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20/03/2013

I quattro moschettieri di Bush che presero Baghdad in 21 giorni
di Marco Bardazzi

Battaglione di ricognizione dei Marines nel campo petrolifero di Al Ratka in marcia verso Baghdad: il blitz fu condotto con una manovra a tenaglia: una colonna avanzava lungo l’Eufrate, l’altra lungo il Tigri. All’alba del 20 marzo 2003 partiva la guerra lampo guidata da un pool di supergenerali.

Dieci anni fa questi erano i giorni dei generali. Fallite le ultime mediazioni, spazzata via la diplomazia, la Casa Bianca di George W. Bush aveva dato l’ordine d’attacco, mascherato dietro l’apparenza di un ultimatum che Saddam Hussein non avrebbe rispettato. La parola passava alle armi, alla guerra super tecnologica che il Pentagono preparava da tempo. Era l’ora degli uomini con quattro stellette sul bavero della mimetica da deserto. Sicuri di sé e alla guida di un esercito equipaggiato come nessun altro, riuscirono a convincere Washington che invadere l’Iraq e sconfiggere il raiss era un lavoro veloce e con un prezzo accettabile in termini di vite umane. Mantennero la promessa riguardo alla velocità: in 21 giorni i Marines erano accampati nei palazzi di Saddam. Ma sbagliarono clamorosamente i calcoli su quello che sarebbe successo dopo, negli anni a venire.  

Il più importante tra i generali, Tommy Franks, in quel marzo del 2003 viveva in Qatar accampato nel deserto alle porte di Doha, la capitale. Camp As Sayliyah era la base che l’emiro aveva concesso agli americani per installare il centro di comando da cui guidare un’armata di 200 mila uomini schierata alle porte dell’Iraq. ll Pentagono aveva aperto la base militare a centinaia di giornalisti di tutto il mondo, per cercare di controllare la narrativa della guerra e dare un contesto ai racconti che sarebbero arrivati dagli inviati «embedded» con le truppe d’assalto. Il palcoscenico di Franks era una sala stampa da 1,5 milioni di dollari, arredata da scenografi presi in prestito da Hollywood: l’immancabile podio con lo stemma dello U.S. Central Command, quattro grandi schermi al plasma, persino tende mimetiche appese alle pareti per dare un tocco esotico in più. 

Franks girava la base con il passo di un grosso orso e ai giornalisti parlava fiero del rassicurante soprannome ricevuto dal nipotino: «Winnie Pooh». Nel frattempo, però, teneva il dito sul grilletto della guerra, che nel suo caso era in realtà il mouse del computer, con il quale poteva far muovere micidiali ondate d’attacco con carri armati Abrams M1A2 o far decollare decine di bombardieri dalla vicina base Al Udeid, la più grande del Golfo.  

Cinquecento km più a Nord, nel deserto del Kuwait, un altro generale dava gli ultimi ordini alle «screaming eagles» (aquile urlanti), gli uomini della 101a Divisione Aviotrasportata, un’unità abituata fin dalla II Guerra Mondiale a farsi carico del primo impatto con il nemico. David Petraeus, all’epoca un nerboruto generale cinquantenne adorato dalle truppe, l’ultimo giorno prima dell’attacco si era tolto la soddisfazione di battere un soldato diciannovenne in una gara di flessioni sotto il sole del Golfo. Poi aveva fatto l’ennesimo giro a controllare gli elicotteri AH-64 Apache, in attesa che da Doha arrivasse l’ordine di attaccare. 

Petraeus in quei giorni sembrava l’uomo del destino, avviato verso i vertici del Pentagono e poi, chissà, anche la Casa Bianca. Dieci anni dopo, arrivato fino alla guida della Cia e a un passo da una discesa in campo in politica, è svanito nel nulla, spazzato via da uno scandalo sessuale. 

Altri due generali dieci anni fa seguivano gli eventi da Washington, uno in divisa e l’altro ormai in abiti civili. Il primo, Richard Myers, capo degli Stati Maggiori, non perdeva occasione per ribadire che sull’Iraq stava per abbattersi un attacco a base di «shock and awe», un’espressione che riassumeva la ricetta di bombardamenti devastanti contro i palazzi del potere iracheno che era stata messa a punto dagli strateghi militari. Sull’altra sponda del fiume Potomac rispetto al Pentagono, a Foggy Bottom, sede del Dipartimento di Stato, l’ex generale Colin Powell invece si tormentava. Bush l’aveva costretto a mettere all’Onu la propria faccia di fronte al mondo, per chiedere il via libera a una guerra alla quale il segretario di Stato non credeva, sulla base di «prove inoppugnabili» dell’esistenza di armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam. Prove che Powell sapeva essere tutt’altro che certe. Ma ormai non si tornava indietro. 

Nella notte tra il 19 e il 20 marzo scattava l’operazione «Iraqi Freedom»: bombardamenti aerei su Baghdad, invasione via terra da Sud, blitz delle forze speciali contro gli obiettivi sensibili del regime. Dopo il rifiuto della Turchia di concedere agli Usa l’accesso all’Iraq da Nord, tutta la campagna militare del generale Franks si era concentrata nel Sud del Paese. Per giorni, americani e britannici risalirono l’antica Mesopotamia con una manovra a tenaglia. Da una parte, lungo il corso dell’Eufrate, il 5° corpo dell’U.S. Army con i fanti della 3° divisione e quelli della 101ma, impegnati in una corsa contro il tempo per entrare a Baghdad da Sud-Ovest attraverso l’aeroporto. Dall’altra i Marines, sfidati in continui combattimenti lungo il Tigri, fino all’arrivo in piazza Firdous e all’abbattimento della statua di Saddam. Il mondo pensò che fosse l’epilogo. In realtà, il peggio doveva ancora arrivare.  

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