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May 2 2014

La profonda recessione della Democrazia
di Larry Diamond

In tutto il mondo, il progresso della libertà dipende da "Stati indecisi" che oscillano nella direzione sbagliata.

Mentre l'attenzione del mondo è tutta riversata sull’Ucraina e su quale mossa un Vladimir Putin rafforzato farà prossimamente, varie minacce di terrorismo per la democrazia, si sono intensificate su altri fronti. La storia non è nuova. Secondo Freedom House, il 2013 è l'ottavo anno consecutivo in cui più paesi sperimentano cali in materia di diritti politici e libertà civili, piuttosto che miglioramenti. Dal 2005 è cessata l’ultra decennale espansione della democrazia, stabilizzandosi a circa il 60 per cento di tutti gli stati indipendenti. E dal colpo militare in Pakistan nel 1999, il tasso dei guasti democratici ha subito un’accelerazione, con circa uno stato che si corrompe ogni cinque democrazie.

La caduta di diverse autocrazie arabe nel 2011, sembrava di buon auspicio per un progresso democratico, ma quel progresso non si èconcretizzato. Mentre la Tunisia è emersa come la prima democrazia araba in 40 anni, l'Egitto è più repressivo ora che in qualsiasi momento degli ultimi dieci anni di governo di Hosni Mubarak. Dalla fine del 2010, i paesi arabi sono più regrediti nelle libertà e nel pluralismo politico di quanto non siano avanzate.

La recessione democratica a cui stiamo assistendo è particolarmente visibile nei grandi “Stati indecisi”, i paesi non occidentali con le più grandi economie e popolazioni. Dalla fine del 1990, la democrazia è ripartita in Russia, Nigeria, Venezuela, Filippine, Pakistan, Bangladesh, Thailandia e Kenya. Le Filippine sono oggi l'unico punto luminoso nel gruppo, con un presidente democraticamente eletto Benigno Aquino, impegnata in gravi riforme della governance. La Russia è diventata non solo uno stato venale e dispoticos, neo- imperiale ma minaccia anche i suoi vicini di casa. La Nigeria è tornata a livelli tragici di cleptocrazia e frode politica, alimentando la polarizzazione degli schieramenti, il risentimento etnico, l’alienazione della cittadinanza, e un sempre più virulento movimento terrorista islamico nel nord. La presa del socialismo bolivariano ha indebolito il Venezuela, mentre la governance si sta deteriorando è esplosa la violenza, e l'opposizione si è unificata dietro uno sfidante liberale a Hugo Chávez e poi al suo successore designato. Ma sarà una vittoria di Pirro per i democratici se cade il regime chavista e crolla l’ordine sociale accanto ad esso.

Nel mese di gennaio, la democrazia in Bangladesh ha subito una grave battuta d'arresto quando il principale partito di opposizione ha boicottato le elezioni parlamentari dopo che il partito di governo ha abbandonato gli accordi neutrali per l'amministrazione elettorale, e la fiducia tra le due parti è crollatas.

Mentre Freedom House giudica che la democrazia sia ritornata in Pakistan, Kenya e Thailandia, questi governi sono così corrotti e illiberali che è difficile dire cosa siano esattamente.

In Thailandia, l'inimicizia tra le camicia gialle urbane, sostenitrici della classe media e della monarchia e i sostenitori in camicia rossa del premier populista Thaksin Shinawatra, ha paralizzato il governo virando sempre più verso la violenza. L'instabilità è un problema cronico da quando l'esercito ha estromesso Thaksin nel 2006, sospendendo a tempo indeterminato il Paese, tra una resiliente maggioranza che sostiene il partito di Thaksin e il campo delle camicie gialle che controllano le leve fondamentali dello Stato. Dal mese di novembre, più di 20 persone sono state uccise e oltre 700 sono i feriti negli scontri di strada tra le due fazioni. E il peggio deve ancora venire. Nel mese di gennaio, un’attivista in camicia rossa ha promesso: "Voglio che ci sia tanta violenza per porre fine a tutto questo .... E' tempo di ripulire il paese, per sbarazzarsi delle élite, di tutti loro."

Come in Nigeria, un nuovo intervento militare non risolverà i problemi del paese. Eppure, se le cose continuano a degenerare, i militari sono in attesa dietro le quinte.

Durante i suoi 11 anni di potere, il prepotente primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, è riuscito a neutralizzare politicamente i militari e la stampa indipendente, insieme a molti altri contrappesi nella politica e nella società. Chi sperava che una sua deriva autoritaria potesse essere rallentata da elezioni locali a fine marzo è stato gravemente deluso, il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) ha vinto con una vittoria convincente in tutti i Comuni turchi. Il discorso della vittoria di Erdogan quella notte è stato tutto fuorchè magnanimo. Ha minacciato coloro che hanno esposto la corruzione del suo governo e accusato la sua famiglia, ha assicurato ai suoi sostenitori che "noi siamo i proprietari di questo paese", ritraendo la sua vittoria come una scudisciata ottomana per tutti i suoi avversari.

Mentre Erdogan si prepara a correre per la premiership o per la presidenza, se riesce a modificare la Costituzione per aumentare i suoi poteri, alzando l’assicella, la Turchia è in grave difficoltà. I giornalisti hanno paura di raccontare la verità, e con buona ragione; vengono incarcerati in Turchia più che in qualsiasi altro paese. Le imprese hanno paura di sostenere i partiti di opposizione, i giudici temono di giudicare contro il sovrano, e l'AKP a lungo salutato in Occidente per il successo nel riconciliare Islam e democrazia ha sempre più l'aspetto di un partito egemone vecchio stile occupato ad assicurarsi il proprio dominio. Ogni giorno che passa, la Turchia assomiglia sempre più alla falsa democrazia della Malesia che a qualsiasi vera democrazia europea.

Nel frattempo, la Malesia non è riuscita a registrare la svolta democratica che molti si aspettavano nel 2013. Anche se l'opposizione, guidata da Anwar Ibrahim, ha vinto con una chiara maggioranza di voti nelle elezioni generali, brogli sfacciati e sovra rappresentazione delle roccaforti del partito al potere hanno annullato le preferenze della maggior parte dei malesi.

Ne dovremmo dare per scontata l’India, come la più grande democrazia del mondo. Nelle elezioni parlamentari che stanno rotolando in tutto il sub continente tra l'inizio di aprile e la metà di maggio, un grande spettacolo di scelta democratica e di responsabilità si sta svolgendo ancora una volta in una scala mai vista prima nella storia umana. Tutto sta accadendo senza violenza, e con impressionante abilità amministrativa. E ne risulterà ciò che la democrazia dovrebbe: punire i corrotti sfrattando dal potere i meno performanti. La probabile vittoria dell’opposizione BJP, porterà al potere un paradosso. Nei suoi 12 anni come primo ministro del Gujarat, Narendra Modi non ha espresso solo un forte sviluppo economico, ma anche uno stile di politica intollerante alle critiche ed esigente di servile obbedienza, che molti indiani liberali oggi rabbrividiscono alla prospettiva che Modi diventi Primo ministro.

Le notizie non sono tutte cative. Il 2014 è un anno critico di elezioni in molti luoghi. In Indonesia, molti democratici ripongono le loro speranze sulla dinamica riformista del sindaco di Jakarta, Joko Widodo, che è il favorito per vincere la presidenza. In Sud Africa, il danneggiamento a spirale e le prestazioni poco brillanti dell'ANC e del suo leader, il presidente Jacob Zuma, stanno generando politiche più pluraliste e terreno di coltura per l'opposizione liberale, l'Alleanza Democratica. Anche in Afghanistan sembra di essere nel bel mezzo di un processo elettorale ragionevolmente credibile e popolare che produrrà una ledersi significativamente più propositiva del presidente Hamid Karzai.

Nel lungo periodo, lo sviluppo economico, la globalizzazione e la crescita della società civile indurranno un cambiamento democratico in un certo numero di autocrazie, tra cui Cina e Vietnam e, ben prima di essi, a Singapore e in Malesia. Ma se la democrazia non può essere riformata e rilanciata negli “Stati indecisi” che sono la chiave del mondo, nel lungo periodo gli obiettivi di rinnovamento della democrazia si allontaneranno più del dovuto e il breve termine non sarà ospitale per il progresso delle libertà.


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May 2 2014

Democracy's Deepening Recession
By Larry Diamond

Around the world, the advance of freedom hinges on "swing states." And they're swinging in the wrong direction.

While the world’s attention has been riveted on Ukraine and what move an emboldened Vladimir Putin will make next, diverse threats to democracy have intensified on other fronts as well. The story is not new. According to Freedom House, 2013 was the eighth consecutive year in which more countries experienced declines in political rights or civil liberties than improvements. Since 2005, democracy has ceased its decades-long expansion, leveling off at about 60 percent of all independent states. And since the military coup in Pakistan in 1999, the rate of democratic breakdowns has accelerated, with about one in every five democracies failing.

The downfall of several Arab autocracies in 2011 seemed to augur a new burst of democratic progress, but that progress has not materialized. While Tunisia has emerged as the first Arab democracy in 40 years, Egypt is more repressive now than at any time in the last decade of Hosni Mubarak’s rule. Since the end of 2010, more Arab countries have regressed in freedom and political pluralism than have advanced.

The democratic recession we’re witnessing has been particularly visible in big “swing states”—the non-Western countries with the largest populations and economies. Since the late 1990s, democracy has broken down in Russia, Nigeria, Venezuela, the Philippines, Pakistan, Bangladesh, Thailand, and Kenya. The Philippines is the one relative bright spot in the group today, with a democratically elected president, Benigno Aquino, committed to serious governance reforms. Russia has become not just a venal and despotic state, but a neo-imperial menace to its neighbors as well. Nigeria has reverted back to tragic levels of political kleptocracy and fraud, feeding political polarization, ethnic resentment, citizen alienation, and an increasingly virulent Islamic terrorist movement in the north. The grip of “Bolivarian socialism” has weakened in Venezuela as governance has deteriorated, violence has exploded, and the opposition has unified behind a liberal challenger first to Hugo Chávez and then to his designated successor. But it will be a pyrrhic victory for democrats if the Chavista regime falls and social order collapses alongside it.

In January, democracy in Bangladesh suffered a major setback when the principal opposition party boycotted parliamentary elections after the ruling party abandoned neutral arrangements for electoral administration, and trust between the two parties collapsed. While Freedom House judges that democracy has returned to Pakistan, Kenya, and Thailand, these governments are so illiberal and corrupt that it is difficult to say what exactly they are.

In Thailand, enmity between the “yellow shirt” urban, middle-class backers of the monarchy and the “red shirt” partisans of populist former Prime Minister Thaksin Shinawatra has paralyzed the government and increasingly veered toward violence. Instability has been a chronic issue since the military ousted Thaksin in 2006, suspending the country indefinitely between resilient majority support for Thaksin’s party and the yellow-shirt camp’s continuing control of key levers of the “deep state.” Since November, more than 20 people have been killed and over 700 injured in fevered street confrontations between the two camps. And the worst may be yet to come. In January, one Red Shirt militant vowed, “I want there to be lots of violence to put an end to all this…. It’s time to clean the country, to get rid of the elite, all of them.” As in Nigeria, renewed military intervention won’t solve the country’s problems. Yet if things continue to degenerate, the military is waiting in the wings.

During his 11 years in power, Turkey’s domineering prime minister, Recep Tayyip Erdogan, has managed to politically neutralize the military and the independent press, along with many other countervailing forces in politics and society. Those who hoped his authoritarian drift might be slowed by local elections in late March were severely disappointed, as his Justice and Development Party (AKP) won a convincing victory across Turkey’s municipalities. Erdogan’s victory speech that night was anything but magnanimous. He threatened those who had exposed the mounting corruption of his government (and reportedly his own family), assured his supporters that “we are the owners of this country,” and portrayed his victory as a “full Ottoman slap” to all his opponents.

As Erdogan prepares to run either for prime minister or president (if he can amend the constitution to enhance the latter’s powers), Turkey is in deepening trouble. Journalists fear to report the truth, and with good reason; more of them are jailed in Turkey than in any other country. Businesses fear to support opposition parties, judges fear to rule against the ruler, and the AKP—long hailed in the West for its success in reconciling Islam and democracy—is increasingly looking like an old-fashioned hegemon bent on securing its dominance. With every passing day, Turkey looks more like the fake democracy of Malaysia than any real democracy in Europe. Meanwhile, Malaysia failed to record the democratic breakthrough many expected in 2013. Even though the opposition, led by Anwar Ibrahim, won a clear majority of the vote in general elections, brazen gerrymandering and over-representation of ruling-party strongholds nullified the preference of most Malaysians.

Nor should we take India, the world’s biggest democracy, for granted. In the parliamentary elections that are rolling across the sub-continent between early April and mid-May, a great pageant of democratic choice and accountability is once again unfolding on a scale never before seen in human history. It is happening largely free of violence, and with impressive administrative skill. And it will do what democracy should: Punish the corrupt, under-performing incumbents by evicting them from power. But the likely victory of the opposition BJP will bring to power a paradox. In his 12 years as chief minister of Gujarat, Narendra Modi has not only delivered vigorous economic development, but also a style of politics so intolerant of criticism, so demanding of fawning obedience, that many Indian liberals now shudder at the prospect of his becoming prime minister.

The news is not all bad. 2014 is a year of critical elections in many places. In Indonesia, many democrats are pinning their hopes on the dynamic reformist mayor of Jakarta, Joko Widodo, who is the odds-on favorite to win the presidency. In South Africa, the spiraling corruption and lackluster performance of the ANC and its leader, President Jacob Zuma, is spawning more pluralistic politics and growing support for the liberal opposition, the Democratic Alliance. Even Afghanistan seems to be in the midst of a reasonably credible and popular electoral process that will produce a significantly more purposeful president than Hamid Karzai.

In the long run, economic development, globalization, and the growth of civil society will induce democratic change in a number of autocracies, including China and Vietnam, and, well before them, Singapore and Malaysia. But if democracy cannot be reformed and revived in the world’s key swing states, the “long run” will be a lot further off than it need be—and the near term won’t be hospitable to the advance of freedom. 

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