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2 set 2014

Kissinger e lo Stato nazione
di Aurelio Musi

Le anticipazioni offerte dal “Corriere” e da altri organi di stampa del libro di Henry Kissinger, “World Order”, di prossima pubblicazione, consentono non solo di riflettere attentamente sugli attuali scenari mondiali “fuori dall’ordine”, per riprendere un’espressione di Krugman, ma anche di rivedere e ridiscutere alcuni stereotipi che circolano sia nel senso comune sia – e la cosa è un po’ più grave – tra studiosi di scienze storiche, politiche e sociali.
Assai schematicamente richiamo i principali argomenti proposti da Kissinger. Egli scrive che fino alla seconda guerra mondiale l’ordine politico internazionale è stato garantito dall’equilibrio del potere e da leader illuminati. Nel secondo dopoguerra e per sessant’anni gli Usa hanno detenuto la leadership internazionale, ispirata a due principi: una “governance partecipativa” e l’affermazione della democrazia anche attraverso la sua esportazione. L’Europa ha deciso di superare gli Stati nazionali ma senza preoccuparsi di creare nel suo organismo “gli attributi della statualità”. Conseguenze: un vuoto d’autorità all’interno e uno squilibrio di poteri ai confini.
All’origine dei molteplici problemi che gravano oggi in Medio Oriente sono quelli che Kissinger chiama “Stati falliti”, cioè organizzazioni politiche nate e sviluppatesi frettolosamente e caratterizzate da un forte squilibrio tra componenti artificiali della statualità e aggregazioni nazionali prive di autocoscienza unitaria e tenute insieme non da un’equilibrata costruzione di Nation-building, ma da altri elementi assai fragili e in continua potenziale destabilizzazione.
Il rischio futuro, intravisto da Kissinger, non è quello di una grande guerra mondiale, ma la formazione di sfere di influenza non più caratterizzate, come nella tradizione storica, dal conflitto fra nazioni, ma da conflitti regionali.
Come se ne esce? Secondo il grande vecchio della politica americana, con un ordine mondiale di Stati, con una “governance partecipativa”, con regole controllate nelle relazioni internazionali.
Tre sono i punti del ragionamento di Kissinger su cui vorrei invitare a riflettere.
1) Nonostante la retorica di molti maitres a penser i quali ritengono ormai superata, obsoleta, se non morta e sepolta la forma Stato-nazione, quasi un reperto archeologico ottocentesco sostituito oramai da organismi sovra e multinazionali, pare che non sia ancora nata una nuova organizzazione politica in grado di sostituire lo Stato-nazione. Naturalmente solo chi si inventa idoli polemici fittizi può ritenere che lo Stato-nazione sia una forma statica. Esso è invece un prodotto che, come tutti i soggetti storici, è in divenire continuo, conserva caratteri permanenti e si trasforma: e nelle capacità di trasformazione rivela tutta la sua vitalità.
2) Lo Stato-nazione è un prodotto della modernità perché, oltre ad essere una costruzione storica nata e sviluppatasi nella prima età moderna e successivamente perfezionatasi fino a diventare, insieme con l’impero, la forma più importante di organizzazione politica interna e internazionale, continua a costituire un modello persino per chi combatte il mondo occidentale e vuole sostituire lo “scontro di civiltà” ad altre forme di conflitto. Si prenda ad esempio l’ISIS: certo esso guarda come obiettivo al predominio dell’Islam nel mondo, ma è singolare che usi l’espressione Stato islamico. Un apparente ossimoro? Se considerato in profondità, la dice lunga sulla capacità di attrazione che ancora conserva il modello dello Stato, dato da molti per morto. E’ singolare, insomma, il fatto che lo Stato, morto in Occidente, risorga in Oriente!
3) Kissinger parla di una prospettiva di “ordine mondiale”: ma quest’ordine – egli sostiene giustamente – deve continuare a passare comunque per gli Stati. E qui si aprono spazi notevoli per la ridefinizione del ruolo dell’Europa, culla dello Stato moderno e di tutti i valori ad esso collegati. Può dire molto – solo se lo vuole – l’Europa su quella “governance partecipativa” a cui fa riferimento Kissinger.
Certo bisogna dimostrare molta flessibilità nella proposta politica di “governance partecipativa”. Essere aperti a soluzioni concordate e partecipate, che devono necessariamente prevedere la disponibilità al compromesso per evitare o bloccare conflitti all’origine. Significa concordare e concretamente realizzare federazioni di Stati, come ad esempio, seguendo la proposta di Marek Halter, la soluzione in tre Stati in Irak (curdo, sciita e sunnita); o una pluralità di Stati in contesti difficili, come “due popoli due Stati” per Israele e Palestina.
I problemi sono tanti: regole e confini controllati; le autorità legittimate a definirli. Ma intanto partiamo dal presupposto che gli Stati-nazione o come altro vogliamo chiamarli sono ancora vivi.

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