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Mercoledi 27 Mars 2013

Ho ritrovato Amina la Femen tunisina
di Martine Gozlan

Il suo sguardo di sfida e il suo petto svelato su cui aveva scritto "Il mio corpo mi appartiene, non è l’onore di nessuno" hanno seminato l'ammirazione e la rabbia. Il coraggio di Amina Tyler prima Femen Tunisia, è pari solo alla tragedia che la circonda. Era scomparsa, rapita dalla sua famiglia dopo essere stata ospite di amici. Ho avuto modo di incontrarla da qualche parte nel profondo del paese, lontano dalla capitale, con il consenso di sua madre, che non ha permesso alcuna foto.

Oggi, la ragazza non è libera nei suoi movimenti e contatti. La famiglia perora la sua "fragilità psicologica" per tagliarla fuori dal mondo. Le danno un sacco di farmaci. Alte dosi di antidepressivi. E' anche, curiosamente, la tesi di alcune femministe tunisine. Nel caso di Amina si sente la prove dello zolfo per la generazione precedente. Ho trovato una ragazza stanca, stordita dal trattamento medico ma ferma nella sua volontà di riconquistare la sua libertà di azione. Non siamo stati in grado di parlare con lei da sola, sua madre teneva a mantenere il controllo della figlia.

- Vorrei poter ritornare alla vita normale, fare telefonate, connettermi a internet e ritornare al liceo … -

Amina parla con voce flebile, esausta. Contrasta con le voci voce alte, eclatanti, persino assordanti che erompono intorno a noi, nel soggiorno di una casa famigliare lontano da Tunisi, in una città che non ho nominato, per la sicurezza di Amina, la prima Femen in Tunisia, la seconda nel mondo arabo dopo l'egiziana Aliaa al-Maghdy, che ha ricevuto a minacce di morte dai salafiti. Lo svelamento di un seno che simboleggia in Francia, dopo due secoli, lo slancio orgoglioso della bella Marianne repubblicana, qui polverizza il tabù supremo sul corpo delle donne.

Per diversi giorni, non avevamo altro che voci sul caso di Amina. Nessuno poteva raggiungerla dopo che la sua famiglia l’aveva rapita in pieno giorno davanti a un caffè in Avenue Habib Bourguiba. Tre giorni fa, il suo avvocato Bochra Hmidi Belhadj, ha detto all'agenzia France Presse che Amina stava bene ed era volontariamente insieme alla sua famiglia.

Questo modo di andare proprio al cuore di un silenzio di tomba non mi ha convinta, né ha convinto Fourest Caroline che, catturata dalla stessa sensazione logica, titolava il suo blog sull’Huffington Post "No, non va tutto bene". La direttrice, Nadia El Fani, ha postato Domenica, il suo petto nudo e le braccia tatuate con un "Per Amina" in solidarietà su Facebook.

Dal mio arrivo a Tunisi, rimbalzo da un’informazione contraddittoria all’altra. L'unico attendibile sembra essere Bochra l'avvocato. Il suo messaggio: "Devi lasciarla stare, lei è al sicuro con la sua famiglia, riposa".

Ho contattato Ahlem Belhadj, psichiatra e presidente dell'Associazione tunisina delle donne democratiche. Sostiene questo argomento e dice che Amina tornò dalla sua famiglia volontariamente. Molto sconvolta dalla vicenda, sottolinea la posizione ufficiale dell'associazione: - L'atto di Amina, non è un metodo di lotta che condividiamo, ma abbiamo rispetto per le persone e ci battiamo contro ogni forma di violenza che possa verificarsi. E non dirò una parola di più su questa storia ..." Ho imparato più tardi che Ahlem Belhadj fa parte dei medici che seguono Amina. Precisa, tuttavia, che non l’ha più vista dopo la scomparsa: "Non sono mai stata a conoscenza del suo rapimento" ...

Poi ho incontrato Zyed, il giovane fotografo che ha scattato la foto di Amina in topless. Anche lui ha ricevuto minaccie di morte, non solo dopo lo scandalo. I salafiti gli hanno rotto le costole alcuni mesi fa. Cammina sempre con un enorme sacco sulle spalle: - Nel caso vogliano sparargli da dietro come hanno fatto con Chokri Belaid ... - dice Soraya, una delle sue amiche. Zyed è un ribelle. Ha anche scattato le immagini di donne con il burka. La sua Tunisia ha 20 anni e non vuole soffocare. La sua Tunisia crede nella libertà conquistata con la rivoluzione e poi divenuta ostaggio di coloro che l’hanno rubata. Zyed ha ospitato la ragazza dopo le minacce di morte e chiede la lapidazione dei salafiti che l’hanno accusata. Lui è sconvolto dalla violenza che viene esercitata contro di Amina quando è prelevata.

Ho chiamato la madre di Amina al telefono. - Amina è calma, dorme, il suo psichiatra ha detto che bisogna sottrarla a tutto ciò che può irritarla o infastidirla. – La madre parla di Amina come fosse una bambina: - Lei dorme sulle mie ginocchia, non mi lascia un minuto. – Mi passa la figlia, che risponde brevemente e conferma che accetta di incontrarmi.

La descrizione fatta da sua madre e la voce soffocata di Amina contrastano nettamente con l’orgoglio delle foto in topless, con lo sguardo di sfida e le parole notevolmente strutturate della sua intervista su Attounisia. Dove parlava della cultura che modella la libertà e ricordando che l'acquisto di un libro di Nietzsche costa solo pochi dinari.

Dopo un lungo viaggio nella Tunisia profonda e solitaria, attraverso dei dipartimenti tratteggiati da centinaia di bidoni di benzina trafficati dalla Libia, arrivo in un tipico quartiere borghese. Due zii, una zia, finalmente la madre che indossa l'hijab, apre la porta. Immediatamente, si presentano per la loro professione e stato: - Noi siamo persone istruite: insegnanti, abbiamo lauree in storia e in ingegneria ... –

Vogliono farmi capire che non si tratta di una storia di analfabeti. Lo so bene fin da ieri e dalle reazioni ambigue delle femministe. Il gesto di Amina ha avuto l’effetto di rivelare i terribili blocchi dei conservatori così come quelli di coloro che si considerano emancipati.

Dove si trova Amina? Eccola, lei li domina dalla sua altezza, la sua faccia è stanca, non sorride. Tutti parlano, lei tace. Jeans, polo, senza trucco. La famiglia è loquace. Devo porle domande dolcemente, perchè la sua voce emerge dal frastuono delle parole che sembrano sostituirsi alla sua, con l’amore che la sua famiglia continua a decantare: - Lei non è scomparsa! Lei è qui! Come avremmo potuto farle del male! Grida la zia, La famiglia! Non c'è niente di meglio che famiglia! –

La madre manifesta la sua ansia per il mondo esterno – Ho paura. Le ragazze per bene vanno tenute in casa per proteggerle dalle influenze esterne, ... perché siamo in Tunisia, nel cuore vertiginoso dei paradossi femminili. Vorrei che mia figlia diventasse un avvocato o una giornalista come lei! Vorrei che guadagnasse il suo proprio denaro in futuro! –

Lo zio sintetizza il tormento principale degli uomini della famiglia e delle donne che li seguono, che affollano il salone dove scoppi di risa, distribuzione di aranciata, offerta di dolci e confetti matrimoniali tentano di ricostruire un ambiente normale: - Noi non vogliamo ch’ella sia considerata un corpo. La nostra famiglia appartiene al mondo arabo! La nostra famiglia rifiuta che lei si spoglii! Per noi, è lo spirito che conta, non è il corpo! –

Niente è normale, sono seduta al centro del tumulto famigliare di fronte al silenzio di Amina. Intervengo, tento di andare oltre le frasi passive, dico loro che per decine di migliaia di persone, l'atto di Amina è un atto liberatorio, di uno spirito libero.

Almeno lei, capirà questo, nel suo silenzio.

Capisce benissimo e mi chiede del 4 aprile:

A - Che cos’è esattamente?

M - Una giornata di solidarietà. Centomila persone hanno firmato la petizione in tuo favore.

La madre interviene di nuovo: Voglio proteggere mia figlia da chiunque voglia sfruttare il suo gesto.

Parla un altro zio: Amina è segnata da problemi psicologici, non è responsabile dei suoi atti, ha agito sotto pressione, è influenzabile come una bambina. La stringe a sé, dammi un bacio tesoro!

Questa conversazione è difficile.cosa passa per la testa di una giovane circondata da proclami d’amore protettivo e di infantilizzazione? Che cosa pensa Amina, quando diviene un oggetto dopo essere stata l’autrice di un gesto che reclama la volontà femminile di divenire soggetto?

M – Parlami Amina, esci da questo tumulto. Come ti senti, bene, male?

A - La sua voce stanca ma accurata: - No, non posso comunicare con l’esterno. La mia famiglia mi accetta, ma non accetta il mio gesto. Sono stanca, mi danno degli antidepressivi. Vorrei dire alle Femen buona fortuna! Sarete sempre le più forti femministe del mondo. Per me la reazione della società non è incoraggiante. Vorrei riprendere i miei studi, non mi sento libera. Vorrei poter telefonare liberamente ai miei amici. Collegarmi a internet, ritornare al liceo.

Le voci dei famigliari aumentano di nuovo.

M – Potremmo parlare un momento con calma Amina ed io?

Si alzano tutti eccetto la madre che non vuole lascirla per un solo istante.

M – Confermi di essere stata portata qui?

A – quando mi hanno trovato, non ho avuto problemi con mia madre, ne in seguito con mio padre. Ma è stato mio cugino a colpirmi con uno schiaffo per riportarmi a casa, e ha rotto il chip del mio smatphone.

Interviene la madre: - Vorresti che guardassi mia figlia andare all’inferno senza fare nulla? Il cugino ha voluto aiutarmi, non parlare di lui!

A – Amina prosegue calma: - Si, voglio parlare di lui. Siamo andati in seguito nella casa di mia zia e là ho dovuto difendermi con una bomboletta di gas, di quelle che si utilizzano durante le aggressioni, per difendermi dal cugino. Alla fine è arrivato mio padre. Mi ha abbracciato. E sono rimasta per tre giorni in un'altra casa. Avevo bisogno di telefonare, d’informare Inna, ho fatto molti tentativi di contattare Inna. Inna è una delle fondatrici ukraine del gruppo Femen.

Amina continua a ripetere: voglio tornare alla vita normale. Voglio studiare, telefonare, connettermi a internet.

M – Mi giro verso la madre: - Ma perché le impedite di comunicare? E’ maggiorenne!

La Madre: -Ma è la mia bambina! Ha bisogno di stare calma, di riflettere. Tra un mese o due le restituirò il suo telefono e internet.

Nuovo intervento di uno degli zii: - Noi crediamo che il suo gesto è stato ottenuto sotto costrizione, che è irresponsabile. Noi citeremo in giudizio coloro che l’hanno indotta a fare quel gesto. Ritornerà a scuola quando lo decideranno i medici psichiatri.

M - Guardo la ragazza: - Amina, tu hai messo la foto perché sei stata influenzata come dice la tua famiglia?

A – Mi risponde con la sua voce flebile ma chiara: - No.

Mi porto via questo – No – insieme al sorriso di Amina, l’unico, che mi ha fatto quando le ho detto che tante persone ammirano il suo coraggio. MI ha sorriso di nuovo sulla porta, insieme ad un’anziana, nonna di uno degli zii, che si divertiva a nascondere un occhio dietro il suo velo nero.

L’aria libera e fresca invade l’automobile sulla strada per Tunisi. Non è stata una liberazione, piuttosto un asfissia. Mi sentivo soffocare dentro di me, come Amina.


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Mercredi 27 Mars 2013

J’ai retrouvé Amina, la Femen tunisienne
de Martine Gozlan

Son regard de défi et sa poitrine dévoilée sur laquelle elle avait tagué  « Mon corps m’appartient, il n’est l’honneur de personne » ont semé l’admiration et la colère. Le courage d’Amina Tyler, première Femen de Tunisie, n’a d’égale que la tragédie qui l’entoure. Elle avait disparu, enlevée par sa famille, après avoir été  hébergée par des amis. J’ai  pu la rencontrer, quelque part dans le pays profond, loin de la capitale, avec l’accord de sa mère qui n’a autorisé aucune photo.

Aujourd’hui, la jeune fille n’est pas libre de ses mouvements et de ses contacts, bien que majeure. La famille plaide sa « fragilité psychologique » pour la couper du monde. On lui donne beaucoup de médicaments. Des antidépresseurs à haute dose. C’est aussi, curieusement, la thèse de certaines féministes tunisiennes. Le cas Amina sent d’évidence le soufre pour la génération précédente. J’ai trouvé une jeune fille lasse, à la fois engourdie par un traitement médical et ferme sur sa volonté de retrouver sa liberté d’action. Nous n’avons pas pu parler seule à seule, sa mère tenant à garder « par amour » le contrôle de sa fille. Récit.

«  Je veux pouvoir revenir à la vie normale, je veux pouvoir téléphoner, me connecter à Internet et retourner au lycée… »

Amina parle d’une voix faible, épuisée. Cette voix contraste avec les voix fortes, éclatantes, parfois assourdissantes qui fusent autour de nous, dans le salon d’une maison familiale, loin de Tunis, dans une ville que je ne nomme pas, par sécurité car le geste d’Amina, la premiere Femen de Tunisie, la seconde du monde arabe après l’Egyptienne Aliaa al-Maghdy, a entrainé des menaces  de mort des salafistes. Le dévoilement d’un sein qui symbolise en France, depuis deux siècles, le fier élan de la belle Marianne républicaine pulvérise ici  le tabou suprême sur le corps des femmes.   

Depuis plusieurs jours, nous ne disposions que de rumeurs à propos d’Amina. Personne ne pouvait plus la joindre depuis que sa famille l’avait enlevée, en plein jour, devant un café de l’avenue Habib Bourguiba. Voici trois jours, son avocate Bochra Belhadj Hmidi, a fait savoir à l’Agence France Presse qu’Amina allait bien et se trouvait de son plein gré dans sa famille.

Cette façon d’aller bien au cœur d’un silence de plomb ne m’a pas convaincue, pas plus que Caroline Fourest qui, saisie du même pressentiment logique, a titré sur son blog du Huffington Post « Non, tout ne va pas bien ». La réalisatrice Nadia el Fani, elle, a affiché dimanche, buste nu, et bras tatoué d’un « Pour Amina » sa solidarité sur Facebook.

Depuis mon arrivée à Tunis, je vais d’une info contradictoire à l’autre. Le seul relais semble être Bochra l’avocate. Son message : « Il faut la laisser tranquille, elle est en sécurité avec sa famille, elle se repose. »

Je contacte Ahlem Belhadj, psychiatre, et présidente de l’Association tunisienne des femmes démocrates. Elle appuie cette thèse et affirme qu’Amina est revenue dans sa famille de son plein gré. Très énervée par l’affaire, elle tient à souligner « la position officielle de l’association » : « Le geste d’Amina, ce n’est pas une méthode de lutte qu’on a l’habitude d’employer mais on a le respect des personnes et nous sommes solidaires contre toutes les formes de violence qu’elles peuvent subir. Et je ne dirai pas un mot de plus sur cette histoire… » J’apprendrai plus tard qu’Ahlem Belhadj fait partie des médecins qui « suivent » Amina. Elle ne l’a cependant pas revue depuis son enlèvement : « je n’ai jamais été au courant de cet enlèvement »

Je rencontre ensuite Zyed. C’est le jeune photographe qui a réalisé les photos d’Amina seins nus. Lui aussi est menacé de mort, pas seulement depuis le scandale. Les salafistes lui ont cassé les côtes il y a quelques mois. Il ne marche plus qu’un énorme sac sur son dos : « Au cas où on voudrait lui tirer dessus par derrière comme on a tué Chokri Belaid… » explique Soraya, une de ses amies. Zyed est un rebelle. Il a aussi réalisé des photos de femme en burka. Sa Tunisie  a 20 ans et ne veut pas de l’étouffement. Sa Tunisie a cru à la liberté conquise et s’est retrouvée otage de ceux qui l’ont volée. Zyed a hébergé la jeune fille après que les menaces de mort et les appels à la lapidation des salafistes aient fusé. Il est révolté par la  violence qui s’est exercée contre elle quand on l’a enlevée.

J’appelle la mère d’Amina au téléphone. « Amina est calme, elle dort, son psychiatre dit qu’il faut l’éloigner de tout ce qui peut l’énerver, la déranger ». La mère parle d’Amina comme d’un nourrisson : « Elle dort sur mes genoux, elle ne veut pas me quitter une minute ». Elle me passe sa fille qui me répond brièvement et me confirme qu’elle accepte de me voir.

La description donnée par sa mère, la voix sourde d’Amina contrastent de façon saisissante avec la fierté de la photo aux seins nus, le regard de défi et le discours remarquablement structuré de son interview sur la chaine Attounisia. Elle parlait de la culture qui forge la liberté, elle rappelait qu’acheter un livre de Nietzsche ne coûtait que quelques dinars.

Après une longue route dans une Tunisie profonde, esseulée, à travers des départementales jalonnées de centaines de bidons d’essence trafiquée en provenance de Libye, j’arrive dans un quartier typique de la classe moyenne. Deux oncles, une tante, la mère enfin, qui porte le hijab, m’ouvrent la porte. Immédiatement, ils se présentent par leur profession et précisent : « Nous sommes des gens éduqués : institutrice, professeur d’histoire, ingénieur, nous avons des diplômes… »

On veut me faire comprendre que  ce n’est pas une histoire d’illettrés. Je le sais bien depuis hier et les réactions ambigües des féministes : le geste d’Amina a eu le génie de débusquer les bloquages terribles des conservateurs comme de ceux qui se disent émancipés.   

Où est Amina ? La voici, elle les domine de sa haute taille, son visage est fatigué, elle ne sourit pas. Tout le monde parle, elle se tait. Un jean, un polo, pas de maquillage. La famille est volubile. Il faut interroger doucement Amina pour que sa voix émerge du vacarme et des paroles qui semblent se substituer à la sienne avec un amour que sa famille ne cesse de scander : « Elle n’a pas disparu ! Elle est chez nous ! Comment sa propre famille pourrait-elle lui faire du mal, crie la tante, la famille ! Il n’y a pas mieux que la famille ! »

La mère manifeste à la fois sa hantise du dehors « pour les filles bien qu’il faut garder à la maison, loin des influences extérieures, j’ai peur… » et son rêve de l’ambition car nous sommes en Tunisie, au cœur de paradoxes féminins vertigineux : « Je veux que ma fille devienne avocate ou journaliste comme vous ! Je veux qu’elle ait son propre argent plus tard ! »

L’oncle résume le tourment majeur des hommes de cette famille et des femmes qui les suivent, qui se pressent dans ce salon où des éclats de rire, une distribution d’orangeade et de gateaux, une offrande de dragées et de fleurs d’un mariage tentent de tisser une atmosphère normale : « On ne veut pas qu’elle soit un corps. Notre famille appartient au monde arabe ! Notre famille refuse qu’elle se déshabille ! Chez nous, c’est l’esprit qui s’impose, ce n’est pas le corps ! »

Rien n’est normal, je suis assise au cœur du tumulte familial et du silence de l’individu Amina. J’interviens, je vais au delà de la réception passive des phrases, je leur dis que pour des dizaines de milliers de gens, l’acte d’Amina c’est un acte libre, d’esprit libre.

Au moins, elle entend cela, la silencieuse.

Elle entend très bien, elle me questionne sur le 4 avril:

« C’est quoi exactement ? »

« Une journée de solidarité. Il y a 100 mille personnes qui ont signé la pétition pour toi ».

La mère intervient à nouveau :

« Je veux protéger ma fille alors que chacun veut exploiter ses gestes. Loin de sa famille, elle est menacée. Par la drogue, par les influences, par les salafistes, par tout le monde. »

Un autre oncle parle :

« Elle est soignée pour des problèmes psychologiques, elle n’est pas responsable de ses actes, elle a fait ça sur pression, elle est influençable comme une enfant. »

Il la serre contre lui :

« Donne-moi un bisou ! »

Cette conversation est difficilement supportable. Que se passe-t-il en ce moment dans la tête et le cœur d’une jeune fille cernée par des proclamations d’amour protecteur et d’infantilisation ? Que se passe-t-il quand on devient un objet après avoir été l’auteur d’un acte qui clame la volonté féminine de devenir sujet ?

Parle moi, Amina. Sors de leur tumulte.

« Tu te sens bien, mal ? »

Sa voix lasse, mais précise :

« Non, je ne peux pas communiquer avec l’extérieur. Ma famille m’accepte, moi, mais pas mon acte. Je suis fatiguée, on me donne des anti-dépresseurs. Je veux dire aux Femen bon courage. Restez toujours les plus fortes féministes du monde. Pour moi, la réaction de la société n’est pas encourageante.Je veux reprendre mes études, je ne me sens pas libre. Je souhaite pouvoir retéléphoner librement à mes amis. Me connecter à Internet. Retourner au lycée ».

Les voix montent à nouveau.

« Pouvons-nous parler un moment tranquillement, Amina et moi ? »

Ils se lèvent tous. Sauf la mère. Elle ne veut pas nous laisser un seul instant.

« Tu as été enlevée, tu le confirmes ? »

« Quand ils m’ont trouvée, je n’ai pas eu de problème avec ma mère ni ensuite avec mon père. Mais mon cousin, lui, m’a frappée devant le café pour m’emmener. Il a cassé la puce de mon téléphone… »

La mère intervient :

« Je verrai ma fille aller en enfer et je ne ferai rien ? Le cousin a voulu m’aider ! Ne parle pas de lui ! »

Amina poursuit calmement :

« Si, je veux parler de lui. Nous sommes allés ensuite dans la maison de ma tante et là, j’ai été obligée de me servir d’une bombe à gaz, comme on en utilise dans les agressions, pour me protéger du cousin. Enfin, mon père est arrivé. Il m’a embr?assée. Et je suis restée trois jours dans une autre maison. J’avais besoin de téléphoner, d’informer Inna, j’ai fait beaucoup de choses pour contacter Inna. » (Inna est la militante des Femen ukrainienne, l’une des fondatrices du groupe)

Amina continue. Elle répète :

« Je veux revenir à la vie normale. Je veux étudier, téléphoner, me connecter à Internet. »

Je me tourne vers sa mère :

« Alors ? Pourquoi lui avez-vous enlevé tout moyen de communiquer ? Elle est majeure ! »

« Mais c’est mon enfant ! Elle a besoin de calme, de réfléchir. Dans un mois ou deux, je lui rendrai son téléphone et internet. »

Nouvelle intervention de l’un des deux oncles :

« Nous considérons que son geste a été obtenu sous la contrainte, qu’elle est irresponsable. Nous allons attaquer en justice ceux qui l’ont amenée à ce geste. Le retour au lycée, ce sera après l’avis des médecins psychiatres. »

Je regarde la jeune fille :

« Amina, tu as mis la photo parce que tu as subi une influence comme le dit ta famille ? »

Elle répond de sa voix faible mais claire :

« Non. »

Ce « Non ,» je l’emporte avec moi, avec le sourire, l’unique sourire d’Amina quand je lui ai dit en guise d’au revoir que tant de monde admirait son courage. Elle a même ri sur le pas de la porte avec une très vieille dame, la grand-mère d’un des oncles, qui s’amusait à se cacher un œil avec son voile noir.

L’air libre a envahi la voiture en reprenant la route de Tunis. Ce n’était pas une délivrance. Plutôt une asphyxie. Je sentais en moi étouffer Amina.  

 

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