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31 Ago 14

L’ordine globale è finito. Parola di Henry Kissinger
di Giampaolo Rossi

Henry Kissinger, a dispetto dei suoi 91 anni, resta una delle intelligenze più lucide della politica estera internazionale. Fu lui, da Segretario di Stato di Nixon e Ford, a districare l’America da alcune delle crisi più delicate degli anni ’70. Guidò gli Usa fuori dal disastro del Vietnam, attraversò il conflitto dello Yom Kippur e diede vita al processo di distensione con la Cina.
Oggi, lui è ciò che manca alla politica estera statunitense: un realista lucido, in grado di conciliare l’eccellenza americana con i bisogni di un mondo ormai multipolare.
Qualche mese fa sul Washington Post ammonì l’amministrazione Obama sull’Ucraina: “Nella mia vita ho visto quattro guerre iniziate con grande entusiasmo e sostegno pubblico, alle quali poi non sapevamo come porre fine; da tre ci ritirammo unilateralmente”; e aggiunse che l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà “mai essere solo un paese straniero”.
Kissinger è tornato a scrivere sul Wall Street Journal, anticipando parte dei contenuti del suo nuovo libro “World Order” ed offrendo così  un saggio che illumina i possibili scenari globali con chiarezza e visione.
Per secoli, scrive Kissinger, “l’ordine mondiale è stato definito quasi esclusivamente dai concetti occidentali europei”: persone e Stati si consideravano “intrinsecamente competitivi” e, per limitarne le ambizioni di contrasto, ci si basava “sull’equilibrio del potere” e su una classe politica composta da statisti e leader “illuminati”.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Usa, forti della loro vittoria e trascinati da un’economia fortissima, “hanno cominciato a prendere il testimone della leadership internazionale aggiungendovi una nuova dimensione: la diffusione della libertà e della democrazia come forze capaci di realizzare giusta e duratura pace”. La visione del mondo americana ha considerato le persone “intrinsecamente ragionevoli e inclinate al compromesso pacifico”; su queste basi, “la diffusione della democrazia e il libero mercato sono diventati l’obiettivo primario per l’ordine internazionale”. Per sessant’anni questa visione ha funzionato: la diffusione della democrazia e di una “governance partecipativa sono diventate aspirazioni condivise se non realtà universali”.
Ora tutto questo sta saltando. Innanzitutto qui da noi. Kissinger non attacca direttamente il progetto europeo, ma afferma chiaramente che l’Europa ha deciso di superare gli stati nazionali senza creare in sé gli “attributi della statualità” generando un “vuoto di autorità all’interno e uno squilibrio di potere lungo i suoi confini”; insomma, un fallimento causato dai progettisti da officina di questa Europa di tecnocrati.
Nello stesso tempo, parti del Medio Oriente si sono dissolte in divisioni etniche e confessionali in conflitto tra loro che “violano confini e sovranità producendo Stati falliti che non controllano il proprio territorio”.
Il rischio futuro non sarà tanto una grande guerra tra Stati (tipo guerra mondiale), quanto un’evoluzione in “sfere d’influenza” composte da diverse nazioni e forme di governo “ai cui margini ciascuna sfera sarebbe tentata di testare la sua forza contro altri soggetti ritenuti illegittimi; una lotta tra regioni potrebbe essere ancora più debilitante della lotta tra nazioni”.
La soluzione per Kissinger è provare a costruire un nuovo “ordine mondiale di Stati che affermino dignità individuale e governance partecipativa, e collaborino a livello internazionale secondo regole concordate”.
Kissinger non parla più di democrazia. I valori universali non risiedono in una forma specifica di governo da imporre a tutti i costi. La sfida per l’America starà nel vincere la contraddizione tra “la celebrazione di principi universali e il riconoscimento della realtà delle diverse storie, culture e della visione di sicurezza di altre regioni”. Insomma Kissinger sembra dire che la democrazia non si esporta più. Se fosse così, un nuovo ordine globale non dovrebbe più fondarsi su un umanitarismo universalista, ma sul ritorno ad un sano realismo conservatore che tenga conto che culture, tradizioni e identità non sono accidenti della storia ma il fondamento di ogni costruzione umana.

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