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Giovedì 20 Febbraio 2014

Estorsione, ricatto e ritorsione collettiva
Infoaut Palermo

I ricchi parlano una lingua, i poveri un'altra.

Pochi giorni fa si ricordava l'anniversario della nascita di Bertolt Brecht. Come da consuetudine, al tempo del consumismo intellettuale, sui social si è proceduto con la gara della citazione più significativa. Tanti sono stati i consumatori just in time del pensiero di Brecht; ma a nessuno abbiamo visto riproporre alcuni tra i versi più significativi del pensatore tedesco.

Vi sono due lingue in alto e in basso
 e due misure per misurare,
 e chi ha viso umano
 più non si riconosce.
 Ma chi è in basso, in basso è costretto
 perché chi è in alto, in alto rimanga”.

Che il diritto, le sue norme, siano un'arma in mano a chi detiene il potere, ce lo insegnava già Brecht e noi lo sappiamo molto bene. La legge consente, oggi, alla “magistratura che si sostituisce alla politica” la possibilità di qualificare il proprio lavoro come “politico” trattando ogni questione sociale come fatti relativi all'ordine pubblico. I teoremi sul “terrorismo” NoTav; i processi agli studenti romani di questi giorni; la repressione seguita alle manifestazioni del 15 ottobre 2011; sono solo alcuni esempi di questa tecnica di governo e attacco ai movimenti sociali.

La settimana scorsa due fatti hanno riproposto come centrale il ruolo della magistratura nella gestione dei conflitti, con le questure di Napoli e Roma che hanno messo in atto questo tipo di “missione”. Le operazioni con cui sono stati criminalizzati e messi agli arresti decine di attivisti dei movimenti per il diritto al''abitare romani e del movimento “precari Bros” napoletano rappresentano un avanzamento nel paradigma repressivo nel paese: anche, soltanto, l'aspetto discorsivo va considerato come elemento di sostanza volto a mutare i rapporti di forza, a costruire piani di legittimità, per l'inasprimento delle tecnologie d'attacco. A parlare, in questi casi, sono le carte dei magistrati: la riproposizione in salsa contemporanea delle “teorie del complotto”, l'utilizzo di norme di recente “adattamento” al contesto dei movimento di protesta, la ripresa di linguaggi e dispositivi giuridici da “guerra civile”, sono certamente dimostrazioni dei tentativi di parte padronale di articolare nuove forme offensive contro il dissenso. Criminalizzare i movimenti, ovviamente, ma anche banalizzarli riducendoli a comune criminalità, al più organizzata in false forme collettive che però sottenderebbero sempre a regie losche e deviate.

Del resto, il tema della neutralizzazione (discorsiva) dei conflitti esiste almeno da quando esiste la comunicazione di massa. E i media main stream, si sa, fanno un gran lavoro in questo senso.

Così, le cosiddette recenti operazioni di Roma e, soprattutto, Napoli assumono nuovi definiti contorni. Nella capitale si arrestano “scientificamente” gli attivisti dei movimenti di lotta per la casa, coloro i quali hanno saputo, in questi ultimi mesi soprattutto, riproporre nell'agenda politica il tema dell'”emergenza abitativa” come problema politico e di utilizzo/gestione dei fondi pubblici. Nella città partenopea invece ad essere colpiti sono i “figli illegittimi” di una politica cittadina fatta di assunzioni clientelari a pioggia e di promesse su promesse. In entrambi casi il problema delle procure è stato quello di riportare i fatti politici su un piano di mera gestione di ordine pubblico e di relazione con le categorie della “criminalità”.

Stiamo qui trattando, con particolare attenzione, due episodi repressivi che, ad un primo sguardo, potrebbero sembrare separati e diversi. In un'occasione si colpisce per una manifestazione (quella del 31 ottobre scorso a Roma) che questi “criminali” avrebbero fatto degenerare in scontri con la polizia. Nell'altra si accusano i precari napoletani di avere tentato di “estorcere” posti di lavoro con la forza.

Ecco però un comune elemento: il richiamo alla “violenza” che giustificherebbe gli atti repressivi è una costante che conosciamo fin troppo bene, da sempre potremmo dire. Questa “violenza” emerge, nelle strategie dei custodi dell'ordine, sempre più qualificata come “fuoriuscita” dalle classiche forme della rappresentanza politica e della concertazione tra le parti sociali. Dunque sono violenti gli attivisti del movimento di lotta per la casa solo perché hanno provato ad intervenire all'ennesimo consesso istituzionale dove si discuteva di “destinazione di risorse pubbliche”; sono violenti i precari Bros solo perché, dopo quindici anni, si autorganizzano, aldilà dei sindacati nella recriminazione di posti di lavoro. Sono così violenti da giustificare imputazioni “eccezionali” come il reato di rapina, in un caso, o da legittimare, nell'altro, “discorsi” che definiscono la protesta collettiva come “estorsione”.

Quello che i magistrati, anche volendo, non potrebbero mai fare è definire il contesto politico entro cui questi fatti maturano. Il definitivo tramonto di ogni parvenza di patto sociale; la morte della concertazione sindacale classica; la chiusura di ogni spazio di reale negoziazione o mediazione tra decisione e opposizione; l'affermazione della retorica del “le decisioni ormai sono prese altrove” mista alla scusa del “i soldi sono altrove”. Sono, queste, tutte questioni che se non caratterizzate politicamente finiscono per legittimare l'operato delle magistrature.

Poniamola così, in forma di domanda: se i sindacati non ci sono o fanno gli interessi di politici e imprenditori; se la classe dirigente ha creato per anni bacini elettorali, clientele, spargendo a pioggia posti di lavoro e finanziamenti per poi abbandonare al loro destino migliaia di persone; se i governi destinano gli scarsi fondi a disposizione per opere tendenzialmente inutili o per regalare liquidità alle banche (se non è questa estorsione di denaro pubblico fatta con la costrizione nel nome dell'austerità e dei sacrifici, non sappiamo proprio dove altro cercarla...); se, insomma, chi governa deve essere libero di fare i propri interessi senza alcun disturbo che non siano le “trame di palazzo” a cui stiamo assistendo in questi giorni (o decenni); quale spazio rimane per il dissenso, la mobilitazione, la richiesta di diritti? Dal punto di vista di politici, magistrati, PM e giornalisti “di grido”: nessuno! A meno che non si tratti di movimenti d'opinione educati a non mettere in discussione, non tanto le scelte in sé, quanto i metodi decisionali e i processi di governo e trasmissione del potere di decidere: giammai direbbero da destra a sinistra, dai parlamenti alle stanze delle questure e dei tribunali.

E dal nostro punto di vista? Resta lo spazio solo per la lamentela contro la svolta repressiva? O saremo costretti ad attestarci esclusivamente su posizioni difensive e di resistenza ad oltranza?

Su ciò che non è riconducibile al linguaggio, al discorso del potere [e della legge], molteplicità di gerghi di sovversione e rivolte, viene calato il velo di nebbia dell'informazione [e della repressione] dominante”.

La distanza nei linguaggi e nei bisogni (e recriminazioni) tra chi governa e chi è governato, nei nostri giorni si fa sempre più ampia. C'è da prenderne atto e, d'altronde, le controparti lo hanno già fatto. Quella che noi chiamiamo “determinazione” per loro è “violenza”; ciò che per noi è “legittimità” per loro è “prevaricazione”. E viceversa, ovviamente. O almeno così dovrebbe essere.

C'è da allenarsi. Lo impone lo stato delle cose presenti. Pena nel non farlo: l'annichilimento di ogni possibilità d'azione e intervento volti alla conquista di nuovi diritti che, la storia ci insegna, non vengono mai regalati ma, semmai, conquistati attraverso la lotta e il conflitto sociale. E per conquistare diritti serve sostituire alla “legalità” la “legittimità” delle richieste; alla “compatibilità” la “contrapposizzione” politica. Sappiamo di usare parole forti ma siamo anche coscienti che il nostro “non temere la repressione” deve tradursi, anche un po' provocatoriamente, nella nostra capacità di ribaltare e cambiare di segno proprio le armi delle controparti. Così, senza paura, possiamo quindi affermare che, se vogliamo riaffermare uno spazio per l'antagonismo, dobbiamo ripartire dalle definizioni che ci vengono affibbiate perché, in fondo, sono modi per esorcizzare la paura che sappiamo incutere in un momento di grande debolezza strutturale per tutto il sistema. Ci definiscono pericolosi? Rilanciamo organizzando la minaccia! Ogni richiesta finisce per impantanarsi nella rete degli interessi individuali di politici senza scrupolo? Organizziamo il ricatto politico verso una classe dirigente che deve, prima o poi, iniziare a pagare i costi della crisi e dei tagli ma che, allo stesso tempo, continua ad avere bisogno del consenso per riprodursi.

Se stiamo qui utilizzando un gergo che rischia di spaventare, del resto, è perché va preso atto che la tendenza è proprio quella. Nell'attuale crisi di rappresentanza di partiti e sindacati, le pratiche sociali hanno già “superato” trattazioni come la nostra. Le “vertenze” dei lavoratori para-pubblici al Mezzogiorno (aziende partecipate dai vari enti, municipalizzate e tutto il mondo che ruota lavorativamente attorno al “pubblico”), alcune mobilitazioni dei movimenti per il diritto all'abitare, alcune iniziative operaie, parlano già questi linguaggi. Di prospettiva o meno che sia, già in questi mesi si è diffuso un certo spirito di “ritorsione” contro una politica che aveva funto da elemento di mediazione di interessi e che, quindi, oggi è vista come responsabile del disastro sociale che passa sotto il nome di crisi. Linguaggi e iniziative che oggi sono sotto attacco repressivo e che noi dobbiamo, invece, valorizzare e connotare sempre più come base per una “vertenzialità autonoma” da cui ripartire per la costruzione di reti di contro-poteri. A meno che non ci piaccia esaltarci quando in Francia si sequestrano e “ricattano” i manager delle aziende che licenziano (che tra l'altro hanno anche meno “responsabilità sociali” dei politici) per poi cadere nella trappola retorica della criminalizzazione delle stesse identiche pratiche quando ciò avviene in Italia.

Concluderemmo con una sorta di gioco linguistico per cui ci avvarremo della definizione “da vocabolario” del termine “estorsione”.

L'estorsione, in diritto, è un reato commesso da chi, con violenza o minaccia, costringa uno o più soggetti a fare o a non fare qualche atto al fine di trarne un ingiusto profitto con altrui danno“.

Ora, procediamo, come si fa in matematica, scomponendo il problema in problemi minori per analizzare al meglio i fattori che lo compongono.

Un reato commesso da chi, con violenza o minaccia, costringa uno o più soggetti a fare o non fare qualche atto”. Proviamo a sostituire ad alcuni termini concetti politici ed episodi reali. Ipotizziamo, per esempio, che questo “chi” venga sostituito da “movimenti sociali”, che alla “violenza o minaccia” si sostituisca “manifestazione o occupazione” e che per “uno o più soggetti” stia “uno o più politici”. Il risultato sarebbe: “L'estorsione è un reato commesso dai movimenti sociali che, con manifestazioni e occupazioni, costringono uno o più politici a fare o non fare qualche atto”.

Per continuare il gioco anche nella seconda parte della definizione “ufficiale” sostituiremmo l'espressione “ingiusto profitto” con “vantaggi” (perchè no?!) lasciando intatta la parte finale.

Conclusione del gioco:

L'estorsione è un reato commesso da movimenti sociali che, con manifestazioni o occupazioni, costringono uno o più politici a fare o non fare qualche atto al fine di trarne vantaggi con altrui danno”.

Pare rivendicabile, no?!

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