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11 Mag 2013

La nostra catastrofe è la creazione di Israele
di Mahmud Darwish

Il poeta palestinese Mahmoud Darwish commemora(va) il 53-esimo anniversario di quello che la gente chiama “la catastrofe”, la creazione di Israele, il 15 maggio 1948. Tratto dal suo discorso del 14 maggio 2001 a Ramallah, la città in cui viveva.

«Oggi è il nostro giorno della memoria. Non abbiamo bisogno di guardare a ciò che è successo ieri per ricordare il susseguirsi dei crimini perpetrati. Il presente è un promemoria vivente della catastrofe, la nakba, i tragici eventi che stanno ancora avvenendo. Non abbiamo bisogno che ci venga ricordata una tragedia umana che ancora continua e che ci ha perseguitato negli ultimi 53 anni. Siamo ancora feriti dagli elementi di quella tragedia, qui e ora. Stiamo ancora resistendo alle sue conseguenze, qui e ora, sul suolo della nostra terra natia, la nostra unica terra natia. Come possiamo dimenticare quello che è successo sulla nostra terra madre, una terra madre che sta ancora perdendo i suoi figli a causa della catastrofe?

Noi non possiamo dimenticare perché la nostra memoria collettiva e individuale resta feconda e capace di ricordare il nostro triste passato, e la cronologia del nostro passato è la cronologia della terra e del popolo, la cronologia di tragedia ed eroismo, la cronologia di una storia narrata in gocce di sangue, in un conflitto aperto tra cosa ci viene detto di essere e cosa aspiriamo ad essere.

Se i responsabili israeliani di questa nakba, questa catastrofe, stanno dichiarando in questa giornata della memoria che la guerra del 1948 non è ancora finita, stanno semplicemente esponendo il miraggio di una pace che aleggiava negli ultimi dieci anni, nei quali loro hanno dichiarato di metter fine al conflitto attraverso la ripartizione delle terre. Loro hanno solamente esposto l’impossibilità di mettere l’impresa sionista e la pace nello stesso paniere, quando lo scopo e il fine di questa impresa sono ancora quelli di annientare l’identità del popolo palestinese.

La conoscenza che hanno i palestinesi di questa guerra è incarnata nella loro esposizione ad uno sradicamento di massa. È incarnata nel loro esser stati trasformati in rifugiati nella loro stessa terra natia e anche oltre i suoi confini. È incarnata nel tentativo di espellerli da loro stessi, dallo spazio e dal tempo, dopo l’usurpazione delle loro case e della loro storia, dopo la loro trasformazione da entità onesta in certo tempo e luogo ad un’eccedenza spettrale di bisogni, esuli da loro stessi.

Ma i responsabili della nakba, della catastrofe, non sono riusciti a spezzare la volontà del popolo palestinese né a sradicare la loro identità nazionale. Non ci sono riusciti attraverso la diaspora, attraverso il massacro né facendo finta che il miraggio fosse una realtà e nemmeno attraverso la produzione di una storia falsa. Negli ultimi cinquant’anni non sono riusciti a spingerci a rinunciare a noi stessi o a gettarci in uno stato di demenza senza memoria.

Non sono riusciti a cancellare la realtà palestinese dalla coscienza del mondo, sia attraverso la creazione di miti sia attraverso la creazione di una immunità a livello morale che dà alle vittime di ieri il diritto di produrre vittime del loro operato oggi. Un boia non può giustificare se stesso indossando la più santa delle vesti.

Oggi la memoria della nakba arriva nel pieno delle difficoltà sofferte dai Palestinesi mentre difendono la loro umanità e dignità, il loro naturale diritto alla libertà e all’autodeterminazione sulla loro storica terra natia, dopo aver fatto concessioni al di là di quelle previste dal diritto internazionale per arrivare alla pace in maniera davvero possibile. Quando si è avvicinato il momento della resa dei conti, il concetto israeliano di pace ha rivelato i suoi veri colori: la ripresa dell’occupazione sotto una forma diversa, sotto condizioni più favorevoli e meno onerose per la potenza occupante.

L’intifada, ieri, oggi e domani, è un’espressione legittima e naturale di resistenza alla schiavitù perpetrata da un’occupazione che pratica la peggiore forma di discriminazione razziale. Un’occupazione che si prodiga, sotto le vesti di fasulli processi di pace, per spogliare i Palestinesi delle loro terre e dei loro mezzi di sostentamento e per isolarli in Bantustan demograficamente non collegati tra loro e circondati da insediamenti e bypass roads. E viene loro offerto lo zuccherino in cambio di un accordo per “mettere fine a rivendicazioni e lotte”, lo zuccherino che mette il nome del loro stesso stato - Palestina - alle spaziose prigioni in cui sono stati ben ingabbiati.

L’intifada non rappresenta una rottura dall’idea di pace, ma cerca di trarre in salvo questa idea da un dedalo aberrante di razzismo e di riunirla coi suoi veri elementi che sono la giustizia e la libertà, niente di meno. Cerca di riunire la pace con i suoi legittimi elementi attraverso mezzi di resistenza contro l’impresa colonialista di Israele in Cisgiordania e Gaza, mascherata da processi di pace che la leadership israeliana ha privato di ogni significato e sostanza.

Se gli Israeliani sono pronti a riconoscere i nostri legittimi diritti nazionali - come definito dal diritto internazionale - prima di tutto il diritto al ritorno, il ritiro totale dalle terre palestinesi occupate nel 1967 e il diritto all’autodeterminazione in uno stato sovrano la cui capitale è Gerusalemme, le nostre mani sanguinanti saranno ancora capaci di salvare il ramo arso dell’ulivo dai detriti di alberi che l’occupazione ha abbattuto. Non ci può essere pace sotto occupazione militare. Non ci può essere pace tra padrone e schiavo.

La comunità internazionale non può continuare a non vedere quello che sta succedendo oggi nella terra di Palestina, così come ha fatto nell’anno della nakba. L’occupazione israeliana continua a distruggere e a tenere sotto assedio la società palestinese. Continua ad uccidere e assassinare, con tutta l’energia distruttiva che può avere, usando le sue armi contro una popolazione isolata che sta difendendo quello che resta della sua identità minacciata e della sua esistenza, che sta difendendo quello che resta delle sue case piene di detriti, che sta difendendo quello che resta dei suoi frutteti.

L’interesse dei vari stati e dei popoli sul confronto che è in atto oggi in Palestina e il loro supporto alla popolazione palestinese - una popolazione che è stata privata della sua vita quotidiana, normale - è una prova di presa di posizione morale che rivelerà quale sia il grado di credibilità che hanno i valori di libertà, giustizia ed eguaglianza.»
 

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