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Giovedì, 20 Novembre 2014

La guerra invisibile che si combatte a Donetsk
di Danilo Elia

La “capitale” della Dnr si sta trasformando in una vetrina per giornalisti. È molto difficile guardare oltre la superficie e anche riuscendo ad andare al fronte, oltre a veder sparare, non si riesce a capire molto di più di questa guerra. Non c’è più ostilità verso i reporter occidentali, come un paio di mesi fa, la città continua il suo lento ritorno a un’apparente normalità e le nuove istituzioni assumono sempre più una parvenza ufficiale. Intanto i colpi di mortaio sono diventati un sottofondo cui si fa presto l’orecchio mentre a un paio di chilometri dal centro si continua a morire. Perché questa è una guerra che si sente ma non si vede.

La prima cosa che bisogna fare una volta arrivati a Donetsk è andare al settimo piano del palazzo del governo e ottenere un accredito. È un inutile pezzo di carta che serve solo a tenere a bada i poliziotti e i miliziani che a ogni angolo chiedono di controllare i documenti. Quando si cerca di andare un po’ oltre la facciata del centro città, quel pezzo di carta non basta. Ci vogliono i contatti nella milizia, ma c’è sempre qualcuno più in alto pronto a fermarti. E anche quando raggiungi uno che dice di essere il capo, allora non è più nemmeno chiaro chi è a comandare.
Credo che sia una strategia precisa di quella infowar che va ormai avanti da mesi. La sensazione generale è che tutti hanno qualcosa da nascondere. La facciata mostra di non temere l’occhio curioso dei giornalisti occidentali, ma la verità è che solo i reporter russi di Lifenews e RT possono andare dovunque. E raccontare la loro versione.

Cargo 200

Nei dintorni di Ilovaisk c’è stata la più dura battaglia fino a oggi. L’esercito ucraino ha subito enormi perdite a causa di un errore strategico che ha portato i suoi uomini dritti tra le fauci del fuoco separatista. È stato uno dei punti di svolta della guerra e uno degli eventi che più ha gettato il sospetto su un aiuto militare russo, perché secondo alcuni la milizia separatista non avrebbe potuto farcela da sola.
Per visitare la zona della battaglia ho dovuto ottenere un benestare dalla milizia, che non ha neanche guardato il mio accredito colorato. Insieme a un Cargo 200, la sigla russa che identifica il trasporto dei caduti, abbiamo perlustrato campi di grano pieni dei resti della battaglia. A terra, caschi sfondati, qualche granata inesplosa e resti di razioni militari dell’esercito russo. Quando la curiosità e le domande si sono spinte un po’ oltre, la missione è stata interrotta e siamo dovuti rientrare a Donetsk.

Una battaglia come tante

Non si può fotografare niente. Non si possono fare domande. È difficile raggiungere le zone dei combattimenti e, anche quando ci si riesce, non ti fanno vedere altro se non quello che vogliono loro. Eppure la guerra c’è, si sente. E se ne vedono gli effetti. Il sobborgo settentrionale di Yasinovata è stato pesantemente bombardato, molto probabilmente dall’esercito ucraino. A differenza di altri distretti, è ancora abitato. Palazzi di otto piani per metà bruciati come tizzoni e per l’altra metà coi panni ai balconi. Buchi di mortaio tra il quarto e il quinto piano. Macchine bruciate. Chi non è andato via, dorme nei sotterranei.
Mentre sono lì con un collega, il sibilare del vento freddo è rotto da improvvise esplosioni. Sono a uno, due chilometri al massimo, ad Avdiivka. La milizia della Dnr sta tentando una manovra di accerchiamento dell’esercito ucraino, ma fallirà e sarà un altro massacro. Di nuovo l’obitorio dell’ospedale Kalinin si riempirà di corpi lividi. Tre miliziani si avvicinano e ci mandano indietro a Donetsk, è zona di guerra. Perché questa guerra non la si può raccontare.

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