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12 aprile 2014

Fratture.
di Gustavo Esteva
traduzione di Aldo Zanchetta

Dalla religiosità cattolica al sogno della ragione occidentale, dall’amministrazione di grandi aziende capitalistiche alla consapevolezza della necessità della rivoluzione, dall’interesse dello Stato a quello della gente. Un lungo cammino in compagnia di Marx, Illich, Ghandi, degli indigeni e dei contadini. I lettori più attenti di Comune-info conoscono bene Gustavo Esteva, l’intellettuale de-professionalizzato che ha fondato la Universidad de la tierra a Oaxaca, in Messico. Per una volta, gli proponiamo un testo molto anomalo, che Esteva ha scritto malvolentieri alcuni anni fa, l’appendice a una tesi che ha per oggetto le sue idee. Ne emerge il percorso affascinante di un uomo che ha fatto proprio il principio di provare ad essere il cambiamento che vuole per il mondo ma che vive una contraddizione flagrante fra le capacità di leadership e la resistenza radicale, esistenziale a ogni posizione di potere. Un grande conoscitore del pensiero e della vita del genere umano contemporaneo che spera ancora di imparare assieme agli altri che cos’è questa faccenda del vivere 

La mia formazione mi immerse in un sistema di credenze che, a distanza di tempo, sembrano ingenue e dogmatiche: la religiosità cattolica di mia madre e della sua famiglia (con elementi ispiratori di mio nonno) e l’indottrinamento cattolico dei padri maristi a scuola. Contemporaneamente, imparavo i modelli occidentalizzati di un bambino della classe media di Città del Messico.

Questo sistema di credenze cominciò a trasformarsi con l’influenza dei gesuiti – particolarmente del Padre José Sánchez Villaseñor, un filosofo interessante-, che mi introdusse al modo classico, occidentale, di razionalizzare la fede, ovvero, a usare la ragione per consolidare la fede e orientare il comportamento. Questo uso della ragione, però, mi portò a interrogare sistematicamente gli elementi stessi della fede, fino al punto in cui la ragione stessa prese il posto di Dio – lo spostò -, senza che io mi rendessi conto di ciò che succedeva. La ragione iniziò ad apparire come un referente ultimo valido in sé.

La nuova coscienza che così acquistai, tipicamente occidentale, supponeva una fiducia nella ragione tale da considerarla il fondamento oggettivo e solido del pensiero e del comportamento. Si genera l’impressione che non si possiede una credenza (nella ragione), ma che la ragione è riuscita a costituirsi come orizzonte ultimo di intelligibilità, che non è qualcosa in cui si crede, ma che è qualcosa che “si sa”, “si conosce”. Si occulta così la sua condizione come fede, che, come dice il poeta spagnolo Machado, non consiste nel vedere qualcosa o credere in qualcosa, ma in credere che si vede. Ciò che io quindi vedevo, senza credere che credevo, è che la ragione (e infine la scienza) mi davano un modo certo di vedere il mondo. Le fantasie, gli inganni, gli errori o le illusioni della ragione potevano essere mancanze mie, problemi da superare, ma non limiti propri della ragione.

Mentre procedevo in questo passaggio intellettuale e di vita, stavo acquisendo, nei miei studi universitari, la razionalità scientifico-tecnologica dell’amministrazione, fondendomi così, pienamente, nell’orizzonte occidentale predominante.

Quando si produsse la rottura, nel momento in cui scoprii che senza saperlo avevo perso la fede cattolica in cui ero stato educato, la ragione stessa, in tutta la sua freddezza e limitazione, non poté occupare in modo soddisfacente lo spazio che occupavano, insieme con la stessa credenza in Dio, tutti i rituali, le pratiche, etc. che costituivano la mia religiosità. Si produsse la sensazione di un vuoto che doveva essere colmato. Ciò che fino a quel momento sapevo della filosofia occidentale (con predominio della scolastica, dei Padri della Chiesa, san Tommaso, sant’Agostino, etc.) non era sufficiente né efficace.

Cominciai a cercare, in modo un po’ caotico, senza direzione alcuna né personale né istituzionale, un qualche sistema filosofico che mi offrisse un appoggio sufficiente. Incontrai così qualche lettura indù (come quella dello Swami Vivekanaanda), certe scuole esoteriche, alcune versioni dell’esistenzialismo, etc. Nessuna di queste ricerche risultò soddisfacente. Restava l’inquietudine. Cercavo letture di taglio filosofico che mi aiutassero e fu così che, in una libreria di libri d’occasione, incontrai “L’ideologia tedesca” di Marx ed Engels. Non conoscevo nulla del suo significato politico o sociale. Lessi questo libro come materiale filosofico. Pare che mi affascinasse e così iniziai a cercare materiali aggiuntivi su questi temi. Questo filone di ricerca si rafforzò certamente con le letture di Juan David García Bacca, il grande filosofo catalano di orientamento marxista, al quale mi aveva introdotto Alfonso Zahar, il mio insegnante di “preparatoria” che rappresentò una chiara figura paterna, sostitutiva, dopo la morte di mio padre, e che mi spinse a studiare la nuova carriera amministrativa e mi portò a lavorare al Banco de Comercio, dove propiziò la mia carriera e guidò i miei primi passi nella ricerca filosofica. “Invitación a filosofar”, un libro molto radicale di García Bacca che egli mi suggerì, illuminò questo tratto del cammino e certamente contribuì ad immergermi nella visione marxista del mondo.

Su questo aspetto, ciò che voglio sottolineare è che il pensiero marxista prese corpo nella mia testa e nel mio comportamento in modo da riempire con soddisfazione il “vuoto” che la mia prima rottura sembrava aver lasciato. Esso giunse con forza e passione, con la capacità di guidarmi e di mettermi in movimento, terminando così la mia collocazione nell’orizzonte occidentale di intelligibilità nel quale mi sarei mantenuto nelle decadi successive.

Dall’amministrazione alla rivoluzione 

Formato nella carriera amministrativa dai gesuiti, ricevetti sempre, oltre agli insegnamenti tecnici e scientifici, dei postulati morali. Si trattava di formarsi in un’idea di giustizia sociale e di integrità professionale, considerando che, dentro il quadro capitalista dominante, la nostra funzione sarebbe stata quella di rendere reali gli ideali di giustizia, “dando tutto a tutti”, “dando a ciascuno ciò che gli era dovuto”.

Come amministratori professionisti, ci saremmo occupati della giusta distribuzione dei risultati dello sforzo collettivo, somministrando buoni prodotti e servizi alla comunità, buone condizioni ai lavoratori e utili agli imprenditori. Esempio tipico, nell’ambito in cui mi ero specializzato (selezione del personale), era l’impostazione consistente nella ricerca de “l’uomo giusto nel posto giusto” (interesse dell’impresa) e de “il posto giusto per la persona” (interesse del lavoratore). Fare bene il lavoro professionale avrebbe fatto sì che  tutti sarebbero stati contenti e soddisfatti, che si sarebbero realizzati gli ideali di giustizia sociale e i postulati morali, dando per scontato che non ci sarebbe stato nulla di intrinsecamente “male” nel fatto che alcuni fossero più uguali di altri, che alcuni avrebbero ecceduto nei vantaggi ricevuti e altri avrebbero ricevuto solo piccole porzioni della torta sociale.

Mi immersi in questo mondo senza pormi ulteriori domande. Assunsi come miei gli interessi delle imprese in cui lavorai, dando per appurato, senza ulteriori considerazioni critiche, che adempivano a una funzione sociale. Era compito della mia funzione, nel campo della gestione del personale, il contribuire all’indottrinamento che produceva la lealtà di tutti i lavoratori dell’impresa: dovevano indossare questa maglia. Lottare per il bene dell’impresa significava lottare per quello proprio.

L’impatto con la realtà produsse in verità qualche sorpresa, che tardai alcuni anni ad assimilare. Presto vidi che gli interessi dei lavoratori potevano essere in contraddizione con quelli dell’impresa. Avevo solo 18 anni quando arrivai ad essere sub-gerente di una piccola impresa e trattai per la prima volta con gli operai. Lì vissi situazioni che non avevo mai avvertito nel Banco de Comercio, dove gli impiegati, i funzionari, i gerenti e i padroni sembravano confusi in un unico gruppo sociale avente un interesse comune: servire i clienti del Banco a vantaggio di quanti lavoravano in esso. Nel Banco non sembrava succedere niente che fosse sfavorevole ai lavoratori. A partire da quella piccola impresa (Modopak), e successivamente in modo più chiaro da IBM, Procter & Gamble, Cervecería Moctezuma, alle quali fornivo prestazioni di consulenza (prima lavorando con l’Instituto de Personal e dopo con la mia impresa, Relaciones Industriales), le contraddizioni cominciarono ad apparire evidenti e ad essere fonte di disagio.

Mentre procedevo con molto successo nella mia carriera professionale (fui certamente la persona della mia generazione che aveva conseguito gli avanzamenti più spettacolari nella scala professionale), ciò avveniva con crescente disagio man mano che prendevo piena coscienza dell’inganno della promessa originaria relativa alla mia professione. Stavo sperimentando attorno a me fenomeni sociali e politici che scuotevano le mie convinzioni e che le mie letture sinistreggianti, prevalentemente marxiste, contribuivano a spiegare. Nel 1958, l’anno in cui stavo terminando i miei studi e quando già ero funzionario di buon livello, si registrarono grandi mobilitazioni sindacali e popolari che terminarono con una repressione di massa. L’anno successivo i rivoluzionari cubani trionfarono. In Messico e in tutta l’America Latina si diffuse una spinta al cambiamento. La frase del Che Guevara “Il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione” divenne un comandamento per migliaia di latinoamericani.

Non riesco a ricostruire le circostanze concrete che alla fine mi spinsero ad abbandonare la mia carriera: consegnai il mio studio professionale a coloro che vi lavoravano ed entrai a lavorare in un posto secondario della Secretaría de Hacienda – solo per guadagnarmi la vita e mantenere la famiglia (avevo già una prima figlia) e prepararmi per l’azione rivoluzionaria, con amici che avevo conosciuto via via, fuori dall’ambito professionale. Amici di sinistra mi portarono a lavorare al Banco Nacional de Comercio Exterior, dove divenni l’editore di quella che sarebbe diventata la miglior rivista latinoamericana di economia. Questo impegno servì per progredire nella mia preparazione in questo settore.

Questa rottura non ebbe un “giorno di illuminazione” come la prima. Si produsse con un accumulo di esperienze e di inquietudini. Mi appariva chiaro che il proseguire nella mia professione implicava farmi complice di coloro che erano la fonte dell’ingiustizia e dello sfruttamento nella società. E mi appariva anche chiaro che era mio dovere impegnare la mia vita nella lotta sociale, con la rivoluzione, sebbene ancora non avessi idea di come potevo farlo.

Partecipando a letture e discussioni con vari amici, potei sviluppare una chiara critica del mondo sovietico – della sua versione del socialismo – ed esplorare alternative, nella cornice del pensiero “rivoluzionario”, Mao, i cubani, etc., assumendo sempre una forte passione “antimperialista”: la  lotta rivoluzionaria era necessariamente internazionale, con un nemico chiaramente identificato.

La rottura con la mia professione non rompeva in realtà con essa. Rappresentava essenzialmente il prendere partito nella lotta sociale, ciò che comportava contrappormi ai miei datori di lavoro nelle imprese private o nello Stato (che vedevamo, con piena ortodossia marxista, come il “consiglio di amministrazione” del capitale, includendo in esso le “corporazioni” operaie e contadine controllate dallo stesso Stato). Non implicava abbandonare la professione dell’amministrazione o le sue tecniche che dovevano solo essere “ripulite” dalle loro colorazioni capitaliste. Al contrario. Mi immersi più profondamente in questo lavoro, nella sua lettura marxista, che può essere la più dogmatica, la più ciecamente sottoposta ai suoi modi di percezione come espressione de “la verità”, grazie alla scienza del materialismo storico.

Dalla violenza alla vita politica 

Un giorno arrivò, nel mio ufficio al Banco de Comercio Exterior, un vecchio militante della sinistra messicana che era già passato attraverso il Partito Comunista e diversi altri gruppuscoli e che stava costituendo un nuovo “partito”, una nuova “avanguardia del proletariato”, con orientamento guerrigliero.

Quando arrivò e iniziammo a parlare, ovviamente fuori dal Banco, mi trovò ideologicamente già preparato per quello che il suo gruppo stava cucinando. La mia “convinzione rivoluzionaria” era già molto chiara. (Poco prima, con altri amici, ci eravamo programmati la follia di andare ad appoggiare  i cubani in occasione della Baia dei Porci). Avevo già elaborato, per conto mio, la critica delle versioni convenzionali del marxismo e del socialismo. Ci ritenevamo davvero un’avanguardia illuminata e io occupai subito una posizione significativa nelle riunioni, discussioni e attività del gruppo. Nel primo e unico numero della sua rivista (che doveva svolgere, secondo noi, un ruolo fondamentale nella rivoluzione), scrissi il principale articolo di analisi.

L’esperienza durò vari anni. Da una parte, mi entusiasmava il sentirmi parte di un gruppo rivoluzionario, con un avvenire di fronte; gustavo l’emozione delle nostre riunioni clandestine, il progresso dei nostri programmi teorici e politici, il clima di solidarietà e cameratismo, la dedizione dell’intera vita a una causa superiore … D’altra parte avvertivo la nostra incapacità pratica all’azione. Si applicava al nostro caso il detto che modificava quello del Che Guevara: “Il dovere di ogni rivoluzionario latinoamericano … è fare riunioni”. Ci riunivamo tutte le volte a sproloquiare. Ma tutto finiva in preparativi per un’azione che non arrivava mai. Osservavo anche il contrasto fra la nostra “azione”, imperniata sul chiacchierare -mentre continuavamo la nostra vita di classe media -, e la condizione reale dei gruppi che occasionalmente contattavamo, particolarmente i gruppi di campesinos, nei quali riscontravamo decisione, valore e organizzazione molto migliori e più forti dei nostri. Non mi appariva chiaro perché noi fossimo i “loro” dirigenti, quelli che avrebbero dovuto condurli lungo il cammino della rivoluzione, mentre era evidente che essi avevano esperienza e predisposizione per la lotta migliori e  più forti delle nostre. Si andava accumulando anche una qualche forma di malessere circa la posizione rispetto alla violenza. Davamo per scontata la sua necessità e legittimità, non nascevano dubbi morali circa l’indispensabilità e la convenienza di impiegare la violenza (non vedevamo altri modi per fare la rivoluzione, la cui necessità e legittimità ci apparivano del tutto evidenti). Ma non era soddisfacente vivere le conseguenze di questo atteggiamento, osservare in quale maniera, anche fra noi stessi, la capacità di usare la violenza si trasformava in un merito decisivo, più forte di qualunque altro argomento.

L’incidente di cui ho già riferito altrove, accaduto quando il dirigente che mi aveva reclutato nel gruppo uccise un altro dei dirigenti in un atto di rivalità, rifugiandosi in casa mia e coinvolgendo l’intero gruppo per la sua protezione, rappresentò una forma chiara di “illuminazione”: queste erano le condizioni di violenza che stavamo imponendo a noi stessi e che avremmo voluto imporre all’intera società. Non potei continuare a seguire questo percorso. Avvenne la rottura. Mantenni rispetto e “comprensione” per coloro che proseguivano su questa strada e cercavano di favorire il cambiamento rivoluzionario con l’azione guerrigliera. Però smisi di pensare che questo fosse l’unico percorso e, in ogni caso, mi fu chiaro che non era il mio. Non ero disposto a far parte di un progetto che avrebbe scatenato tutte le forme di violenza, particolarmente contro coloro alla cui causa noi volevamo dedicarci. Pur non avendo un altro cammino in vista né una posizione chiara sulla non violenza (iniziai appena in quell’epoca la mia lettura di Gandhi), decisi di esplorare un altro percorso.

In quel tempo, gli anni 60, nessuna organizzazione politica ci sembrava appropriata: tutte quelle esistenti erano state sottoposte alla nostra critica, sufficientemente valida. Quando accettai un posto importante nel governo, non lo feci con l’idea di fare la rivoluzione dal di dentro o quanto meno di promuovere cambiamenti sociali di rilievo. Mi sembrava piuttosto un rifugio lavorativo, mentre mi chiarivo interiormente. Negli anni successivi, mentre lavoravo nella Segreteria della Presidenza della Repubblica, impegnato nella programmazione della spesa pubblica, dedicai una buona parte del mio tempo libero, moltissime ore e giorni di lavoro, a leggere, studiare e scrivere quello che sarebbe stato il mio primo libro: “Economia e Alienazione”. Forse è l’unico testo mio al quale ho dedicato seriamente uno sforzo prolungato di ricerca e riflessione, chiuso nel mio appartamento, fra i libri, separando del tutto questa attività intellettuale da tutte le altre che portavo avanti. E’ un libro che ancora apprezzo e che si apre a linee di riflessione che coltivo tutt’oggi.

Mi rafforzai in una concezione del mondo e in un atteggiamento circa il cambiamento che non necessitavano di passare attraverso la violenza. Poco dopo terminato il libro, che sarebbe stato pubblicato solo dieci anni più tardi in una versione molto riassunta, mi si presentò l’occasione di lavorare in un altro dipartimento del governo, in un contesto radicalmente diverso: si trattava di fare cose, non solo di programmarle, e di farle nell’ambiente civico socialmente e politicamente impegnato, del governo di Echeverría. Si trattava in particolare di lavorare prima di tutto con i campesinos, che nella mia esperienza avevo scoperto essere fonti radicali di speranza. Mi sembrò possibile, dopo il periodo ambiguo e impegnativo alla Segreteria della Presidenza, dedicare tutta la mia passione e impegno a questi compiti. Così iniziai gli anni 70.

Dallo Stato alla gente 

Gli anni della Compañía Nacional de Subsistencias Populares (Conasupo) furono anni di attività febbrile. Mi toccò concepire e mettere in marcia programmi che coinvolsero milioni di campesinos e di emarginati urbani. Utilizzammo metodi molto avanzati ai quali contribuirono quadri molto progressisti e motivati. Si registrarono risultati molto rilevanti.

Verso il 1976, quando occupavo già una posizione di alto livello e mi trovavo vicino al nuovo presidente, avevo già alcune convinzioni precise. La prima era che la logica che interessava il governo e quella della gente non avrebbero mai potuto essere coincidenti. Sembravano toccarsi e necessitarsi mutuamente, però mi era chiaro che nel governo si avevano limiti molto stretti per l’azione richiesta dalla gente Mi sembrava anche chiaro che perfino i migliori “programmi di sviluppo”, come quelli che avevamo organizzato, risultavano nocivi  per i loro supposti beneficiari. Non capivo il perché di ciascuna delle due cose, ma mi risultavano evidenti.

Una lunga sessione con López Portillo e i suoi principali funzionari, due settimane prima che egli assumesse la carica, dissipò ogni dubbio sul percorso che avrebbe intrapreso. Annunciò chiaramente che la sua politica sarebbe stata sfavorevole ai campesinos. Cinque giorni dopo iniziai a camminare coi due primi organismi della società civile, dove da allora ho lavorato.

La decade degli anni 70 rappresentò cambiamenti sostanziali nelle mie posizioni teoriche e ideologiche. Innanzi tutto partecipai ad un intenso dibattito teorico che nel corso di quegli anni ebbe luogo in tutta l’America Latina e specialmente in Messico, intorno alla questione campesina. Il tema mi consentì di progredire in una critica radicale del marxismo, i cui problemi in questo ambito sono ben noti. Fui classificato come “campesinista”, in contrasto con diverse correnti, soprattutto di marxisti. Sebbene per molto tempo mi sentissi ancora marxista, poco a poco abbandonai il marxismo come corpo di dottrina e di orientamento politico e ideologico. Trovo ancor oggi in Marx l’analisi più lucida che conosca sul funzionamento del capitalismo e mi ispirano anche i suoi lavori di gioventù e alcuni testi della vecchiaia che mi ha fatto scoprire Teodor Shanin. Però ormai non posso accettare il complesso della sua posizione teorica e politica.

In questo processo, sempre più vicino all’attività concreta dei campesinos, potei sottoporre a critica le categorie di tutte le discipline con le quali ero stato educato o avevo appreso da autodidatta. Iniziai una critica radicale dello sviluppo. Il cambiamento fu chiaramente visibile dal nome dell’organizzazione che creammo per concertare l’azione dei molteplici organismi che avevamo costituito: nel 1979 li chiamammo “Analisi, Sviluppo e Gestione”. Credevamo che questo fosse ciò che era necessario fare per i gruppi coi quali lavoravamo. Dopo averli ascoltati e seguiti, tre anni più tardi cambiammo il nome in Autonomia, Decentramento e Gestione. Nel corso degli anni 80 la mia critica allo sviluppo si approfondì, particolarmente dopo essere entrato in contatto con gli amici di Illich e di altri pensatori o attivisti radicali di diverse parti del mondo.

Iniziai la decade del 1980 con una attività febbrile in tutti i campi, ma con una gran sensazione di vuoto simile a quella della mia adolescenza: non potevo elaborare le mie esperienze coi campesinos e i marginalizzati urbani con il retro-pensiero tecnico, le categorie, le parole (porte della percezione) che avevo impiegato fino ad allora. Il premio nazionale di Economia Politica, la presidenza del V Congresso Mondiale di Sociologia Rurale e della Società Messicana di Programmazione, la moltiplicazione e il successo dei miei libri, mi davano una crescente sicurezza nelle mie idee … e allo stesso tempo si accumulava in me una sfiducia sulla loro fondatezza.

Sospetto che la rottura principale si produsse allorché incominciai a ricordare i miei rapporti con la mia nonna materna quando ero bambino, come ho narrato in un testo che continuo a considerare molto importante per seguire la mia traiettoria: “Regenerating People’s space”, scritto nel 1986. Sono raccolti lì i nuovi problemi che mi ponevo e come cominciai a affrontarli. Il mio lavoro teorico sugli emarginati, abbastanza abbondante in quegli anni, mostra chiaramente un nuovo percorso, che si consolidò e si arricchì allorché entrai in contatto con Illich, la persona e il pensatore, nel 1983.

Sebbene la rottura fosse lì, negli anni 80, e ciò che feci e scrissi in quegli anni lo confermano, mi trovavo ancora, soprattutto sul piano delle idee, radicato nell’orizzonte dell’intelligibilità del pensiero occidentale. Solo dopo il mio coinvolgimento con gli zapatisti, a partire dal 1994, e dopo essermi installato a San Pablo Etla, potei riuscire ad allontanarmi da questo orizzonte e prospettarmi seriamente la possibilità che per me si era creato un altro qualcosa di nuovo, sebbene tuttavia fossi incapace di rendermi chiaramente conto di cosa fosse.

Nell’insieme questi ultimi 25 anni significano molte cose. Prima di tutto, l’abbandono radicale dell’idea di “avanguardia” o di “agenzia” del cambiamento sociale da parte di una persona o di un gruppo “illuminato” che conosce teoricamente o intuisce il significato del cambiamento e si dedica a condurre la gente verso di esso. Scoprii sempre più che il mio obbiettivo consisteva nell’articolare le mie esperienze e percezioni fra campesinos, indigeni e marginalizzati, restituendole come affermazione e modo di organizzare la loro azione. Quello che ho chiamato “effetto eh, già!”. Questo richiede il condividere il loro orizzonte di intelligibilità.

Da un altro lato, l’approfondimento della critica dello sviluppo condusse, per mano di Illich, alla critica radicale della società economica, ciò che comportò la rottura finale con il marxismo. Questa critica si estese a tutte le istituzioni moderne, in particolare a quelle associate con la nozione e struttura del potere politico.

Finalmente, ciò che forse potrebbe essere la cosa più importante, feci mio il principio gandhiano: “Sii tu stesso il cambiamento che vuoi per il mondo” … molto prima di averlo scoperto in lui. Lo sforzo  della coerenza fra la mia percezione e la mia prassi – un aspetto della mia storia la cui origine non conosco che però è un tratto che la caratterizza dall’inizio alla fine e determina le conseguenze di ogni “rottura”- mi sollecitarono sempre più, fin da quando cominciai a lavorare direttamente con gruppi campesinos e indigeni in organismi indipendenti, a condividere in qualche modo la loro vita, a portare nella pratica concreta e quotidiana della mia vita le idee che apprendevo da loro e che rielaboravo nei miei scritti o nelle mie azioni.

Ho vissuto per molti anni – continuo a vivere – una contraddizione flagrante fra le mie capacità di leadership e la mia resistenza radicale, esistenziale, a posizioni di potere, molto chiara fin dalla rottura del 1976. Le mie attitudini e i miei comportamenti, le mie pratiche concrete, portano continuamente all’esigere da me una azione come leader, a far sì che in qualche maniera debba assumere una funzione di “condurre gli altri”.

Nello stesso tempo, contesto radicalmente questa posizione, sia per la concezione del potere a cui essa risponde sia per le sue implicazioni pratiche. Sono convinto che nessuno deve guidare gli altri, giocare il ruolo di un dio. E’ chiaro che da questa posizione derivano in parte le mie critiche ad ogni forma di educazione, nutrite da Illich, che però toccano molti altri aspetti. La sfida consiste, in questa situazione, a continuare a condividere la mia esperienza, ciò che ho appreso fino ad oggi, plasmandola in iniziative pertinenti, senza imporla ad altri, senza abusare delle mie capacità di persuasione e di oratoria o articolazione per “guidare” gli altri lungo il cammino che ho percorso.

Come è ovvio, non rifuggo dalla mia responsabilità pratica: prendere posizioni, sostenerle, farle valere, farmi cassa di risonanza della musica che ho accolto nel mio piccolo mondo di indigeni, campesinos o emarginati o intellettuali de-professionalizzati come me. Faccio vibrare questa cassa di risonanza, cosciente che non creo la musica, e cerco di far sì che la si ascolti, però curando che ciò che passa attraverso di essa, questa voce specifica, la mia, non si confonda con me: che non mi si attribuisca, come persona, il contenuto di questa voce, questo discorso, per costruirmi come guida personalizzata. Cerco di far sì che in questa voce si veda la musica di fondo, che appaiano quelli che realmente la compongono. Che si veda da dove proviene. Affinché ciascuno prenda da essa quello che crede, quello che gli è utile.

Da qui questa figura di me stesso come “narratore nomade”: raccontare storie, come modo di condividere un’esperienza, una visione del mondo (che non è mia, di mia proprietà, di mio peculio, di mia costruzione individuale), sperando che quanti la ascoltano possano approfittare  di ciò che in esse risulti pertinente. Così da imparare assieme che cosa è questa faccenda del vivere.

Nota del traduttore 

Prima di pubblicare la traduzione di questo documento, datato 2002, ho chiesto all’autore di chiarire il significato della nota 1, ovvero di contestualizzarne la stesura. Riporto qui la risposta: “Verso la fine degli anni novanta un amico mio, chicano (nome attribuito a indigeni o meticci messicani cresciuti negli Stati Uniti, ndt), che veniva regolarmente a Oaxaca, mi disse che voleva fare la sua tesi di dottorato sulla mia biografia intellettuale. Il progetto non mi entusiasmò ma di fronte alla sua insistenza accettai che seguisse la mia attività, che mi vedesse nell’azione e che conoscesse i miei scritti. Dopo vari anni presentò la sua tesi, per la quale mi pregò di scrivere un’appendice nella quale raccontassi le fratture nelle mie idee e dei comportamenti, di cui gli avevo parlato. Preparai queste note con una certa fretta, che egli tradusse in inglese e che apparvero sulla sua tesi. Non erano state pensate per pubblicarle …… tuttavia non erano un documento personale o segreto”. (Gustavo Esteva, marzo 2014). Credo sia un documento importante per conoscere meglio il cammino intellettuale e operativo di questo autore che molti italiani hanno conosciuto meglio dopo i suoi molti incontri nell’aprile 2013 e dopo la pubblicazione di tre suoi lavori (Asterios, 2012 e 2013 – www.asterios.it). Aldo Zanchetta

Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.

Tutti gli altri articoli di Gustavo Esteva usciti su Comune-info sono qui

 Un piccolo nucleo di amici italiani di Esteva, autodenominatosi “camminar domandando”, nei mesi scorsi ha stampato il testo della conversazione tenuta da Esteva a Bologna nell’aprile 2012 (i temi in parte sono gli stessi degli incontri tenutisi nell’occasione a Lucca, in Val di Susa, Torino, Milano, Venezia, Padova, Firenze e Roma): 

Crisi sociale e alternative dal basso. Difesa del territorio, beni comuni, convivialità”. (chi vuole, può scaricarlo su www.camminardomandando.wordpress.com).

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