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Burning Conscience At Alternet Focus, Israeli Soldiers Speak Out video


Originale:Electronic Intifada
http://znetitaly.altervista.org
8 agosto 2013

La brutalità e “nelle mie vene”, dice un ex soldato israeliano
Traduzione di Maria Chiara Starace

Noam Chayut è l’autore di un memoriale intitolato The Girl Who Stole My Holocaust [La ragazza che mi ha rubato l'Olocausto], la cui edizione in lingua inglese è stata pubblicata di recente.

Chayut ha militato per cinque anni nell’esercito israeliano. Ha partecipato alla brutale  Operazione

Defensive Shield, [Scudo difensivo], un attacco alla Cisgiordania nel 2002.

Non fa più parte dell’esercito e nel 2004  è entrato nell’organizzazione israeliana per i reduci militari Breaking the Silence [Rompere il silenzio]. Nel suo memoriale Chayut riflette sul ruolo che ha avuto nei crimini commessi dalle forze israeliane contro i palestinesi che vivono in regime di occupazione.

Ho parlato con Chayut su Skype.

Adri Nieuwhof: Ti puoi presentare, per favore?

Noam Chayut: Sono soltanto un normale israeliano di circa 35 anni. Come la maggior parte dei miei amici e delle persone con le quali sono cresciuto, mi sono arruolato nell’esercito quando avevo 18 anni. Come molti dei miei amici volevo fare l’ufficiale. Volevo dare quanto potevo.

In quel periodo nella mia unità, significava diventare ufficiale e  fare un altro anno. Quindi non sono andato nell’esercito solo per ubbidire alla legge, ma soprattutto perché pensavo che dovevo restituire alla società quello che potevo.

Come molti dei miei amici, sono rimasto scioccato quando ho incontrato la violenza di me stesso, della mia unità, dell’esercito attorno a me che opprimevamo i palestinesi sin dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000. Ho incontrato questa faccia brutta di Israele. E’ il centro dell’attenzione del mio governo, e un’enorme quantità del nostro bilancio, della nostra cultura e delle nostre risorse sono investiti nel controllo della gente confinante. Con un gruppo di persone come me, dopo il servizio militare, scioccati e con il desiderio di fare qualche cosa, abbiamo fondato: Rompere il silenzio.

AN: Quando hai scritto il libro avevi in mente un pubblico specifico?

NC: No. La maggior parte del libro è stato scritto in sei settimane in India, come un atto spontaneo. Quando Sono tornato a Israele, Ilana Hammerma una redattrice di una casa editrice tradizionale, Am Oved, si è dimostrata interessata al materiale di Rompere il silenzio. Quando ha letto il manoscritto, mi ha chiesto se ero disposto a scrivere di più sulla mia infanzia. Ha detto che perché gli israeliani siano convinti e vi seguano, devono per prima cosa volerti bene prima che parli delle tue storie dell’oppressione dei palestinesi. Quando rivedevamo il libro, abbiamo pensato: “parliamo a queste persone così liberali che sono cieche di fronte alla realtà e dimostriamo loro che noi israeliani stiamo creando un apparato soltanto per controllare il popolo palestinese.

AN: Nel tuo libro descrivi come hai usato la forza militare per opprimere i civili nei villaggi palestinesi o al posto di controllo militare di Qalandiya. Scrivi di come la società israeliana fa il lavaggio del cervello ai giovani per prepararli al loro ruolo nell’esercito. Il lavaggio del cervello impedisce di  pensare criticamente o aiuta gli israeliani a  giustificare le loro azioni?

NC: Nel mio libro spiego come il lavaggio del cervello mi ha messo in grado di sentire che sto combattendo il male senza notare che io sono il male. Questo è l’indottrinamento: noi siamo le vittime,  noi abbiamo il diritto di fare questo. Realmente è questo che ci raccontano: che il paese era vuoto e ci aspettava.

Se vado in strada a cercare di convincere qualcuno che non lontano da qui c’era un villaggio che è stato distrutto casa per casa dall’IDF [Le forze di difesa israeliane, cioè l'esercito di Israele] nel 1948 [nella odierna Israele], la maggior parte delle persone non darebbe importanza alle mie parole, direbbero che è un’esagerazione dei palestinesi. Se almeno ascoltassero! Ma nel libro penso sia una giustificazione. Infatti avevo un approccio critico riguardo a molte cose. E mi ricordo che anche  nell’esercito pensavo in modo critico. E’ però una specie di schizofrenia, come avere due menti in un solo corpo. Da una parte si è così sicuri di fare la cosa giusta, perché siamo quelli buoni e i buoni fanno le cose giuste.

Dall’altra, se mi venisse mostrato il documentario di un altro pianeta, o dell’Africa io potrei essere solo d’accordo che queste persone sono i cattivi. Ciò che rende possibile questa convinzione è l’indottrinamento. Mi concentro sull’indottrinamento che ci fa considerare vittime. E’ la chiave per la soluzione in Israele, se capissimo almeno che non siamo le uniche vittime. Sarebbe un passo  avanti che ci metterebbe in grado di condividere questa terra. 

AN: Il titolo del tuo libro si riferisce a una ragazzina palestinese che gioca nel suo villaggio. E’ spaventata quando vede che le sorridi. Secondo me, la ragazza non è una ladra, ma ti ha dato davvero la chiave per trovare la tua umanità.

NC: Sono d’accordo. Tu la chiami la chiave per l’umanità.  Io la chiamo avere aperto gli occhi o come cominciare a vedere la verità. Penso che sia una metafora diversa per la stessa cosa, che è il furto dell’Olocausto. In ebraico il titolo del libro è: La ladra del mio Olocausto, ma il libro parla del furto. In ebraico la parola “furto” e “ladra” si scrivono allo stesso modo, ma questo, sfortunatamente  non si può tradurre.

Ogni volta che qualcuno dice: “perché fai un paragone, come puoi fare un paragone?” dico che si tratta del mio Olocausto, dell’inchiostro dell’Olocausto sul mio cuore che qualcuno può rubare. Questo è affar mio. E’ qualcosa nella nostra cultura e credo anche lo sia per gli altri ebrei della diaspora; dobbiamo cominciare ad affrontare l’Olocausto, dove noi non siamo più le vittime. 

La ragazzina mi ha dato la chiave per trovare la mia umanità, ma mi ha anche rubato la mia bella  vita privilegiata.

AN: Hai scritto il libro nel 2007 ed è uscito nel 2010 in ebraico. Sei cambiato da allora?

NC: I processi psicologici come quelli che ho descritto nel libro hanno una certa direzione e io mi sto ancora muovendo. Ci sono molte cose che non sapevo quando ho scritto il libro. Non ho cambiato nulla quando ho revisionato il libro o quando l’ho tradotto, tranne il numero delle vittime palestinesi e cose di quel genere.

E’ una storia di una trasformazione e la trasformazione non finisce mai. Quando leggo il libro oggi, ci sono molte cose su cui ora non sono più d’accordo. Il cinico tono della violenza. Lo odio. Questo però sono quello che  sono e che ero. Questo fa parte del rivelare la verità per quanto sia difficile.

Non sono soltanto un attivista israeliano per i diritti umani, sono anche un brutale occupante israeliano.  E’ nelle mie vene. E’ nella mia voce.

AN: Ti ho visto parlare in un video di un incontro di Rompere il silenzio dove un partecipante solleva il problema della responsabilità dei crimini di guerra commessi dai soldati. Non hai evaso la tua responsabilità. Puoi chiarirci che cosa significa la giustizia per te?

NC: A un livello politico alto direi che la giustizia significa uguaglianza o cercare l’uguaglianza. Quando la gente parla di uno stato, di due stati, di questa specie di federazione, allora dico: ragazzi se parliamo di uguaglianza, troveremo la strada. Da un punto di vista personale, la mia riposta è la stessa. Giustizia vuol dire uguaglianza. Si può scegliere. O mi si può mettere in carcere per venti anni per le cose che ho fatto, o si possono rilasciare i prigionieri [palestinesi] che hanno fatto molto meno azioni violente in confronto a me. Dal momento che il potere politico è quello che è, essi scontano la loro pena in carcere per la loro parte di violenza, e io  sono libero e privilegiato. Se me lo chiedete,  voglio che siano rilasciati, e io non voglio scontare la pena in carcere.

Una cosa che spero è che ognuno che legge il libro o il materiale di Rompere il silenzio, abbia il coraggio di chiedersi: dove sono io in questa storia, che cosa posso fare? Non basta conoscere le cose e commuoversi. E’ un invito ad agire.

Le persone  hanno la responsabilità; non è difficile trovare la responsabilità. La mia, naturalmente, è maggiore di quella di altri. Gli altri, però, dovrebbero agire altrettanto bene; c’è tanto da fare. Le società occidentali hanno tanto potere e a Israele non si chiede di pagare alcun prezzo politico, per quello che facciamo. Una società dovrebbe pagare un prezzo per opprimere i civili con le forze militari

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/brutalità-is-in-my-veins-says-former-israeli-soldier-by-noam-chayut

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