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21/02/2014

A Kiev c’è un accordo, ma non una soluzione ai problemi
di Stefano Grazioli

L’intesa siglata non assicura la svolta europeista di Kiev. Troppe le questioni che restano aperte, ultranazionalisti ancora in piazza.

L’accordo a Kiev é stato raggiunto. Presidente e opposizione hanno siglato un documento che contiene una road map per uscire dalla crisi dalla quale il Paese si è infilato esattamente tre mesi fa. Il 21 novembre scorso erano infatti iniziate le prime manifestazioni sulla Maidan di Kiev e nel resto del Paese, soprattutto all’Ovest, contro la svolta filorussa del presidente Victor Yanukovich che non aveva firmato a Vilnius l’Accordo di associazione con l’Unione europea. C’è da chiedersi se ci volevano veramente trentasei settimane e un centinaio di morti in tutta l’Ucraina per partorire un compromesso del genere. Ma probabilmente non c’era altra via di uscita con lo spettro di una guerra civile alle porte.

L’intesa è in realtà una cornice dentro la quale i protagonisti si possono muovere con una certa libertà e verte essenzialmente su sei punti: un nuovo governo di unità nazionale con la partecipazione dell’opposizione che dovrebbe insediarsi in una decina di giorni, la modifica in senso parlamentarista della Costituzione (subito il ritorno alla Carta del 2004, con il ridimensionamento dei poteri del presidente a favore di quelli del premier e della Rada, poi una riforma tutta da discutere entro settembre), elezioni presidenziali anticipate da tenere entro la fine dell’anno, un’indagine sull’escalation della violenza sotto il controllo europeo, il divieto per il governo di introdurre leggi di emergenza e utilizzare la forza, associato allo sgombero degli edifici occupati dai manifestanti e alla deposizione delle armi, e la cessazione immediata di ogni confronto e violenza.

Se i mediatori dell’Unione europea hanno valutato positivamente l’esito delle trattative che negli ultimi due giorni hanno impegnato nella capitale un manipolo di ministri degli Esteri, in cui il ruolo fondamentale è stato giocato dal tedesco Frank Walter Steinmeier, quello russo Vladimir Lukin, arrivato la notte scorsa a Kiev su richiesta espressa di Yanukovich, non è sembrato entusiasta e non ha messo neppure la firma sul documento finale. Ma già il suo invio da parte di Vladimir Putin, e non quello del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, buldozzer abituato alle crisi internazionali, era stato il segnale che comunque la Russia sarebbe stata alla finestra, lasciando la patata bollente all’Europa e Yanukovich nel suo brodo. Da Mosca hanno fatto sapere nel frattempo che sono pronti a collaborare con il prossimo inquilino della Bankova e il prossimo governo a Kiev, di quale colore esso sia.

Un accordo problematico

La realtà è che se l’accordo aiuta a disinnescare l’emergenza, pone sul tavolo nuovi punti interrogativi. La questione su chi guiderà il gabinetto di transizione è in fondo quella meno rilevante, anche se simbolica. Il ritorno alla Costituzione del 2004, approvato oggi alla Rada in seduta straordinaria, non è certo la soluzione a tutti i problemi del Paese, dato che la divisione di competenze tra presidente e primo ministro realizza sì una divisione dei poteri, ma conduce anche a blocchi istituzionali. Tutte cose già viste tra il 2005 e il 2010 che hanno portato al naufragio della rivoluzione arancione, arenatasi nei conflitti tra il presidente Victor Yushchenko e la premier Yulia Tymoshenko. L’intesa odierna non impone un calendario preciso, per cui è prevedibile una lunga fase, appunto almeno sino a settembre, in cui il presidente Yanukovich e il futuro primo ministro potranno scontrarsi. La data delle elezioni sarà un altro motivo di screzi, dato che l’ala dura dell’opposizione, sia parlamentare che extra, punterà i piedi per accelerare i tempi.

I problemi maggiori nascono proprio sul fronte dell’ala radicale della Maidan, dalle frange ultranazionaliste radunate sotto l’ombrello di Pravy Sektor, che hanno già definito insoddisfacente l’accordo e hanno annunciato il prosieguo della rivoluzione. Per ora si tratta di minacce, ma gli eventi dell’ultima settimana dimostrano che il leader Dmitry Yarosh alle parole è abituato a far seguire i fatti. A Kiev e nei capoluoghi delle regioni occidentali dell’Ucraina, da Leopoli a Ivano Frankivsk, da Ternopil a Lutsk, sarà difficile far digerire agli ultranazionalisti il compromesso. E il compito di Olegh Tiahnybok di contenere la galassia che gravita intorno al suo partito Svoboda non è proprio dei più semplici, considerando il fatto che al populista destrorso antisemita il ruolo di pompiere si addice poco.

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