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2 marzo 2014

Dopo il flop in Siria Obama debole con Putin
di Roberto Festa

John McCain: “Ogni minuto di inazione è un segnale mandato a Mosca perché possa essere ancora più aggressiva”

C’è una tesi che in queste ore gira in molti circoli conservatori di Washington. Quella secondo cui Barack Obama sta pagando nella crisi ucraina gli errori compiuti in Siria. Allora, ragionano molti repubblicani e conservatori, Obama non intervenne militarmente contro Bashar al-Assad, lasciandosi convincere dalla Russia di Vladimir Putin a perseguire l’opzione diplomatica. Mancando dell’energia per rafforzare la “red line” contro i massacri di civili a Damasco, Obama non ha oggi l’autorità morale per chiedere alla Russia di fermarsi ai confini ucrainiAnzi, dopo aver giocato il ruolo di “grande mediatore” in Siria, Putin sentirebbe di aver mano completamente libera contro Kiev.

Di questa tesi si sono fatti portatori negli ultimi giorni politici repubblicani di primo piano come i senatori John McCain e Bob Corker. Se Obama ha messo in guardia la Russia dai rischi di “isolamento politico ed economico”, in caso di intervento in Ucraina, molti repubblicani sono andati ben più in là. Proprio John McCain, candidato presidenziale nel 2008 e con un consistente background di esperienze e conoscenze in politica estera maturate durante una vita al Senato, ha chiesto che Obama non si fermi a vaghe minacce, ma articoli immediatamente le sanzioni e le applichi.

“Ogni minuto di inazione – ha detto McCain – è un segnale mandato a Putin perché possa essere ancora più aggressivo”. Sulla stessa linea anche il collega Corker, che pretende sanzioni immediate e un altro senatore, Marco Rubio, che vuole che John Kerry e Chuck Hagel – rispettivamente segretario di Stato e segretario alla Difesa – volino a Kiev, oltre a chiedere di far entrare la Georgia nella Nato e di bandire tutti i funzionari russi dall’entrata negli States. Avranno effetto le richieste di “mano più dura” nei confronti di Mosca? Improbabile. Nessun politico americano ha infatti il sia pur vago desiderio di evocare la possibilità di un intervento militare a difesa delle forze di Kiev, in sintonia con un’opinione pubblica orientata negativamente verso le azioni militari all’estero.

Un sondaggio New York Times/CBS del 9 settembre scorso mostra che il 62% degli americani non ritiene che gli Stati Uniti debbano svolgere un ruolo di leadership nel mondo o cercare di risolvere i conflitti internazionali. Nel 2003, la maggioranza dell’opinione pubblica – 48 contro 43 – era a favore del ruolo-guida americano. Segno che i disastri delle guerre in Afghanistan e Iraq non sono passati invano; e che quindi, oltre a qualche possibile sanzione nei confronti della Russia, gli Stati Uniti non andranno molto più in là. Un dato interessante da rilevare è comunque questo. Gran parte dei gruppi e lobbies che negli ultimi mesi hanno cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica americane sulla sorte dell’Ucraina hanno legami profondi con le organizzazioni della destra radicale e xenofoba ucraina. A organizzare le proteste anti-Ianukovich in molte città americane, soprattutto Chicago, è stato l’“Ukrainian Congress Committee of America” (UCCA), un gruppo che è diretta emanazione della vecchia e neo-fascista “Organization of Ukrainian Nationalists”.

L’UCCA, basato ovviamente negli Stati Uniti, mantiene legami molto stretti con il partito ultra-nazionalista ucraino Svoboda, all’avanguardia della rivolta contro Ianukovich e il cui leader, Oleh Tyahnybok, ha chiesto la liberazione del suo Paese dalla “mafia moscovita-giudaica”. Sempre Tyahnybok, nel 2010, ha definito il boia nazista John Demjanjuk “un eroe che si batte per la verità” e intrattiene rapporti molto stretti con i gruppi neo-nazi ucraini (tra questi, Right Sector, che ha sovrinteso all’organizzazione di molte delle proteste di piazza Maidan). Proprio Tyahnybok è stato visto accanto al senatore americano John McCain, quando questi lo scorso dicembre ha portato la sua solidarietà agli occupanti di piazza Maidan. Tyahnybok gode peraltro di un filo diretto con il Dipartimento di Stato Usa, attraverso Victoria Nuland, la principale assistente di Kerry.

La Nuland ha incontrato a febbraio Tyahnybok e in una telefonata intercettata con l’ambasciatore Usa a Kiev ha espresso il suo desiderio che Tyahnybok si tenga per il momento “fuori dai giochi” ma che si consulti con il nuovo primo ministro ucraino sostenuto dagli Stati Uniti, Arseniy Yatsenyuk, “almeno quattro volte a settimana”. I legami delle amministrazioni americane con l’ultradestra ucraina, in funzione antirussa e antisovietica, erano da tempo noti. Ronald Reagan, per esempio, accolse personalmente alla Casa Bianca nel 1983 Yaroslav Stetsko, l’ucraino che sovrintese al massacro di 7.000 ebrei a Lvov, definendo “il suo sogno il nostro sogno”. E Lev Dobriansky, a capo dell’UCCA, divenne ambasciatore Usa alle Bahamas. Quei legami e quell’intreccio di interessi e solidarietà tra estrema destra ucraina e Stati Uniti, tipici degli anni della “guerra fredda”, sembrano tornare d’attualità oggi, in un periodo contraddistinto da un nuovo “raffreddamento” dei rapporti tra Mosca e Washington.

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