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08/04/2013

La Frontiera del Petrolio Uccide gli Indigeni e il Cuore dell’Amazzonia Ecuadoriana
di Tancredi Tarantino

In uno dei luoghi più biodiversi al mondo, dove per secoli gli indigeni hanno convissuto in armonia con la natura, si sta consumando una tragedia ignorata dai grandi media.

Sarebbero almeno trenta gli indigeni in isolamento volontario uccisi il 29 marzo nel cuore dell’Amazzonia ecuadoriana. Un dramma che l’informazione generalista sta cercando di liquidare come una lotta fratricida tra aborigeni per il controllo del territorio, ma che invece affonda le proprie radici nella fame di energia del mondo industrializzato.

Lo scorso 5 marzo un gruppo di nativi non contattati, i Taromenane, ha attaccato un’anziana coppia di indigeni waorani all’interno del parco Yasuní, in prossimità di una zona della foresta in cui opera l’impresa petrolifera spagnola Repsol. I due waorani, accusati di non aver fatto nulla per fermare le attività di prospezione e il disboscamento nei loro territori, sono stati trafitti con le lance dai Taromenane.

Poche settimane dopo, la vendetta si consuma in una zona cosiddetta “intangibile” dello Yasuní. Nei giorni in cui il governo mette a bando nuove concessioni petrolifere nei territori indigeni, un gruppo waorani armato di lance e fucili si inoltra nella foresta e, dopo circa cinque giorni di cammino, raggiunge un villaggio Taromenane dando fuoco a una grande capanna.

Almeno trenta Taromenane sarebbero morti nel rogo e sotto una pioggia di proiettili, mentre due bambine sono state sequestrate e portate in un villaggio waorani. A raccontare i dettagli del massacro è un indigeno che ha preso parte alla spedizione.

Il governo nei giorni scorsi ha cercato di ricostruire l’accaduto sorvolando la zona. L’esito delle ricerche è stato finora negativo sia per la resistenza a collaborare dei waorani sia per la richiesta, avanzata da più parti agli investigatori, di non violare la zona intangibile per cercare un contatto diretto con i Taromenane.

I conflitti tra popoli amazzonici per il controllo del territorio e la supremazia sono sempre esistiti, ma da quando la frontiera petrolifera ha raggiunto i loro territori si sono intensificati. A inasprirsi in particolare sono state le relazioni tra chi, come i waorani, ha accettato la presenza di compagnie petrolifere nei propri territori in cambio di regalie e infrastrutture, e chi, come i Taromenane e i Tagaeri, ha scelto la via dell’isolamento come forma estrema di resistenza in difesa della propria cultura e della foresta.

Ed è proprio nell’equilibrio sempre più precario tra natura, indigeni ed energia che si inserisce questa nuova tragedia. Un equilibrio lacerato a più riprese da trafficanti di legname, missionari e imprese petrolifere, con il beneplacito di governanti consenzienti.

L’Amazzonia ecuadoriana è suddivisa in lotti da 200mila ettari ciascuno dati in concessione per le attività di prospezione. Al fine di tutelare il parco Yasuní, dichiarato dall’Unesco riserva mondiale della Biosfera, l’attuale governo di Rafael Correa si è fatto promotore di una proposta innovativa che sta facendo il giro del mondo: non estrarre il petrolio presente nel sottosuolo del lotto ITT, all’interno dello Yasuní, in cambio di un impegno della comunità internazionale a risarcire la metà di quanto l’Ecuador perderebbe rinunciando al greggio. L’altra metà del mancato guadagno sarebbe a carico dello stesso governo ecuadoriano.

Un’iniziativa unica nel suo genere che mira a salvaguardare la biodiversità dello Yasuní e i nativi non contattati, puntando a un superamento graduale della dipendenza dal petrolio. Una proposta che però nei fatti confligge con altre misure adottate dall’Ecuador in ambito energetico. Ad iniziare dalla licitazione che scade a fine maggio e che mette a bando circa tre milioni di ettari di Amazzonia, molti dei quali a ridosso della zona intangibile o all’interno di territori indigeni.  Non una vendita di pezzi di foresta, come riportato giorni fa da Repubblica, ma concessioni petrolifere che si stanno negoziando a livello internazionale, in particolare con la Cina, e che vengono duramente criticate da organizzazioni ambientaliste e dirigenti indigeni.

Il governo Correa non sembra però intenzionato a rinunciare al petrolio. A differenza di quanto accadeva fino a pochi anni fa, quando le multinazionali del greggio tenevano per loro l’80 per cento degli introiti, oggi sulla vendita del petrolio si reggono le politiche sociali dello stato ecuadoriano.

Correa, rinegoziando i contratti petroliferi e aprendo le porte alle miniere a cielo aperto, ha potuto aumentare la spesa sociale e migliorare le condizioni di vita della popolazione locale. In cinque anni un milione di ecuadoriani si è lasciato alle spalle la soglia della povertà, il Pil è cresciuto a una media del 4,5 per cento annuo, la disoccupazione è scesa al 5 per cento e si è garantito a tutti l’accesso gratuito a istruzione e sanità.

Risultati mai ottenuti prima dall’Ecuador che però non cambiano di una virgola l’impatto di petrolio e miniere sull’ambiente e sui popoli nativi.  Un nervo scoperto, quello delle politiche energetiche, per un governo all’avanguardia come quello ecuadoriano che non può esimersi dal trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di crescita di un popolo e il rispetto per una diversità culturale e ambientale che costituisce un patrimonio inestimabile per il futuro del pianeta.

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