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4 marzo 2014

Tre scenari per Kiev
di Paolo Soldini

Tre è il numero magico della crisi tra la Russia e l’Ucraina. Tre sono gli scenari possibili e tre sono gli schieramenti sul che fare che si stanno delineando in seno all’Occidente.

Il primo scenario è la guerra. Non la drôle de guerre di queste ore, con i soldati russi che occupano senza colpo ferire le installazioni militari in Crimea e i soldati ucraini divisi tra chi sta a guardare e chi passa al nemico, ma la guerra guerreggiata, con le armi che sparano e i morti. Con il passare delle ore, se non ci sono svolte, l’incubo può divenire realtà in ogni momento: basta un nervosismo, un errore.

Il secondo scenario è una mediazione internazionale, condotta dall’Osce, o nel seno dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa con sede a Vienna che ha il pregio di essere oggi l’unica in cui sono presenti tutti i protagonisti della crisi: gli europei, gli americani nonché quelli che potrebbero trovarsi un giorno o l’altro in condizioni non dissimili dall’Ucraina, e cioè gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’obiettivo sarebbe un negoziato che garantisca l’integrità territoriale dell’Ucraina (Crimea compresa?) ma obblighi Kiev a impegnarsi nel rispetto delle minoranze russofone, garantendo qualche sorta di droit de régard a Mosca sulle regioni in cui quelle minoranze sono maggioranza, e cioè nell’est del paese ma anche in parte del sud. A cominciare dalla regione di Odessa, che rischia di diventare un nuovo pericoloso focolaio di conflitto, con una popolazione che si considera ucraina ma continua a parlare prevalentemente russo, erede di un passato imperiale in cui il russo era la koiné di un ricchissimo plafond di culture diverse - greca, ebraica, turca, rumena, tedesca - che caratterizzava anche altre regioni occidentali del paese, come la Bucovina dove (a testimoniare quanto l’Ucraina sia una realtà tremendamente complicata) le lingue franche erano il tedesco e il rumeno.

La soluzione Osce potrebbe essere avviata con la creazione di un gruppo di contatto e potrebbe sfociare nell’invio di osservatori permanenti incaricati di vigilare sul rispetto degli accordi.

Il terzo scenario contempla il collasso economico e politico dell’entità statale ucraina con la secessione o il passaggio puro e semplice di intere regioni alla Russia e la sopravvivenza di una Ucraina notevolmente impiccolita. È evidente che questa ipotesi comporterebbe la nascita di un problema inverso a quello attuale, con la necessità di assicurare tutele e protezioni ai non russi, un problema che sarebbe particolarmente complicato del sud, dalla Transnistria (oggi in Moldavia) ad ovest alla Crimea ad est, passando per Odessa, dove etnìe e lingue sono molto mescolate.

Si potrebbe pensare che lo scenario su cui la diplomazia internazionale si dovrebbe orientare più facilmente sia il secondo. Ma non è così, o è così solo in parte. O, se si preferisce, solo a parole. Alle tre ipotesi di sviluppo del conflitto corrispondono tre schieramenti. Nessuno, certo, sostiene apertamente l’opportunità che la crisi sfoci in una vera guerra, e tuttavia l’ipotesi viene di fatto contemplata da chi preme per una chiara scelta di rollback da imporre a Mosca con l’adozione di sanzioni dure, l’isolamento internazionale di Putin e l’appoggio incondizionato al nuovo governo ucraino prima ancora che riceva una qualsiasi legittimazione popolare. Sostenitori di questa linea sono in genere i Paesi dell’Europa orientale, Polonia in testa, e le repubbliche baltiche. I motivi che li animano sono ben comprensibili alla luce della loro storia: più la Russia è lontana, meglio è. Meno radicali sono quei paesi che, ispirati soprattutto dall’amministrazione di Washington (tutta?) premono per un atteggiamento «fermo» con Mosca, proponendo il boicottaggio del G-8 di Sochi o addirittura l’esclusione della Russia dal clan, ma senza l’atto esplicito di rottura che sarebbe l’imposizione di sanzioni. I governi di Londra e Parigi sono su questa linea.

Prima di passare al terzo schieramento, sarà utile notare come i primi due, pur con le loro differenze, si fondano su una premessa politica comune: la Russia va contenuta. E non la Russia di Putin, con le sue deviazioni autocratiche e le evidenti pulsioni neoimperiali, ma la Russia in quanto tale. È un postulato geopolitico che è sopravvissuto alla Guerra Fredda e che in qualche modo la scavalca, riallacciandosi a problematiche storiche che hanno attraversato i secoli. In nome del contenimento della Russia, alla fine della Guerra Fredda l’Occidente, gli Usa, la Nato e un poco anche l’Unione europea, hanno cercato di allargare la loro area di influenza verso l’est senza curarsi del fatto che ciò veniva percepito da Mosca come un pericolo e eccitava un nuovo nazionalismo e uno spirito di revanche che hanno contribuito non poco a creare e a consolidare l’autocrazia al Cremlino.

Anche la percezione di questi errori passati sostiene le posizioni dello schieramento pro negoziato e (oggi) pro Osce, del quale hanno preso la guida la cancelliera tedesca e il suo ministro degli Esteri e che trova l’appoggio del nuovo governo di Roma.

Vedremo chi prevarrà. Intanto andrebbe subito sgombrato il campo dal malinteso secondo il quale dietro l’idea della mediazione si nasconderebbe una debolezza politica e morale verso la prepotenza aggressiva dei russi. L’accusa è circolata e Angela Merkel ha dovuto smentire chi a Washington, Londra e Parigi ne propalava il sospetto e chi a Mosca se ne stava servendo propagandisticamente. L’invasione della Crimea è una violazione della legalità internazionale e i movimenti di truppe russe sono una minaccia inaccettabile. Ma le minacce a chi minaccia non sono una risposta.

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