The Electronic Intifada
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7 marzo 2013

La protesta dei pescatori di Gaza
di Joe Catron


“La situazione per i pescatori è pessima – dice Mos’ad Bakez dal porto di Gaza – Dobbiamo ancora affrontare ogni giorno la marina israeliana”. Mos’ad è appena tornata dalla “flotilla” che ha trascorso la mattinata lungo la costa del Mediterraneo, dal porto di Beit Lahiya a Gaza City.

Oltre 50 imbarcazioni, la flotilla era parte della campagna contro gli attacchi della marina israeliana ai pescatori palestinesi e per chiedere che Israele rilasci 36 navi da pesca sequestrate. La protesta è stata organizzata dall’Union of Agricultural Work Committees (UAWC) e ha seguito una serie di azioni da parte della stessa associazione, parte della giornata mondiale per il boicottaggio delle compagnie agricole israeliane.

Per le centinaia di pescatori che hanno passato la mattinata in mare insieme ad attivisti internazionali e telecamere delle tv, l’azione è stata un caso raro: si sono sentiti sicuri in mare.

Israele si è impegnato, il 21 novembre scorso, nell’accordo di cessate il fuoco firmato con i gruppi di resistenza palestinesi, a “fermare tutte le ostilità contro la Striscia di gaza, via terra, via mare e via aria, comprese le incursioni e le aggressioni individuali” e a “evitare le restrizioni al movimento per i residenti e gli attacchi nelle zone di confine”.

Il giorno dopo la tregua firmata al Ciaro, il governo de facto di Hamas a Gaza ha annunciato l’espansione del limite di pesca imposto da Israele di altre tre miglia nautiche, fino ad arrivare a sei miglia nautiche dalla costa.
 

Violazione dell’accordo di cessate il fuoco

Ma gli attacchi ai pescatori sono subito ripresi. Secondo Zakaria Baker, un altro pescatore che lavora per i cinque comitati locali dell’UAWC nella Strisica, Israele dal 21 novembre ha sequestrato nove barche. “Ne hanno prese di più di quante ne hanno sequestrate tra il 1994 e il 2005”, dice, aggiungendo che dalla tregua almeno cinque navi sono state attaccate dal fuoco israeliano e tre pescatori sono stati feriti.

“Sono stato ferito quando due navi da guerra israeliane si sono avvicinate alla mia barca il 17 dicembre – racconta Mos’ad Baker – Una mi ha girato intorno, mentre l’altra apriva il fuoco”. Una pallottola lo ha colpito alla coscia sinistra. “Poi mi hanno arrestato e hanno confiscato la mia barca, che ora è nel porto di Ashdod (in Israele, ndr).

Zakaria Baker spiega che dal momento del cessate il fuoco, la maggior parte delle barche che Israele ha preso di mira si trovavano entro le sei miglia nautiche dalla costa, che Israele ha unilateralmente dichiarato aperte alla pesca, ma altre navi si trovavano a Nord di Gaza, lungo il campo profughi di Al-Shati, dove la famiglia di Mos’ad vive. Israele ha garantito all’agenzia Onu OCHA che i pescatori possono pescare a Nord di Gaza entro le 1.5 miglia nautiche senza problemi. Ma secondo Zakaria Baker, le miglia tra il confine con Israele e il campo sono ora le più pericolose: “Gli israeliani cercano di restringere il limite nel campo di Al-Shati. Vogliono spingere via i pescatori così da muovere ulteriormente il confine”.

La famiglia Baker è formato per lo più da pescatori, per cui gli attacchi della marina israeliana la colpiscono duramente: “Tre altre navi della nostra famiglia sono state confiscate – spiega Mos’ad – Sono tutte ad Ashdod. Tre miei nipoti sono stati arrestati in mare”.
 

Le navi non tornano

Le limitazioni e le minacce contro i pescatori hanno spinto molti palestinesi a lasciare la professione, mentre chi resta si impoverisce. Un rapporto del 2010 dell’OCHA riporta che i pescatori registrati sono passati dai 10mila del 2000 – prima che Israele imponesse le restrizioni – a 3.500 di oggi.

Lo stesso documento stima che cinque anni di assedio sono costati ai pescatori 7.041 tonnellate di pesce e 26,5 milioni di dollari di guadagno. E raramente Israele restituisce le navi che sequestra: “Cinque navi sono state riconsegnate l’anno scorso – dice Zakaria Bajker – ma senza i motori, il sistema GPS e le reti. Solo gli scheletri delle navi sono tornati indietro. E ogni pescatore deve pagare 600 shekel (circa 120 euro) per riavere indietro la nave. Avevano poi detto che avrebbero riconsegnato altre due navi ma dietro condizioni che i pescatori non possono accettare: la prima, i pescatori devono pagare per il tempo che la nave è stata nel porto di Ashdod; la seconda, seguire gli ordini dell’esercito israeliano; la terza, nel caso di successivo sequestro, i pescatori accettano di perdere la barca per sempre. La quarta: se il motore della barca supera i 25 cavalli, gli israeliani hanno il diritto di fare ciò che vogliono, compreso aprire il fuoco contro i pescatori a bordo”.
 

Routine

Nell’agosto 2011, otto pescatori rifiutarono di pagare per riavere indietro le barche, prive dei motori e dell’equipaggiamento, sotto simili condizioni. Adalah e Al Mezan, due organizzazioni palestinesi per i diritti umani coinvolte nel loro caso, scrissero che “la confisca delle barche e le condizioni imposte dalla marina israeliana costituiscono una grave violazione dei diritti di residenti di Gaza sia per la legge interna israeliana che per quella internazionale”.

Ma per Zakaria Baker e gli altri pescatori, i crimini che subiscono sono la routine. “La violenza israeliana contro i pescatori palestinesi non solo continua, ma aumenta – dice Zakaria – Gli attacchi possono avvenire solo grazie al silenzio della comunità internazionale. La nostra azione di oggi è un appello al sostegno globale per porre fine a tale situazione e costringere Israele a riconsegnare le barche”.
 

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