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27 aprile 2013

Gli ebrei della diaspora devono pronunciarsi nettamente contro la Legge israeliana del Diritto al Ritorno
di Sam Bahour
traduzione a cura di Mariano Mingarelli

Sei nato in un paese, diciamo gli Stati Uniti. Come tale, divieni cittadino di quel paese. Ti viene rilasciato il passaporto dal tuo paese e la cittadinanza che ti permettono di viaggiare in un altro paese, come turista o straniero. Naturalmente puoi fare domanda di residenza o di cittadinanza in un paese straniero sulla base delle loro leggi sull’immigrazione e, se accettata, ti può venire concessa una seconda cittadinanza. Le leggi sull’immigrazione sono complicate, non uniformi e, per i paesi democratici, si danno molto da fare per non essere discriminatorie, in altre parole, a meno che tu non sia ebreo.

Se sei ebreo, in un paese straniero viene applicata nei tuoi confronti una legge molto discriminatoria, a prescindere dal tuo consenso e in assenza di un eventuale legame formale tra te e quel paese. La questione non è che tu sia un cittadino dell’America, dell’Argentina o dell’Australia; a patto che tu sia ebreo hai un paese straniero che afferma di parlare a nome tuo dal momento della tua nascita. Potresti essere un ebreo dell’Alaska della sesta generazione o uno di Brooklyn della decima; non è importante. Tu e tutta la tua famiglia per quanto indietro possiate ritornare potreste non conoscere altro luogo che la vostra città natale in America eppure potresti essere “rappresentato” da un paese straniero, uno la cui lingua neanche parli. Tale paese straniero è Israele.
 

Legge al servizio della discriminazione

Va da sé che per i palestinesi, sulle cui rovine è stata fondata Israele, questa legge israeliana orwellianamente-perfezionata sull’immigrazione, chiamata Legge del Ritorno, è una vergogna e una macchia sulla coperta dell’umanità. Dopo tutto la Legge israeliana del Ritorno si applica ai soli ebrei. Quei palestinesi che divennero profughi a causa della creazione di Israele, o quei palestinesi cui capitò di essere all’estero quando Israele occupò militarmente le loro case, come mio padre, o anche per i palestinesi che oggi vivono come “residenti” nella West Bank e nella Striscia di Gaza, sono totalmente esclusi da tale diritto a ritornare a casa e ottenere automaticamente la cittadinanza. Paradossalmente, la parola “ritorno” si applica esplicitamente ai palestinesi, dato che loro sono nati qui, sono vissuti qui, hanno coltivato la terra qui e sono stati coloro di cui Israele ha cercato di fare la pulizia etnica per costruire un nuovo stato, uno che dà agli ebrei l’esclusività su ambedue i versanti della Linea Armistiziale del 1949, indicata come “Linea Verde”.

Per la maggior parte, il mondo ebraico tace su questa realtà di avere una cittadinanza israeliana per soli ebrei posseduta in perpetuo che è a loro disposizione per tutta la vita. Tutto quello che devono fare per reclamarla è  visitare Israele e richiederla. In parte, a causa di questo stato distorto delle cose, ogni ebreo nel mondo è persuaso a pensare di dover sostenere con forza Israele, indipendentemente dal fatto che Israele sia coinvolto in crimini di guerra o in atti di palese razzismo.

Amira Hass, la giornalista ebreo-israeliana che segue da decenni questo conflitto mentre vive tra i palestinesi sotto occupazione, di frequente tiene conferenze pubbliche. Quando il suo uditorio è ebreo, lei incomincia affermando scrupolosamente: “Ogni ebreo in qualsiasi parte del mondo è intestatario di diritti in Eretz-Yisrael/Palestina (dal Mar Mediterraneo a fiume Giordano) che sono negati, in tutto o in parte, a qualsiasi palestinese.”

Poi, Amira prosegue facendo alcuni esempi concreti: solo gli ebrei hanno il diritto di visitare il paese (cosa non ovvia per la maggior parte dei palestinesi che sono nati al di fuori del paese, o sono nati lì ma vivono nella diaspora), solo gli ebrei hanno il diritto di soggiornare e lavorare in qualsiasi parte del paese, solo gli ebrei hanno il diritto di naturalizzazione immediata, solo gli ebrei hanno il diritto di risiedere o acquistare immobili a Gerusalemme (i residenti palestinesi della West Bank e di Gaza sono privati di questo diritto), e l’elenco potrebbe continuare.

Il “conflitto” israelo-palestinese, come viene tanto spesso riportato, ha molti aspetti. Per comprendere questo conflitto apparentemente irrisolvibile, non ci si può separare dalla comprensione della storia del Medio Oriente, in generale, e dalla tragedia che ha colpito gli ebrei (e tutta l’umanità) in Europa fin dalla Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, nessuna tragedia, per quanto sia grave, dovrebbe essere usata come pretesto per fare discriminazioni, né contro i musulmani e i cristiani del territorio, né contro gli ebrei che pure sono intrinsecamente legati allo stesso territorio. Allo stesso modo, nessuna democrazia, al mondo d’oggi dovrebbe avere il “diritto” di parlare a nome di persone che non ne sono cittadini, vivono a migliaia di miglia di distanza e non hanno dato il loro diretto consenso perché si parli a nome loro o li si “rappresenti”.
 

Il Presidente Obama interviene.

“mettetevi nelle loro [palestinesi] scarpe.” Questo è ciò che il presidente Barack Obama ha detto a un gruppo di studenti israeliani riuniti in una sala conferenze di Gerusalemme durante la sua visita recente in Israele  e nella West Bank occupata. In un contesto israeliano, questa è una dichiarazione coraggiosa, di quelle che non sono abituati a sentire. Il Presidente ha fatto diverse dichiarazioni ardite in quel discorso facendo un reiterato riferimento alla necessità dei palestinesi di essere liberi dall’occupazione militare israeliana. Gli studenti hanno applaudito, più volte,  a queste aperture politicamente insidiose del presidente.

La leadership israeliana di destra guidata da Benjamin Netanyahu che non è stata invitata all’evento di Gerusalemme era certamente furente per come il presidente Obama si era rivolto direttamente al pubblico israeliano e aveva suscitato gli applausi su questioni relative all’ingiusta soppressione israeliana dei diritti dei palestinesi. Stimolare tali applausi può essere sembrato piacevole per un orecchio impreparato, ma un fatto resta chiaro: applausi simili sarebbe arduo provenissero da comunità ebraiche quali quelle rappresentate da organizzazioni importanti come l’AIPAC e l’ADL.

Se il presidente Obama è stato sincero nel voler vedere il conflitto da una prospettiva palestinese, allora, invece di lodare Israele per essere un affermato paese di immigrati, avrebbe dovuto usare il suo fascino e le capacità oratorie per descrivere al pubblico israeliano quanto sia ingiusto che un ebreo nato in qualsiasi parte del mondo abbia in Palestina/Israele più diritti degli stessi palestinesi.

La realtà che lo stato di Israele manca di confini definiti, che risulta essere uno dei requisiti fondamentali per la statualità come definiti dal diritto internazionale, esprime chiaramente il trattamento preferenziale di cui è stato fatto oggetto Israele dalla comunità internazionale fin dalla sua istituzione. Quando tali atteggiamenti preferenziali vengono incorporati nel DNA di una nazione, l’esclusività è destinata a regnare suprema in ogni sfera dello stato. Come nel Sud Africa dell’Apartheid tale esclusività è una ricetta che mette a rischio tutto il progetto di stato-nazione, compreso quello di Israele. Le comunità ebraiche di tutto il globo possono fermare il danno che Israele sta auto-infliggendo a se stesso.

Tuttavia, se gli ebrei della Diaspora possono accettare di avere una cittadinanza israeliana che è riservata loro “per sempre”, mentre ai palestinesi sono negati non solo la cittadinanza, ma anche i diritti umani fondamentali, allora anche loro sono direttamente complici del continuo apartheid contro i palestinesi.


Sam Bahour consulente di sviluppo del commercio palestinese-americano di Youngstone, Ohio, che vivenella città palestinesi di al-Bireh, nella West Bank. E’ consigliere per la politica di Al-Shabaka, il Policy Network palestinese.  

Fonte: http://mondoweiss.net/2013/04/diaspora-against-return.html

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