cavalcate su cavalli e cammelli e, in un caso, un cimitero per animali da compagnia.

Ma, come nella West Bank, i beduini si rifiutano di trasferirsi e insistono con le rivendicazioni della loro terra storica presso i tribunali israeliani. Piuttosto che aspettare un verdetto che può dispiacergli, il governo di Benjamin Netanyahu sta riscrivendo i diritti di cittadinanza dei beduini.

Il piano Prawker, che è stato approvato nella prima lettura in parlamento nel mese scorso, costringerà 40.000 beduini a lasciare la loro terra, la maggiore espulsione in Israele da decenni. Diversamente dai cittadini ebrei, non avranno alcuna voce in capitolo su dove vivranno; saranno assegnati coercitivamente a un distretto.

Per la prima volta cittadini israeliani – i beduini – saranno privati di ogni ricordo ai tribunali mentre sono cacciati dalle loro case. Israele, invece, ricorrerà a procedure amministrative più familiari sperimentate nei territori occupati.

La politica è chiara: i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde vanno trattati come pecore, recintati in aree sempre più ristrette, mentre gli ebrei avranno accesso illimitato al Grande Israele immaginato da Netanyahu.

La comunità internazionale critica da tempo Israele per la “discriminazione” nei confronti dei suoi cittadini palestinesi e per l’”oppressione” dei palestinesi sotto occupazione. Anche questa terminologia va rivista, affermano gli avvocati dei diritti umani.

Un sistema politico che tratta un gruppo etnico come meno umano di un altro ha già una definizione legale: si chiama apartheid.


Jonathan Cook ha vinto il premio speciale Martha Gellhorn 2011 per il giornalismo. I suoi libri più recenti sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East (Pluto Presso) [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente” e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books) [La scomparsa della Palestina: esperimenti israeliani con la disperazione umana]. Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.


Una versione di questo articolo è apparsa in origine su The National, Abu Dhabi.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/israel-s-ethnic-cleansing-zones-by-jonathan-cook

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