Sahar Vardi, al centro, con il padre mentre va a rifiutare il servizio militare Foto: Activestills.org

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13 Lug 2013

La refusnik Sahar Vardi e la società israeliana
di Mona Niebuhr
Alternative Information Center

Il 29 giugno l’AICafè ha ospitato la giovane attivista israeliana Sahar Vardi. Partendo dalla sua esperienza nelle proteste e le attività congiunte israelo-palestinese, Sahar ha parlato di come ha deciso di uscire da quello che il sistema educativo israeliano le aveva insegnato e di rifiutare il servizio militare.

Sahar è cresciuta a Gerusalemme ed è stata educata in una normale scuola israeliana che, come dice, per definizione significa scuola sionista. Due sono i principali elementi della prospettiva israeliana: il concetto di paura e la normalità del servizio militare. Fin da piccoli, spiega Sahar, ai bambini israeliani viene insegnato a scuola e dalla religione che gli ebrei sono in pericolo. Gli viene detto di aver paura di tutti: dall’esodo in Egitto al nazismo c’è sempre qualcuno che prova ad uccidere gli ebrei. Allo stesso tempo, i bambini israeliani vengono introdotti alla normalità della militarizzazione della vita quotidiana. Gli elementi militaristici compaiono già negli asili dove i bambini sono vestiti da soldati, proseguono a scuola dove le classi organizzano la raccolta di beni da inviare alle unità dell’esercito per poi concludere il tutto con una settimana di addestramento militare di base prima del servizio vero e proprio. La graduale introduzione all’esercito nella vita di tutti i giorni di un bambino, spiega Sahar, non lascia spazio a dubbi o domande: “Il servizio militare collega i due concetti, diventi parte di quello che protegge il popolo ebraico da quello di cui ha paura”. Il modo in cui i bambini vengono cresciuti è lo specchio dell’idea per cui è normale essere costantemente spaventati ed è quindi la cosa più normale del mondo affidarsi ad un esercito che ti protegga. Sahar spiega come i palestinesi sono entrati in questa narrativa della paura e della militarizzazione. Guardando ai palestinesi attraverso le lenti della storia ebraica rende non necessario chiedersi perché fanno quello che fanno. Ogni volta che un palestinese commette un atto contro un israeliano, assume il ruolo storico di nuovo popolo da temere, rendendo necessario per l’esercito proteggere il popolo ebraico. Il momento in cui Sahar ha aperto gli occhi è stato durante la visita ad un villaggio palestinese insieme al padre. Dopo quell’esperienza, Sahar ha iniziato a partecipare a manifestazioni. Descrive la collisione tra la sua educazione e quello che succede sul terreno: “I soldati dovrebbero proteggermi, è questo quello che mi è stato inculcato”. Tuttavia, partecipando alle proteste contro la costruzione del Muro, il ruolo di soldati e palestinesi si è improvvisamente ribaltato: i soldati sono diventati quelli che volevano farle del male, i palestinesi quelli che tentavano di proteggerla. Con il tempo per Sahar l’ingresso nell’esercito non è stata più un’opzione. Anche se esistono diverse funzioni e unità all’interno dell’esercito, spiega la ragazza, il principale progetto resta  l’occupazione: “Non importa se lavori ad un checkpoint o porti il caffè ad un generale, sei sempre parte del progetto”. “Avremmo potuto uscire dall’esercito da una porta laterale, ma volevamo prendere una posizione pubblica, dire perché rifiutavamo”. Sahar è stata una degli attivisti che nel 2008 hanno lanciato la cosiddetta Lettera Shministim, firmata da studenti delle superiori che dichiaravano la loro opposizione alla coscrizione. Invece di restare in silenzio, Sahar ha preso la coraggiosa decisione di parlare alla società israeliana per avere un impatto. Per questo ha trascorso due mesi in prigione. Oggi, cinque anni dopo, il suo rifiuto continua a far parte della sua vita quotidiana, nelle conversazioni di tutti i giorni e nei colloqui di lavoro. Sahar dice che non ha danneggiato la sua vita. Tuttavia, esiste la tendenza – rafforzata dalle nuove leggi recentemente proposte – a discriminare le persone che non hanno svolto il servizio militare. Sahar lamenta che la sinistra radicale in Israele non viene ascoltata dalla società, e non è nemmeno parte del dibattito politico: “Come possiamo cambiare qualcosa se la nostra voce non si sente? Spesso la sinistra radicale israeliana non si appella alla sua stessa società, ma si occupa di mobilitare europei e americani per fare pressioni su Israele”. Tante sono per Sahar le opportunità per contribuire al cambiamento. Sulla base della sua personale esperienza di essere entrata a Gerusalemme Est, ritiene che l’interazione personale tra israeliani e palestinesi possa fare la differenza. Ma più importante del livello personale, è la necessità di superare il sistema di separazione tra israeliani e palestinesi: “Come creiamo una connessione per combattere insieme la segregazione e l’occupazione?”. Secondo lei non si tratta di distribuire i privilegi di cui godono gli israeliani, ma di usarli contro il sistema: “Non significa che non voglio questi diritti, voglio che li abbiamo anche gli altri”. Infine, l’importanza della comunità internazionale: le cose brutte accadono perché le brave persone permettono che succedano: “Se tutti quelli che sono per la soluzione a due Stati rifiutano il servizio militare, non esisterà più l’occupazione. Se tutti quelli che dicono che le colonie sono illegali non le sostenessero, non ci sarebbe più l’occupazione”.

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