Fonte: http://jacobinmag.com
http://www.palestinarossa.it
6 maggio 2013

L’illusione di Oslo
di Adam Hanieh
 
Tradotto di Mariano Mingarelli

Gli Accordi di Oslo non sono stati un fallimento per Israele – sono serviti come foglia di fico per consolidare e rafforzare il suo controllo sulla vita dei palestinesi.

Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della firma degli Accordi di Oslo tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo israeliano. Ufficialmente conosciuta come Dichiarazione dei Principi sulle Disposizioni di Autogoverno Temporaneo, gli Accordi di Oslo sono stati saldamente sistemati nel quadro della soluzione a due Stati, che annuncia “la fine di decenni di scontro e di conflitto”, il riconoscimento di “mutua legittimità  e diritti politici” e l’obiettivo di raggiungere “una coesistenza pacifica e reciproca dignità e sicurezza e …..una pace giusta, durevole e globale.”

I suoi sostenitori hanno affermato che sotto Oslo, Israele avrebbe ceduto gradualmente il controllo sul territorio nella West Bank e nella Striscia di Gaza, con la neocostituita Autorità Palestinese che alla fine vi avrebbe costituito  uno Stato indipendente. Lo sviluppo dei negoziati e i successivi accordi tra OLP e Israele hanno aperto invece la strada all’attuale situazione esistente nella West Bank e a Gaza. L’Autorità Palestinese che ora governa su circa 2,6 milioni di palestinesi nella West Bank è diventata l’architetto chiave della strategia politica palestinese. Le sue istituzioni traggono legittimità internazionale da Oslo e nello stesso contesto l’obiettivo dichiarato di “costituire uno Stato palestinese indipendente” resta fissato al terreno. Gli incessanti  appelli per un ritorno al negoziato, fatti quasi quotidianamente da leader americani ed europei, danno ascolto ai principi fissati nel settembre del 1993.

Dopo due decenni, è ormai comune sentire Oslo descritto come un “fallimento” a causa della realtà in atto rappresentata dall’occupazione israeliana. Il problema di questo giudizio è che confonde gli obiettivi dichiarati di Oslo con i suoi veri scopi. Dal punto di vista del governo israeliano, l’intento di Oslo non era quello di porre fine all’occupazione della West Bank e della Striscia di Gaza o di affrontare le questioni sostanziali dell’espropriazione palestinese, ma qualcosa di molto più funzionale. Facendo credere che i negoziati avrebbero portato a una sorta di “pace”, Israele è riuscito a far apparire le sue intenzioni come quelle di un partner, più che di un nemico della sovranità palestinese.

Sulla base di questa percezione, il governo israeliano ha utilizzato Oslo come una foglia di fico per coprire il suo controllo consolidato e rafforzato sulla vita dei palestinesi, utilizzando gli stessi meccanismi strategici branditi fin dall’inizio dell’occupazione del 1967. La costruzione di colonie, le restrizioni al movimento dei palestinesi, l’incarcerazione di migliaia di persone, il dominio alle frontiere e sulla vita economica: si sono sommati tutti insieme per formare un complesso sistema di controllo. Un volto palestinese può presiedere l’amministrazione, giorno per giorno, di affari palestinesi, ma il potere ultimo rimane nelle mani di Israele. Questa struttura ha raggiunto il suo apice nella Striscia di Gaza – dove oltre 1,7 milioni di persone sono rinchiusi in una piccola enclave con l’ingresso e l’uscita di persone e merci che sono determinati in gran parte dal dictat israeliano.

Oslo ha avuto anche un effetto politico pernicioso. Riducendo la lotta palestinese a un processo di baratto di schegge di terra nella West Bank e nella Striscia di Gaza, Oslo ha disarmato, dal punto di vista ideologico, parti non trascurabili del movimento politico palestinese che sostenevano il continuare della resistenza al colonialismo israeliano e che si proponevano la realizzazione autentica delle aspirazioni palestinesi. La più importante di queste aspirazioni era la richiesta che i profughi palestinesi avessero il diritto di ritornare alle case e alle terre dalle quali erano stati espulsi nel 1947 e 1948. Oslo ha fatto apparire fantasioso e irrealistico il discutere di questi obiettivi, normalizzando un pragmatismo illusorio, invece di affrontare le radici di fondo dell’esilio palestinese. Al di fuori della Palestina, Oslo ha minato fatalmente la solidarietà diffusa e l’empatia con la lotta palestinese sviluppate durante gli anni della prima Intifada, rimpiazzando l’orientamento rivolto al supporto collettivo di base con la fede nelle trattative guidate dai governi occidentali. Ai movimenti di solidarietà potrebbe occorrere più di un decennio per ricostituirsi.

Mentre il movimento palestinese si è indebolito, Oslo ha contribuito a rafforzare la posizione regionale di Israele. La percezione illusoria che Oslo avrebbe condotto verso la pace, ha permesso ai governi arabi, guidati da Giordania ed Egitto, di contrarre legami economici e politici con Israele sotto gli auspici americani ed europei. Israele è stato così in grado di liberarsi dai boicottaggi arabi, stimati essere costati cumulativamente, tra il 1948 e il 1994, 40 miliardi di dollari. Ancora più significativamente, una volta che Israele è stato reintegrato, aziende internazionali hanno potuto investire nell’economia israeliana senza timore di attirare boicottaggi da partner commerciali arabi. In tutti i modi, Oslo si presentava come lo strumento ideale per irrobustire il controllo di Israele sui palestinesi e rafforzare nel contempo la sua posizione all’interno di un Medio Oriente più ampio. Non c’era contraddizione tra il supporto al “processo di Pace” e il rendere più accentuata la colonizzazione – il primo ha operato costantemente per rendere possibile la seconda.

E’ importante ricordare che in mezzo al clamore del tifo di incoraggiamento per Oslo a livello internazionale – coronato, nel 1994, dall’assegnazione del premio Nobel per la Pace congiuntamente al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, al ministro degli esteri israeliano Shimon Peres e al leader dell’OLP Yasser Arafat – una manciata di voci perspicaci ha previsto la situazione che oggi ci troviamo ad affrontare. Tra queste degna di nota è quella di Edward Said che ha scritto con forza contro Oslo, commentando che la sua firma ha messo in mostra “lo spettacolo degradante di Yasser Arafat che ringrazia tutti per la sospensione della maggior parte dei diritti del suo popolo, e la fatua solennità della performance di Bill Clinton che, come un imperatore romano del ventesimo secolo, conduce al pascolo i due re vassalli attraverso i rituali della riconciliazione e della riverenza.”  Descrivendo l’accordo come “uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese,”  Said ha affermato che l’OLP sarebbe divenuto un “gendarme di Israele” che l’avrebbe aiutato a rafforzare il suo dominio economico e politico delle aree palestinesi, consolidando uno “stato di dipendenza permanente.”  Nonostante le analisi come quella di Said siano importanti semplicemente per ricordare la loro notevole preveggenza e in quanto elemento di contrasto con la costante mitizzazione della documentazione storica, oggi esse rivestono un significato particolare in quanto praticamente tutti i leader del mondo continuano a giurare fedeltà a un chimerico ”processo di pace”.

Una domanda che, nelle analisi di Oslo e della strategia a due Stati, risulta spesso priva di indirizzo, consiste nel perché la leadership palestinese con sede nella West Bank sia stata tanto volentieri complice di questo processo disastroso. Troppo spesso la spiegazione è essenzialmente tautologica – qualcosa di simile a “la leadership palestinese ha fatto scelte sbagliate perché sono dei leader mediocri.”  Spesso il dito è puntato contro la corruzione o le difficoltà del contesto internazionale che limitano le opzioni politiche disponibili.

Cosa manca a questo tipo di spiegazione è un fatto spigoloso: alcuni palestinesi sono molto interessati al vedere la continuazione dello status quo. Nel corso degli ultimi due decenni l’evoluzione del governo israeliano ha prodotto profondi cambiamenti nella natura della società palestinese. Queste modifiche si sono concentrate nella West Bank , coltivando una base sociale che sostiene la traiettoria politica della leadership palestinese nel suo desiderio di cedere i diritti dei palestinesi in cambio dell’essere incorporata nelle strutture dell’insediamento coloniale israeliano. E’ questo processo di trasformazione socio-economica che spiega la sottomissione a Oslo della leadership palestinese e indica la necessità di una rottura radicale con la strategia dei due Stati.
 

La base sociale di Oslo e la strategia dei due Stati

Lo svolgimento del processo di Oslo è stato sostanzialmente plasmato dalle strutture dell’occupazione definite da Israele nei decenni precedenti. Durante questo periodo, il governo israeliano ha promosso una campagna sistematica di confisca delle terre palestinesi e la costruzione di insediamenti nelle zone dalle quali i palestinesi erano stati scacciati durante la guerra del 1967. La logica di questa costruzione di colonie era incarnata in due importanti piani strategici: il Piano Allon (1967) e il Piano Sharon (1981). Entrambi prefiguravano colonie israeliane situate  tra i maggiori centri abitati da palestinesi e sopra a falde acquifere e terreni agricoli fertili. Una rete stradale esclusivamente per israeliani avrebbe infine collegato queste colonie l’una all’altra, come pure alle città israeliane al di fuori della West Bank. In questo modo Israele poteva impadronirsi delle terre  e delle risorse, separare le aree palestinesi l’una dall’altra ed evitare quanto più possibile una responsabilità diretta nei confronti della popolazione palestinese. L’asimmetria del controllo israeliano e palestinese su terra, sulle risorse e sull’economia ha fatto sì che i contorni dello Stato palestinese in formazione fossero dipendenti completamente dal progetto israeliano.

In combinazione con le restrizioni militari applicate al movimento dei contadini palestinesi e al loro accesso all’acqua e alle altre risorse, le massicce ondate di confisca dei terreni e la costruzione di colonie, durante le prime due decadi di occupazione, hanno trasformato la proprietà fondiaria palestinese e le modalità di riproduzione sociale. Dal 1967 al 1974, la quantità di terra palestinese coltivata nella West Bank è scesa di circa un terzo. L’esproprio dei terreni nella Valle del Giordano da parte di coloni israeliani ha fatto sì che l’87% di tutte le terre irrigate nella West Bank è stato rimosso dalle mani palestinesi. Ordini militari hanno proibito la perforazione di nuovi pozzi a fini agricoli e hanno ristretto l’uso complessivo di acqua da parte dei palestinesi, mentre i coloni israeliani sono stati incoraggiati a usare acqua più del necessario.

Con questa deliberata distruzione del settore agricolo, i palestinesi più poveri – in particolare i giovani – sono stati rimossi dalle aree rurali e sono stati attratti dal lavoro nel settore dell’edilizia e dell’agricoltura all’interno di Israele. Nel 1970, il settore agricolo occupava più del 40% della forza lavoro palestinese che lavorava nella West Bank. Nel 1987, questa cifra era scesa a solo il 26%. La quota del PIL del settore agricolo è scesa dal 35% al 16% tra il 1970 e il 1991.

Nell’ambito del quadro stabilito dagli Accordi di Oslo, Israele ha incorporato perfettamente questi cambiamenti nella West Bank  in un sistema globale di controllo. Il territorio palestinese è stato trasformato gradualmente in un mosaico di enclave isolate, con i tre nuclei abitativi principali nel nord, nel centro e nel sud della West Bank divisi l’uno dall’altro da blocchi di colonie. All’Autorità Palestinese è stata garantita un’autonomia limitata nelle aree dove viveva la maggior parte dei palestinesi (le cosiddette Aree A e B), ma il viaggiare tra queste aree potrebbe essere interrotto in ogni momento dall’esercito israeliano. Qualsiasi movimento da o per le Aree A e B, così come la decisione sui diritti di residenza in tali aree, erano soggetti all’autorità israeliana. Israele aveva pure il controllo sulla maggior parte della falda acquifera, sulle risorse del sottosuolo e su tutto lo spazio aereo della West Bank. I palestinesi si basavano perciò per il loro approvvigionamento idrico ed energetico sulla discrezione israeliana.

Il completo controllo di Israele su tutte le frontiere esterne, legittimato nel Protocollo di Parigi del 1994 relativo alle relazioni economiche tra Autorità Palestinese e Israele, stava a significare che per l’economia palestinese era impossibile sviluppare relazioni commerciali significative con un paese terzo. Il Protocollo di Parigi ha dato a Israele l’ultima parola su ciò che l’AP ha il permesso di importare e di esportare. La West Bank e la Striscia di Gaza sono diventate così fortemente dipendenti dalle merci importate, con il totale delle importazioni che è compreso tra il 70% e l’80% del PIL. Dal 2005, l’Ufficio Centrale Palestinese di Statistiche ha stimato che il 74% di tutte le importazioni nella West Bank e nella Striscia di Gaza avevano origine in Israele, mentre l’88% di tutte le esportazioni da quelle aree era destinato a Israele.

Con nessuna vera base economica, l’AP era completamente dipendente dai capitali esteri sotto forma di aiuti e prestiti, i quali pure erano sotto il controllo di Israele. Tra il 1995 e il 2000, il 60% delle entrate totali dell’AP proveniva da imposte indirette incassate dal governo israeliano sulle merci importate dall’estero e destinate ai territori occupati. Queste tasse erano riscosse dal governo israeliano e poi trasferite all’AP ogni mese secondo un processo delineato dal Protocollo di Parigi. L’altra principale fonte di reddito per l’AP proveniva dagli aiuti stranieri e dagli esborsi da parte degli Stati Uniti, dell’Europa e dei governi arabi. A dire la verità, i dati degli aiuti calcolati in percentuale del reddito nazionale lordo hanno mostrato che la West Bank e la Striscia di Gaza sono state tra tutte le regioni del mondo quelle più dipendenti dagli aiuti.
 

Cambiare la struttura del lavoro

Questo sistema di controllo ha generato due importanti cambiamenti nella struttura socio-economica della società palestinese. Il primo di questi è connesso alla natura del lavoro palestinese, che è diventato sempre più un rubinetto che può essere aperto o chiuso in base alla situazione economica e politica e le necessità del capitale israeliano. A partire dal 1993, Israele si è messo in moto intenzionalmente per sostituire la forza lavoro palestinese che faceva la spola quotidianamente dalla West Bank con lavoratori stranieri provenienti dall’Asia e dall’Europa dell’est. Questa situazione è stata in parte resa possibile dal declinare dell’importanza dell’edilizia e dell’agricoltura in quanto, negli anni ’90, l’economia d’Israele si è spostata ben lontana dai quei settori verso altri ad alta tecnologia e le esportazioni di capitale finanziario.

Tra il 1992 e il 1996, l’occupazione di palestinesi in Israele è scesa da 116.000 lavoratori (il 33% della forza lavoro palestinese) a 28.100 (6% della forza lavoro palestinese). I redditi da lavoro in Israele sono crollati dal 25% del PIL palestinese nel 1992  al 6% nel 1996. Tra il 1997 e il 1999, una ripresa dell’economia israeliana ha visto un aumento, in assoluto, del numero dei lavoratori palestinesi a livelli approssimativamente equivalenti a quelli precedenti il 1993, ma la percentuale della forza lavoro palestinese che lavora all’interno di Israele era comunque quasi la metà di quella che era stata un decennio prima.

Invece di lavorare all’interno di Israele, i palestinesi sono divenuti sempre più dipendenti dal pubblico impiego all’interno dell’AP o dai trasferimenti fatti dall’AP alle famiglie dei prigionieri, martiri o bisognosi. Nel 2000, l’impiego nel settore pubblico ha costituito quasi un quarto del totale dell’occupazione nella West Bank e nella Striscia di Gaza, un livello che dal 1996 era stato quasi raddoppiato. Più della metà delle spese dell’AP è andata in salari per questi lavoratori del settore pubblico. Il settore privato ha fornito un’occupazione sostanziale , in particolare in quello dei servizi. Tra questi sono prevalse in maniera preponderante le piccole imprese a conduzione familiare – oltre il 90% di tali imprese palestinesi impiegano meno di dieci persone – conseguentemente a decenni di politiche israeliane di de-sviluppo.
 

Capitale e l’Autorità Palestinese

Accanto alla crescente dipendenza delle famiglie palestinesi dall’impiego o dai pagamenti effettuati dall’AP, la seconda maggiore peculiarità della trasformazione socio-economica della West Bank era legata alla peculiarità della classe capitalistica palestinese. In una situazione di debolezza della produzione locale e di una estremamente elevata dipendenza dalle importazioni e dai flussi di capitali esteri, il potere economico della classe capitalistica palestinese nella West Bank non scaturiva da un’industria locale, ma piuttosto dalla prossimità all’AP in quanto canale principale di afflussi di capitale straniero. Per tutti gli anni di Oslo, questa classe si è coalizzata grazie alla fusione di tre distinti gruppi sociali: i capitalisti “rimpatriati”, per lo più provenienti da una borghesia palestinese che si era sviluppata negli stati arabi del Golfo e che aveva mantenuto stretti legami con la nascente Autorità Palestinese; famiglie e persone che avevano storicamente dominato la società palestinese, spesso grandi proprietari terrieri del periodo antecedente il 1967, in particolare nelle regioni settentrionali della West Bank; e coloro che, dal 1967, erano riusciti ad accumulare ricchezze grazie alla loro posizione da interlocutori all’interno dell’occupazione.

Sebbene le appartenenze di questi tre gruppi si sovrapponessero considerevolmente, il primo è stato particolarmente significativo  per la natura dello Stato e la formazione di classe nella West Bank. I flussi finanziari che si basavano sul Golfo avevano giocato da tempo un ruolo importante nello smorzare le punte radicali del nazionalismo palestinese, ma il loro collegamento con il processo di Oslo per la creazione di uno Stato ha rafforzato radicalmente le tendenze alla statizzazione e burocratizzazione nell’ambito dello stesso progetto nazionale palestinese.

Questa nuova configurazione a tre lati della classe capitalistica era incline a trarre la sua ricchezza da un rapporto privilegiato con l’Autorità Palestinese, che ha agevolato la sua crescita mediante la concessione di monopoli per merci, come cemento, petrolio, farina, acciaio, sigarette; il rilascio di permessi di importazione esclusivi e di esenzioni doganali; il conferimento di diritti monopolistici per la distribuzione delle merci nella West Bank e nella Striscia di Gaza e l’assegnazione di terreni di proprietà del governo a un prezzo al di sotto del loro valore. Oltre a queste forme di accumulazione agevolata dallo Stato, la gran parte degli investimenti che, durante tutti gli anni di Oslo, sono entrati nella West Bank provenienti da donatori stranieri– realizzazione di infrastrutture, progetti di nuove costruzioni, sviluppo dell’agricoltura e del turismo –erano in genere in un qualche modo connessi a questa nuova classe capitalistica.

Nel contesto della posizione completamente subordinata dell’AP, la capacità di accumulare è stata sempre legata al consenso di Israele, e quindi ha presupposto  un prezzo politico – quello destinato all’acquisto della complicità con la colonizzazione in atto e una resa forzata. Significa anche che i componenti chiave dell’elite palestinese – i più ricchi uomini d’affari, la burocrazia di stato dell’AP e i rimasugli della stessa OLP – sono giunti a condividere un interesse comune nel progetto politico di Israele. Il dilagare del clientelismo e della corruzione sono risultati i logici sottoprodotti di questo sistema, visto che la sopravvivenza individuale dipendeva dai rapporti personali con l’Autorità Palestinese. La corruzione fatta sistema dell’AP, che i governi israeliani e occidentali hanno denunciato regolarmente per tutti gli anni ’90 e 2000, è stata, in altre parole, una conseguenza necessaria e inevitabile proprio del sistema che questi poteri avevano essi stessi istituito.
 

La svolta neoliberista

Queste due caratteristiche principali della struttura di classe palestinese – una forza lavoro dipendente per l’impiego dall’Autorità Palestinese, e una classe politica embricata con il dominio israeliano attraverso le istituzioni della stessa AP – hanno continuato a caratterizzare la società palestinese nella West Bank durante tutta la prima decade degli anni 2000. La divisione della West Bank e della Striscia di Gaza  tra Fatah e Hamas nel 2007 ha rafforzato questa struttura, con la West Bank soggetta a limitazioni di movimento sempre più complesse e al controllo economico. Allo stesso tempo, Gaza ha sviluppato una diversa traiettoria , con il governo di Hamas che fa affidamento sui profitti tratti dal commercio dei tunnel e sugli aiuti provenienti da Stati come l’Arabia Saudita e il Qatar.

Negli ultimi anni, tuttavia, c’è stato un cambiamento importante nella traiettoria economica dell’Autorità Palestinese, confinata in un duro programma neo-liberista fondato sull’austerità nel settore pubblico e un modello di sviluppo volto a integrare ulteriormente il capitale palestinese e israeliano in zone industriali rivolte all’esportazione. Questa strategia economica contribuisce solo a legare ulteriormente gli interessi del capitale palestinese con quelli di Israele, incorporando la responsabilità del colonialismo israeliano nelle strutture stesse dell’economia palestinese. Essa ha prodotto l’aumento dei livelli di povertà e una radicalizzazione crescente della ricchezza. Nella West Bank il PIL reale pro-capite è aumentato da poco più di 1.400 dollari nel 2007, a circa 1.900 dollari  nel 2010, la crescita più rapida in un decennio. Allo stesso tempo, il tasso di disoccupazione è rimasto sostanzialmente costante intorno al 20%, tra i più alti al mondo. Una delle conseguenze è stato il livello profondo di povertà: nel 2009 e 2010, circa il 20% dei palestinesi nella West Bank vivevano con meno di 1,67 dollari al giorno per una famiglia di cinque persone. Nonostante questi livelli di povertà, nel 2010, i consumi del 10% dei più ricchi sono saliti al 22,5% del totale.

In tali circostanze, la crescita si è basata su un incremento prodigioso del debito basato sulla spesa nei servizi e nel settore immobiliare. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) , nel 2010 i settori alberghiero e della ristorazione sono aumentati del 46%, mentre quello delle costruzioni è aumentato del 36%. Allo stesso tempo, la produzione è diminuita del 6%.  I livelli imponenti  della portata del debito basato sui consumi sono riportati nelle cifre dell’Autorità Monetaria Palestinese che rivelano che l’ammontare del credito bancario è quasi raddoppiato tra il 2008 e il 2010. La maggior parte di questa spesa basata sui consumi è investita in immobili residenziali, nell’acquisto di automobili o in carte di credito; l’importo del credito concesso per questi tre settori è aumentato di uno straordinario 245% tra il 2008 e il 2011.  Queste forme di consumatore privato e di detentore di debito di famiglia potenzialmente portano a profonde implicazioni sul come le persone vedono le loro capacità di lotta sociale e il loro rapporto con la società.  Sempre più presi in una rete di rapporti finanziari, gli individui cercano di soddisfare i propri bisogni tramite il mercato, di solito prendendo in prestito denaro, piuttosto che attraverso la lotta collettiva per i diritti sociali. La crescita di questi rapporti finanziari e basati sul debito caratterizza quindi la società palestinese. Essa ha avuto, nella seconda metà degli anni 2000, un’influenza conservatrice  con la maggior parte della gente interessata alla “stabilità” e alla capacità di saldare il debito piuttosto che alla possibilità della resistenza popolare.
 

Superare l’impasse?

L’attuale cul-de-sac della strategia politica palestinese è inseparabile dalla questione di classe. La strategia dei due Stati incarnata da Oslo ha prodotto una classe sociale che trae notevoli vantaggi dalla sua posizione in cima al processo di negoziazione e dai suoi legami con le strutture di occupazione. Questa è la ragione ultima della posizione politica supina dell’AP, e ciò significa che un aspetto centrale della ricostruzione della resistenza palestinese deve necessariamente confrontarsi con la posizione di questa elite. Negli ultimi anni, ci sono stati alcuni segnali interessanti su questo fronte, con l’emergere di movimenti di protesta che si sono occupati del deteriorarsi delle condizioni economiche nella West Bank e hanno preso di mira esplicitamente il ruolo dell’AP nel contribuire ad esse. Ma finché i maggiori partiti politici palestinesi continueranno a subordinare la questione di classe alla presunta necessità di un’unità nazionale, sarà difficile che questi movimenti trovino un fattore trainante più profondo.

Inoltre, la storia degli ultimi due decenni mostra che il modello “falchi e colombe” della politica israeliana, così popolare nei superficiali reportage dei media corporativi e condivisa di tutto cuore dalla leadership palestinese della West Bank, è decisamente falso. La forza è stata la levatrice fondamentale dei “negoziati di Pace “. Infatti, l’espansione delle colonie, le limitazioni di movimento e la permanenza del potere militare hanno reso possibile la legalizzazione del controllo israeliano attraverso gli Accordi di Oslo. Questo non significa negare che esistono differenze sostanziali tra le varie forze politiche all’interno di Israele, ma piuttosto sostenere che queste differenze esistono lungo un continuum piuttosto che per una netta dissociazione. La violenza e le trattative sono complementari e rafforzano vicendevolmente gli aspetti di un progetto politico comune, condiviso da tutte le parti principali, ed entrambe agiscono in tandem per rafforzare il controllo israeliano sulla vita dei palestinesi. Gli ultimi due decenni hanno confermato in modo energico questi fatti.

La realtà del controllo israeliano odierno è il risultato di un unico processo che ha combinato inevitabilmente violenza  e l’illusione di negoziati come un’alternativa pacifica. La contrapposizione tra gli estremisti di destra e il cosiddetto campo della pace israeliano agisce per offuscare la centralità della forza e del controllo coloniale contenuto nel programma politico di quest’ultimo.

La ragione di questo è l’assunto, condiviso dei sionisti di destra e di sinistra , che i diritti dei palestinesi  possono essere ridotti alla questione di uno stato in qualche parte della Palestina storica. La realtà è che il progetto prioritario degli ultimi 63 anni di colonizzazione in Palestina è stato il tentativo da parte dei vari governi israeliani di dividere e scindere il popolo palestinese, il tentativo di distruggere un’identità nazionale coesa, separando gli uni dagli altri. Questo processo è illustrato chiaramente dalle diverse categorie di palestinesi: i profughi, che restano sparpagliati nei campi di tutta la regione; coloro che nel 1948 sono rimasti sulla loro terra e più tardi sono divenuti cittadini dello Stato di Israele; quelli che vivono nei cantoni isolati della West Bank; ed ora quelli che sono separati dalla frammentazione della West Bank e della Striscia di Gaza. Tutti questi gruppi di persone costituiscono la nazione palestinese, ma la negazione della loro caratterizzazione unitaria è stata la logica prevalente della colonizzazione da prima del 1948. Sia la sinistra sionista che la destra concordano con questa logica e hanno agito all’unisono per restringere la “questione” palestinese a frammenti isolati della nazione nel suo complesso. Questa logica è pure quella accettata di tutto cuore dall’Autorità Palestinese ed è incarnata nella sua visione di una “soluzione a due Stati”.

Oslo potrebbe essere morto, ma il suo cadavere putrido non dovrebbe essere quello che ogni palestinese dovrebbe sperare di resuscitare. Ciò che serve è un nuovo orientamento politico che rifiuti la frammentazione dell’identità palestinese in zone geografiche disperse. E’ incoraggiante vedere il coro montante di appelli a un riorientamento della strategia palestinese, sulla base di un unico Stato in tutta la Palestina storica. Tale risultato non si potrà ottenere solo grazie agli sforzi dei palestinesi. Esso richiede una più ampia sfida alle relazioni privilegiate di Israele con gli Stati Uniti e alla sua posizione di perno chiave del potere degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Ma la strategia a uno Stato presenta per la Palestina una visione che conferma l’essenziale unità di tutti i settori del popolo palestinese, indipendentemente dall’aspetto geografico.

Fornisce, inoltre, un percorso per giungere al popolo israeliano che rifiuta il sionismo e il colonialismo attraverso la speranza in una società futura che non discrimina sulla base di un’identità nazionale, e in cui tutti possano vivere indipendentemente dalla religione o dall’etnia. E’ questa visione che fornisce un percorso per raggiungere sia la pace che la giustizia.

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