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19/06/2014

Nel nome della “Copa”, della sicurezza e della vita
di Laura Petracchi

Nelle favelas di Rio, laboratori per il controllo delle città brasiliane, tra pregiudizi e sicurezza

Il 30 marzo 2014 l'immenso complesso di favelas Maré, popolato da circa 150 mila persone, è stato occupato dall'esercito Brasiliano. Un soldato ogni 50 abitanti circa. Il 31 marzo del 2014 il Brasile intero ricordava il golpe militare del 1964 che ha dato inizio a 20 anni di una sanguinaria dittatura che, non si sa come e perché, continua ad essere troppo poco raccontata all'estero.

Il complesso di favelas Maré è composto da quindici comunità ed è localizzato in un punto estremamente strategico della città di Rio de Janeiro. L'enorme agglomerato di case e di vicoli di questa enorme favela è tagliato da due delle arterie principali della città, l'Avenida Brasil e la Linha Amarela. Non c'è modo di evitare di passare dalla Maré se si arriva a Rio in aeroporto e ci si vuole dirigere verso i gioielli che ospita la cidade maravilhosa. Per la sicurezza di viaggianti e visitatori non c'è niente di meglio dell'esercito, di qualche carro armato e di molte armi, devono aver pensato il sindaco della città e il governatore dello Stato di Rio. Non sia mai che qualche bella bambina della favela, tutta profumata e ben pettinata decida, all'uscita da scuola o da un corso di balletto, di impugnare una doze (un modello di fucile), lanciarsi nell'inferno di traffico dell'Avenida Brasil e sparare a qualche sventurato forestiero. Non si sa mai. È meglio perquisire i bambini mentre vanno a scuola perché nell'astuccio, invece di penne e matite, potrebbero nascondere cocaina boliviana mal tagliata. È sicuramente più prudente aprire borsette e zaini a lavoratrici e lavoratori che alle 6 del mattino si dirigono verso gli autobus stracolmi che li condurranno sul posto di lavoro.

Ogni abitante di ognuna delle circa 600 favelas della città di Rio de Janeiro è un criminale in potenza, un potenziale braccio di una delle tre fazioni di narcotraffico (Comando Vermelho, Terçeiro Comando Puro e Amigos dos Amigos) che gestiscono il commercio di droga e armi nella megalopoli delle meraviglie. È questo che chi governa Rio pensa e cerca di passare sia alla classe medio-alta-altissima che abita le zone belle e "igienizzate", sia all’estero. È questo il “complessissimo” discorso che ha fatto da motore al processo di pacificazione delle favelas, cominciato nel 2008 e ancora in atto. Se n'è parlato tanto, anche fuori dal Brasile e se ne sono dette di cotte e di crude.

Facciamo rapidamente un po’ di ordine. Il processo di pacificazione prevede l'installazione di Unità di Polizia Pacificatrice, composte da un numero variabile di componenti della Polizia Militare, la PM, adibiti a controllare 24 ore su 24 i territori di alcune favelas di Rio. Ad accompagnare il vagabondare di PM armati per le favelas, qualche progettino sociale qua e là, di durata mai superiore ai 3 mesi circa e l'entrata delle grandi imprese che gestiscono acqua, luce e energia nella città. Punto. Questo è il processo di pacificazione delle favelas di Rio. Ma, perché vi chiederete voi. Io me lo chiedo ogni giorno.

Secondo le parole di chi governa, installazione delle UPP ufficialmente, ha come «obiettivo di combattere le fazioni criminali e restituire alla popolazione pace e sicurezza» (Sergio Cabral, Governatore dello Stato di Rio de Janeiro). «Non è solo un progetto di sicurezza, è una politica dello Stato di valorizzazione della vita e generazione di speranza per il popolo carioca« (J. M. Beltrame, Segretario alla Sicurezza). E ancora «l’UPP è oggi il principale strumento che la PM ha per approssimarsi alla società (…) una polizia attuante, vicina alla comunità» (C. J. Luis Castro, Comandante Generale della Polizia Militare).

Quali sono i concetti chiave delle dichiarazioni sopra riportate? Sicurezza, politica, vita, popolo, speranza.

Secondo le parole della maggior parte delle persone che conosco e che vive in favela, l'installazione delle UPP ha ufficialmente l'obiettivo di «maltrattare e uccidere giovani neri», «perquisire la mia borsa», «entrare in casa mia durante la festa di compleanno di mia cugina senza permessi», «impedirci di fare feste», «non fare nulla», «aver confuso le gerarchie della favela», «far credere all'esterno che siamo tutti dei criminali», «truccare bene, con ombretto, mascara e rossetto, la mia favela», «l'UPP è addestrata a picchiare neri e lavoratori». (Per altre testimonianze analoghe suggerisco di prendere visione di due documenti: il documentario Dominio Publico e di questo Dossier).

Nel primo anno dall'entrata dell'UPP in una favela a Copacabana che conosco molto bene, uno dei PM che vagabondavano per i vicoli era un tale, che potremmo chiamare il Signor PM X, che si dilettava a girare sparando in aria. A caso sceglieva qualche abitante, lo faceva spogliare davanti a tutti, sparava in aria e poi lo faceva rivestire. Era il terrore di tutti, in particolare della mamme preoccupate dal fatto che potesse usare violenza contro i propri figli. Estremamente corrotto, il SignorPM X, dopo un anno di reiterate denunce viene spostato in un'altra favela, molto più grande, molto più violenta. Dopo poco più di un mese, durante un confronto armato tra polizia e narcotrafficanti il SignorPM X perde la vita ucciso proprio da un suo collega.

Il SignorPM X è sicuramente un caso limite. Cosa dire allora del caso del ballerino DG che ha fatto il giro del mondo, ucciso due mesi fa da alcuni PM dell'UPP che l'avevano scambiato per un trafficante? Cosa aggiungere al caso del "muratore Amarildo" che l'anno scorso è scomparso dopo una perquisizione in Rocinha (la più grande favela del Sud America) per opera dei PM dell'UPP? E ancora. Come commentare la demolizione di 29 favelas in nome della pulizia di aree preziose per le Olimpiadi e i mondiali?

Bisogna capire se quei concetti chiave sopra elencati sono imperativi per tutti. Sicurezza, politica, vita, popolo, speranza per chi? Perché mai un'ondata di occupazioni militari dovrebbe garantire quei sacrosanti concetti/valori/diritti a quei cittadini che, in quanto abitanti delle favelas, sono stati da decenni violati da tutti i battaglioni possibili di Polizia Militare e Civile? A cosa e a chi serve questo discorso, tradotto in pratiche e azioni, di criminalizzazione della povertà e delle aree urbane più carenti?

Il ruolo della Polizia Militare nel contesto delle favelas è sempre stato e, anche con le UPP, continua ad essere, quello di reprimere e controllare e le sue azioni sempre giustificate politicamente e mediaticamente dall’esistenza di un nemico da combattere: il narcotraffico. Purtroppo continua a non essere superfluo ribadire che le favelas sono quartieri, nella maggior parte dei casi informali, in cui vivono persone che per motivi storici, politici ed economici hanno meno possibilità, lavori meno remunerativi e sono più vulnerabili. Non sono agglomerati di baracche, ma labirinti di case nella maggior parte dei casi di mattoni e dotate di televisioni, acqua corrente, ma che continuano a soffrire le volontarie disattenzioni del governo in relazione alle spesso pessime condizioni igieniche, infrastrutturali, educative, sanitarie. Insomma a questioni veramente politiche. Il narcotraffico esiste e le UPP non hanno quasi minimamente minato il suo potere economico e quotidiano. E, lo ripeto per l’ennesima volta tentando di contrastare l’idea che sta passando anche nei media italiani in questi giorni, la stragrande maggioranza degli abitanti della favela sono lavoratrici e lavoratori onesti che mandano i figli in quelle scuole pubbliche brasiliane che gridano vendetta.

La retorica sulla guerra al narcotraffico permette al governo della città e dello Stato di Rio de Janeiro di trasformare le favelas e i suoi abitanti in spazi e soggetti eccezionali su cui esercitare e testare l’unico strumento considerato idoneo a garantire la sicurezza della Rio de Janeiro che conta, quella della classe medio-alta e dei turisti: la Polizia Militare.

Le favelas sono state trasformate in molto più che quartieri pericolosi da controllare, ordinare e isolare. Sono diventati laboratori in cui testare il preoccupatissimo processo di militarizzazione della sicurezza pubblica, della politica e della quotidianità. La città di Rio de Janeiro è stata messa sottosopra in vista dei Mondiale e delle Olimpiadi del 2016. In prima linea sempre la PM. Che si tratti di ricostruzioni o demolizioni di intere aree della città, a guidare il processo, osservarlo e “mediarlo” c’è sempre di mezzo la PM. Se c’è da sedare qualche manifestazione, beh puoi sempre contare sulla PM. In favela, sempre la PM, ha imparato a guidare sgomberi, a sedare proteste, a controllare il piacere e il dispiacere e a usare le armi. Solo che per imparare, lo sanno tutti, anche i bambini, si deve sbagliare. Ed è meglio farlo in favela.

Detto questo, per evitare il pericoloso effetto vittima, è bene precisare che le favelas di Rio e non solo, sono un esempio di forme di resistenza micro quotidiana nonché il nucleo di una moltitudine di movimenti sociali. Tra gli altri Favela nao se cala, Maes vitimas da violencia, Rede Maré, AfroReggae..

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