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29 luglio 2014

“Sono stato un separatista in Ucraina”
di Mumin Shakirov
traduzione di Matteo Zola

Artur Gasparyan, 24 anni, è nato a Spitak in Armenia. Nel maggio scorso è stato reclutato a Mosca per combattere nell’Ucraina orientale. Ora, tornato nella capitale russa, ha rilasciato un’intervista a Mumin Shakirov, pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian. Ne emerge uno spaccato interessante di chi sono i volontari che vanno a combattere, di cosa pensano e delle loro esperienze.

Tutto è cominciato con l’incendio di Odessa, dove sono morte 42 persone che manifestavano a favore di Mosca. Dopo quel fatto hai scritto sul social network V-Kontakte esprimendo il desiderio di andare a combattere in Ucraina. Cos’è successo dopo?

Mi è stato dato appuntamento a nord di Mosca, dalle parti del Centro delle esposizioni panrusso (VDNK), e lì c’erano altre dieci persone. Ci ha incontrato un uomo, dall’accento slavo, che senza dirci il suo nome ha cominciato a farci domande. Prima di tutto ci ha chiesto se sapevamo maneggiare armi. Poi ci ha messo in guardia dicendo che saremmo stati mandati a Sloviansk, che vi avremmo trovato morte certa, e che la punizione in caso di saccheggio era l’esecuzione sul posto – come poi ho visto con i miei occhi diverse volte mentre ero in Ucraina. A quelle parole, due dei convenuti se ne sono immediatamente andati.

Ti hanno promesso dei soldi?

Non mi hanno promesso né una paga né dei soldi. Solo cibo, vestiti, armi e la garanzia che avrebbero trasportato i nostri cadaveri a Rostov sul Don per consegnarli alle nostre famiglie. Se le avessero trovate. Hanno insistito perché distruggessimo i nostri account online e rimuovessimo ogni informazione personale dai social network.

Come sei arrivato al confine ucraino?

La mattina del 12 maggio siamo saliti su due auto in direzione sud. Ci sono volute quasi 24 ore solo per arrivare a Rostov sul Don. Ho capito poi che anche gli autisti erano volontari. Ci hanno portato a un campo fatto di piccole case vicino a un torrente e alla foresta. Non ho idea di dove fossimo, anche perché avevano sequestrato tutte le carte stradali in nostro possesso, le nostre schede telefoniche e altri effetti personali. Lì abbiamo indossato i vestiti che ci hanno dato

Quanto sei rimasto in questo campo?

Circa due settimane. Ogni giorno sempre più persone arrivavano. Alla fine eravamo quasi un centinaio. Abbiamo ricevuto un addestramento militare, le nostre giornate avevano ritmi stabiliti. Appena svegli si andava a correre, poi c’era la colazione e dopo l’addestramento nella foresta. Lì abbiamo imparato l’uso dei segni manuali.

Cosa intendi con segni manuali?

Ci hanno insegnato a comunicare usando gesti e facendo segni in modo da riconoscerci gli uni con gli altri, o per comunicare silenziosamente durante le notti. Ora so parlare con le mani come fanno i sordi. Tutto questo ci è stato insegnato da un istruttore in abiti civili che non ci ha mai rivelato il suo nome, come tutti i capi tra l’altro. Tra di noi ci chiamavamo con nomi di battaglia e anche adesso ignoro il nome di gran parte dei ragazzi che sono stati uccisi in quell’inferno.

Avevi esperienze di combattimento prima di andare in Ucraina? Sei stato nella regione separatista del Nagorno-Karabakh…

Sì, ho combattuto in Nagorno – Karabakh, ma si è trattata più che altro di una guerra di posizione, con qualche scambio di fuoco o lanci di granate. Ero però quello che ne sapeva di più di guerra tra i ragazzi che c’erano là.

C’erano nazionalisti russi tra loro?

Non ho visto nazionalisti benché molti degli uomini che combattevano con me fossero slavi, principalmente russi, bielorussi e ucraini. Non so, erano dei buoni patrioti. Nessuno di loro mi ha mai preso in giro perché sono armeno. C’era un gruppo di uomini dal Caucaso, e altri armeni che provenivano da Krasnodar o dalla città ucraina di Kryvvi Rih. Alcuni ceceni si sono uniti al gruppo poco dopo. Sono diventato amico con un paio di loro, uno chiamato “Rosso” e l’altro “Piccolo”. Sono stati uccisi in quei camion Kamaz...

Come avete passato il confine?

Intorno a mezzanotte, il 23 maggio, lasciammo la base. Eravamo un centinaio a bordo di camion Kamaz. Eravamo accompagnati da una guida, a bordo di una jeep Niva. Ci sono volute diverse ore prima di giungere al confine. Lì ci siamo uniti ad altri cinquanta uomini provenienti da un altro campo e ci sono state date le armi: lanciagranate, fucili automatici, pistole e granate. Poi siamo stati fatti risalire sui camion.

Vi hanno insegnato a usare quelle armi?

Alcuni sapevano come usare i lanciagranate. Io sono stato messo a capo di una squadra di mitraglieri composta da tre-sei uomini. Loro mi hanno assegnato questo compito dopo aver esaminato i miei documenti di servizio militare. C’erano alcuni codici numerici che non avevo notato prima. Quando mi hanno chiamato mi hanno chiesto di leggere un codice che serviva loro per capire qual è stato il mio addestramento. Questo mi ha fatto supporre che ogni settore lavorasse indipendentemente dall’altro.

Cosa intendi dire con “loro”? Sono quelli del FSB [i servizi segreti eredi del KGB, ndr], dell’intelligence militare (GRU), del ministero degli interni russo? Chi sono queste persone che vi hanno addestrato e portato oltreconfine?

Non conosco i loro nomi, nemmeno il nome di battesimo. Sembravano slavi. Erano tutti in abiti civili. Ma non ricordo nemmeno le loro facce.

Quando avete attraversato il confine?

E’ stato intorno al 24 maggio. Oltre il confine, dal lato ucraino, siamo stati accolti da alcuni alti rappresentanti della Repubblica Popolare di Donetsk. Ci hanno portato in una base militare sotto il loro controllo e ci hanno assegnato ad una caserma. Abbiamo dormito tutto il giorno. Il 25 maggio abbiamo preso parte a una parata in città, sfilavamo sui nostri camion. quella parata è stata resa famosa dai ceceni che rilasciarono interviste, posarono per le telecamere mentre sparavano in aria e tutta la gente ci acclamava come i liberatori russi. A sera siamo tornati nelle nostre caserme.

E quando hai partecipato al primo combattimento?

La notte del 25 maggio è suonato l’allarme. Siamo stati fatti salire su un autobus civile e spediti all’aeroporto. Tutto il nostro gruppo, eravamo un centinaio, è stato mandato in un edificio dove ci siamo uniti a un gruppo di ossetini. I passeggeri sono stati evacuati ma alcuni impiegati sono rimasti nell’edificio. L’aeroporto è stato così rapidamente occupato e alla mattina alcuni aerei sono atterrati senza che interferissimo con le operazioni. Ci siamo posizionati in ogni piano dell’edificio. Con un mio aiutante sono salito sul tetto e ho piazzato la mitragliatrice: l’ordine era che nessuno si avvicinasse all’aeroporto per un raggio di mezzo chilometro.

Qual era lo scopo di occupare l’aeroporto civile a Donetsk? In quel momento i combattimenti stavano avendo luogo in tutt’altro posto, nei pressi di Sloviansk…

Allo scopo di prevenire l’invio di truppe da Kiev. Ci è stato detto che nessuno avrebbe sparato su di noi. Che dovevamo solo posare per le telecamere, disarmare tutti e mandarli a casa, occupando l’aeroporto.

Cosa intendi dire? Disarmare chi?

Le truppe intorno all’aeroporto. Dovevamo spaventarli, mostrare che eravamo dei duri e tutti ci temevano. Ma si è rivelato il contrario. Alle due del pomeriggio è arrivato un elicottero, poi degli aeroplani, e hanno cominciato a bombardarci. Fu un grosso attacco, dal tetto ho potuto contare quattro elicotteri e due aerei.

Avevate armi antiaeree mobili?

Il nostro comandante era Alexander Khodakovsky [già a capo delle forze speciali Alfa durante la presidenza Yanukovich], capo del battaglione Vostok, composto da volontari russi. Lui ci disse che non avrebbero mai bombardato l’aeroporto e per questo lasciammo gli “zenit”, cioè le armi anti-aereo da spalla, nelle nostre caserme. Con noi c’erano però i suoi cecchini, oltre che agenti del SBU, il servizio di sicurezza ucraino. Costoro, che erano passati dalla parte della Repubblica popolare di Donetsk, portavano fucili che non avevo mai visto prima. All’una però sono spariti e alle due l’attacco è iniziato.

Cos’è successo nel luogo dove ti trovavi tu?

Eravamo sul tetto con la mia squadra. Un ceceno è stato subito ucciso, altri due feriti. Sparavamo sull’elicottero con tutto ciò che avevamo ma siamo stati costretti a rifugiarci nell’edificio. Cadevano bombe da tutte le parti. Loro avevano dei lanciamissili posizionati intorno all’aeroporto da cui ci sparavano. Khodakovsky ha ingenuamente pensato che siccome l’aeroporto era nuovo – aperto nel 2012 per gli europei di calcio – non l’avrebbero bombardato. Se solo avessimo avuto le nostre armi antiaeree niente di tutto ciò sarebbe accaduto.

Pensi a un tradimento o a incompetenza?

Non lo so. Abbiamo perso molti uomini. Uno dei ceceni, lanciando due bombe fumogene sul tetto, ci ha condotto in salvo dentro l’edificio e in un modo o nell’altro siamo scesi fino al piano terra, aspettando di essere uccisi. Non potevamo uscire da lì. Qualcuno trovò il comandante, detto Spark, che diede l’ordine di salire sui camion. Non volevo, sapevo che rischio era, ma Spark mi disse: “se discuti gli ordini, ti ammazzo qui”. E sono salito.

Quanti eravate sul camion?

C’erano circa una trentina di uomini per camion. Una squadra rimase di copertura nell’aeroporto. Sono poi riusciti a tornare a piedi nella notte. Spark diede l’ordine di uscire a tutta velocità dall’aeroporto sparando in tutte le direzioni a ogni cosa si muovesse. Abbiamo scoperto il cassone del camion e siamo partiti. Ogni camion viaggiava a 500 metri di distanza dall’altro, sparando ovunque. E’ stato terrificante.

Qual è stata la versione ufficiale?

In televisione hanno detto qualcosa di milizie che venivano trasportate disarmate e ferite sotto il segno della Croce Rossa e che l’esercito ucraino avrebbe sparato su di esse. Ancora oggi non so se fu fuoco amico o cosa. Ero sicuro si trattasse della Guardia nazionale ma due giorni dopo uno degli uomini rimasti all’aeroporto a coprirci la fuga mi disse che erano stati i nostri a spararci. Ci siamo chiesti allora che fare e decidemmo di fuggire a piedi, durante la notte, e tornare in Russia. Abbiamo trovato alcuni abiti civili e ci siamo cambiati, prendendo alcuni zaini e abbandonando le armi. C’era un autista con noi, ci ha detto che aveva uno zio fuori Donetsk. Nella notte sei di noi raggiunsero quella casa ma alla mattina del 27 abbiamo sentito degli spari e capimmo che avevano mandato una squadra a cercarci.

Come vi hanno trovato?

Non ne ho idea, forse qualcuno ci ha venduto. Siamo corsi via e ce la siamo cavata ma eravamo senza soldi né documenti. Andammo così fino a un checkpoint a Horlivska, controllato dai separatisti, e raccontammo loro la nostra storia. Ci affidarono a un comandante, detto “Diavolo”, che ci promise di rispedirci in Russia alla prima occasione. Si rivelò essere un tipo a posto, un soldato professionista di Horlivska, e ci disse che non ci avrebbe rimandato dagli “orientali”. Restammo con lui due settimane.

Cosa hai fatto a Horlivska dal 28 maggio al 15 giugno?

Ho nuovamente indossato la divisa. Mi sono state date armi e ho preso parte a molte operazioni. Questi erano meglio organizzati, più sistematici. Abbiamo fatto azioni di guerriglia, sgattaiolando e facendo saltare obiettivi come una stazione di benzina a Dokuchayevsk. Passavamo la notte dentro auto civili protetti da una postazione con mitragliatrice e lancia granate.

Perché avete fatto saltare la stazione di benzina?

Così gli ucraini non potevano più rifornire i loro blindati e i loro camion.

Ma a voi non serviva benzina?

Non avevamo veicoli. Cose così sono arrivate solo dopo che me ne sono andato.

Quali sono le storie raccontate in televisioni che trovi più oltraggiose e che più ti disturbano?

Quando intervistano persone responsabili della Repubblica Popolare di Donetsk. La Repubblica Popolare di Donetsk è una finzione. Esiste solo negli uffici di Borodai (Alexander, primo ministro dell’autoproclamata Repubblica) ma le decisioni vengono prese altrove.

Alcune fonti dicono che circa il 20% dei miliziani è russo e più dell’80% è composto da milizie locali ucraine

Io dico l’esatto opposto. La gran parte sono russi, ceceni e ingusci. Ci sono poi armeni, come me. Ho parlato con la gente del posto e mi hanno detto che loro fanno quel che sono obbligati a fare. “Che cosa vi hanno obbligato a fare” e loro “Di votare, e lo abbiamo fatto. Ma il resto è affar vostro”. Questo è. Hanno partecipato al referendum per l’indipendenza della Repubblica Popolare di Donetsk ma non vogliono combattere. Uno mi ha detto: “Quel che voglio è prendere il mio stipendio e bere fino al giorno dello stipendio successivo”.  In genere non hanno esperienza, non sanno maneggiare armi, non sono stati nell’esercito. Almeno così è a Donetsk.

E a Horlivka?

Mezzo e mezzo, ma i russi combattono meglio. C’è gente che è stata nell’esercito ma gli ucraini non hanno un vero esercito da 23 anni.

Perché ci stai raccontando tutto questo?

Perché le persone che hanno tradito me e i mie compagni all’aeroporto ancora danno ordini, e volontari dalla Russia ancora vanno a servire ai loro ordini. Voglio che queste persone sappiano chi li comanderà. Io sono andato. Sono sopravvissuto per miracolo. Mi dispiace per loro perché serviranno gente come Khodakovsky.

Come sei tornato in Russia?

“Diavolo” ha mantenuto la parola. Tre ragazzi sono venuti con me. Ci ha ringraziato e ci ha dato mille hryvnie lungo la strada augurandoci buona fortuna. Abbiamo attraversato la regione di Lugansk su auto civili, evitando i posti di blocco, per circa 150 chilometri. Superato il confine russo siamo stati raccolti e condotti a Rostov, nella stessa base dove siamo stati addestrati. Ci hanno restituito i nostri documenti, i vestiti, i soldi e siamo tornati a casa.

Tu sei armeno. Perché hai deciso di rischiare la vita per una nazione straniera?

Non considero la Russia un paese straniero. Ho una mentalità sovietica. Mio nonno ha combattuto per l’Unione Sovietica e io ho fatto lo stesso. Non considero la Russia un paese straniero.

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