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8 giugno 2014

Ci vediamo a Torino. Al vertice europeo sulla disoccupazione giovanile
di Alberto Zoratti

Torino, 11 luglio. Al vertice europeo sulla disoccupazione giovanile non ci saranno solo coloro i quali hanno causato e mal gestito una delle peggiori crisi della storia contemporanea, ma le migliaia di persone che in tutti questi anni sono state le cavie di ricette economiche al limite del paradossale. Politiche di austerity che hanno fatto pagare ai più quello che era responsabilità di pochi, e che hanno portato tra le altre cose la disoccupazione nell’area Ue-18 a svolazzare attorno al 12 per cento, con oltre tre milioni e trecentomila giovani che non vedono un lavoro, il 23,5 per cento del totale.

Renzi arriva a Torino, come presidente di turno del semestre europeo con un pacchetto di norme assolutamente coerenti con le logiche di mercato degli ultimi venti anni. Il Job Acts, piuttosto che risolvere normalizza la precarietà. E’ la logica della flexicurity in salsa Pd, dove l’accento è più sulla flex- di flessibilità che sulla -curity di sicurezza di un’occupazione.

Torino diventa lo spazio politico dove riaffermare le possibili alternative e la necessità di un conflitto sociale che da troppi anni, dopo le mobilitazioni di piazza Syntagma ad Atene, cede il passo alle politiche di precarizzazione. Ma Torino può essere spazio politico solo se sposa la logica del cambiamento radicale, della semina, della spinta in avanti. Tutto questo può essere possibile soltanto se fatto senza scorciatoie, se la domanda di cambiamento e di radicalità cresce e sale dai territori, dalle comunità in lotta, dagli strati sociali colpiti dalla crisi ma in un’ottica di ricomposizione sociale, uscendo dalla frammentazione.

Questo vuol dire, ad esempio, lavorare su immaginari e linguaggi. Sul fatto che la lotta politica non è guerra di piazza ma strategia del consenso. Che ogni passo fatto nella direzione della forzatura determina di necessità un ricompattamento solo di alcune aree ma con la dispersione di altre, porta all’isolamento invece che al sostegno sociale, rafforza in modo esponenziale l’ipotesi che “non ci sono alternative” alle politiche di austerità.

Non c’è più bisogno di chiamate alle armi. Che l’assalto ai palazzi romani dello scorso autunno avesse dovuto determinare il grande cambiamento, come sperava Paolo Di Vetta dalle pagine virtuali dell’Huffington Post, erano in pochi a crederlo. Non fosse altro perchè il risultato di quella partecipata mobilitazione fu un felliniano incontro con il ministro Lupi. E tutto in un processo politico e sociale invisibile ai più, che non è stato capace di dare continuità ad una mobilitazione capillare. Nonostante la crisi.

A Torino non abbiamo bisogno di estetica, ma di politica. Di ricomporre un soggetto sociale articolato capace di conflitto. C’è bisogno della consapevolezza che chi scenderà in piazza quell’11 luglio lo farà come punto di arrivo di un processo più ampio, che passa per i territori, che è capace di radicalizzarsi a partire dalle condizioni materiali delle persone e dalle esigenze di chi vive la crisi giorno dopo giorno. Che non ha bisogno di teatrini ma di risposte.

#Civediamolundici a Torino, ma consapevoli che la vera sfida non sarà la piazza sotto la Mole, ma il percorso per arrivarci. Che dovrà essere il più possibile partecipato, inclusivo, capace di accogliere le differenze dando loro una cornice comune. L’estetica dell’assalto alla diligenza non ha mai ottenuto nulla, è la presenza reale delle persone capaci di trasformare la rabbia in una forza di cambiamento che fa la differenza, e ciò può essere possibile solo mettendo in campo un cammino di lungo periodo fatto di confronto, di convergenza di soggetti diversi e di graduale ma progressiva radicalizzazione del conflitto. In poche parole: la politica.

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