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4 novembre 2013

Lampedusa, gli sbarchi continuano. E va a picco il nostro senso di comunità civile
di Rino Cascio

E’ uno dei luoghi più citati dai telegiornali. Tutti ne parlano, ma in pochi sanno dove si trova. Intendiamoci: sanno che è nel Mediterraneo, ma non immaginano neanche che sta ben al di sotto di Tunisi o di Algeri, che è più vicina al deserto del Sahara che allo stretto di Messina. Ma questa è solo una delle tante contraddizioni che attengono a Lampedusa, la terra italiana più a sud del mondo da quando – grazie a Dio – è finita l’avventura coloniale del nostro paese. Diciamo Lampedusa e pensiamo subito ad immigrazione. Pochi sanno che ad arrivare attraverso l’isola sono una minima parte, meno di un decimo, degli “stranieri” che entrano “clandestinamente” in Italia. Gli altri arrivano con tanto di visto di soggiorno per motivi di turismo o di studio attraversando gli altri confini, a bordo di treni o aerei e poi – scaduto il visto – restano nel nostro paese o lo attraversano per raggiungere parenti ed amici in tutta Europa. “Stranieri”. “Clandestini”. Usiamoli tra virgolette questi termini quando parliamo di Lampedusa perché stranieri qui non sono i migranti e se c’è qualcosa di clandestino non sono loro.

Non sono stranieri. Qui li hanno sempre accolti, prima ancora che lo Stato si accorgesse che esistevano. Qui hanno collaborato con loro e ci si sono scontrati, come succede a tutti quando si convive. Come succede a chi va per mare e soccorre quando vede qualcuno in difficoltà. Come succede a chi vive di mare e fa difficoltà a dividere aree di pesca con altri, indipendentemente dal colore della pelle o della nazionalità. Qui continuano ad accoglierli. Li hanno rifocillati, quando lo Stato nel 2011 ha deciso di abbandonare per mesi senza servizi 6000 migranti che fuggivano dai loro paesi in rivolta. Senza assistenza, senza un tetto, un bagno, per le strade e le campagne dell’isola. Qui continuano ad accoglierli ancora oggi quando qualcuno di loro scavalca il recinto del centro di accoglienza e si aggira per il paese in cerca di un respiro di libertà. Nel bar di Lampedusa c’è un’usanza che sa di antico. Riprende un aneddoto del grande attore Vittorio De Sica che raccontava di questa consuetudine nei bar napoletani del dopoguerra. Quando Fame e Sete erano termini con l’iniziale maiuscola. In questo bar c’è la possibilità di offrire un caffè ad uno sconosciuto. Paghi un caffè in più e non sai chi ne usufruirà. Lo offri, ma non saprai mai a chi. Spesso  sono migranti a passare da quel bar, a chiedere se ci sono caffè gratis.

Non sono clandestini. Il cuore di Lampedusa non chiede passaporto quando vede qualcuno in difficoltà. Clandestino da anni qui è lo Stato. Non gli uomini dello Stato. Gli eroici uomini della guardia di finanza, della capitaneria di porto, i tanti carabinieri e poliziotti. I primi rischiano la vita più volte al giorno, sfidando onde alte come palazzi, per raggiungere lontano, dopo ore di navigazione, un punto indicato dal radar dal quale è stato lanciato un sos. Gli altri garantiscono che per le strade del paese tutto fili liscio. Che nessuno tra i lampedusani si abbandoni a rigurgiti di intolleranza o che nessuno tra i migranti dia sfogo alla rabbia tipica dei disperati. E ci sono quasi sempre riusciti.

E’ clandestino il buon senso di Stato, il diritto, la dignità istituzionale. Ti chiedi in quale altra calamità naturale capitata nel nostro Paese sia mai successo che centinaia di uomini, donne, bambini rimasti senza casa abbiano vissuto chiusi dentro un recinto, senza un tetto, dormendo su materassi in gommapiuma sotto gli alberi, senza una tenda, anche sotto la pioggia,  unico riparo un quadrato di cellophane. E che nulla cambi neanche dopo che ministri, il presidente del consiglio, il presidente della commissione europea, sono arrivati per proporre davanti alle telecamere – a parole – che Lampedusa venga candidata al premio Nobel per la Pace. Che nulla cambi neanche dopo che lo stesso Papa – venuto qui in preghiera – abbia gridato VERGOGNA. Pure allo zoo è garantito un tetto agli animali, qui no. E convivono: vittime sfruttate dalle organizzazioni criminali che trafficano uomini, e carnefici scafisti che sfruttano la disperazione di tanti e si confondono in mezzo ai primi.

Clandestino è uno Stato che per giorni non ha deciso cosa fare dei tanti corpi che il mare restituiva. Centinaia, e centinaia. Dopo il naufragio del 3 settembre ci sono voluti giorni prima che arrivassero le bare. Più di una settimana prima che si decidesse quando trasferirle. Ed intanto i corpi venivano conservati in sacchi posizionati dentro camion frigo sempre accesi, giorno e notte, per mantenere la temperatura  a 17 gradi sotto lo zero. Camion con la scritta “frutta e verdura” guidati da trasportatori in lacrime, ai quali sono stati requisiti. Uomini enormi che ti confessano di avere pianto da grandi solo una, due volte. Che non riescono a realizzare il loro lavoro di ogni giorno perchè gli hanno sottratto l’automezzo.. “Io porto pomodori – dicono – non cadaveri. Non l’ho fatto mai”. Ma uno Stato che non decide, quei camion li tiene, requisiti, sempre accesi, imbottiti di cadaveri. E le bare, quando verranno trasferite, saranno sepolte senza onori, senza quei “funerali di Stato” che erano stati promessi davanti alle telecamere. Quei funerali che si svolgeranno settimane dopo, senza bare, invitati gli ambasciatori di quei paesi africani in guerra, di quei governi corrotti dai quali i migranti scappavano.

In occasione di quale terremoto italiano è mai successo che le vittime siano rimaste per giorni senza sepoltura, i corpi senza una degna composizione. Quali italiani rimasti sotto le macerie sono finiti dentro un camion frigo? Quali familiari, quali comunità, quale stampa l’avrebbe mai consentito? E perché è accaduto qui? Nel sisma del Belice sono morti 360 siciliani, in quello dell’Aquila poco più di 300 abruzzesi. Qui sono morti in meno di dieci giorni più di 400 uomini e donne, soprattutto donne. Una settantina di bambini. Perché erano diversi? E non è sufficiente venire davanti ad una telecamera e affermare, solo affermare,  che non lo erano, che siamo tutti uguali. Lo sono stati invece diversi e nessuno si è ribellato a sufficienza, ha protestato a sufficienza. Nessun partito, nessun sindacato e nessun giornale. A Lampedusa si è consumata una delle più grandi ipocrisie istituzionali, ma è andato a picco anche il nostro senso di comunità civile.

Tutti parlano di “emergenza”. Abusano del termine. E’ “emergenza immigrati”, “emergenza Lampedusa”, “emergenza centro di accoglienza”, “emergenza crisi del turismo” per colpa dei naufragi. C’è voluto un vescovo, Monsignor Montenegro, pastore della diocesi di Agrigento.  Ed un Presidente della Camera, Laura Boldrini, che a Lampedusa ha impegnato gran parte della sua vita come rappresentante del commissariato Onu per i profughi. Ci sono voluti loro per dire che “non c’è nessuna emergenza”. Quella che stiamo vivendo è ormai “ordinarietà”. E’ la fuga da un’area del mondo in guerra, povera, allo stremo. E’ una fuga costante, che non si è interrotta neanche dopo il naufragio e le centinaia di morti. Perché – ci diceva un sopravvissuto – “se mi rimandate indietro io torno di nuovo. Rischio ancora la vita, affronto la morte di altri miei familiari ed amici”. Fuggire diventa necessario quando vivere è impossibile. Fare finta di non saperlo, di non vederlo, è ipocrita. E’ ipocrita lasciare che a risolvere il problema di tanti disperati siano le organizzazioni criminali, che li sfruttano, li violentano, li uccidono; e che a garantire la loro salvezza sia la sorte di un mare calmo, di un cielo senza vento, di una motovedetta o un peschereccio che li intercetti ancora al largo.


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