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19 ottobre 2014

Saremo capaci di rispondere?
di Gustavo Esteva

Da tempo in Messico il mondo delle istituzioni e quello del crimine sono la stessa cosa. Incarnano insieme i mali di cui soffriamo. La terrificante vicenda degli studenti fatti sparire nel Guerrero  ne fornisce una nuova dimostrazione. Quel che accade è che gli Stati-nazione oggi non controllano più il monopolio della violenza. Ne sono gli imprenditori, la propiziano e la provocano. Le leggi servono solo a proteggere alcuni, i quali possono usarle, abusarne o violarle impunemente. Le istituzioni e le leggi non formano più uno spazio per la gestione del conflitto, non sono l’espressione della volontà dei cittadini ma un dispositivo di dominazione e controllo al servizio del capitale. Viviamo in uno stato d’eccezione, dove si proclama legalmente l’illegalità. Autorità illegittime usano, abusano e violano leggi ingiuste, con interessata cecità. Non possiamo chiedere ai governi di fare quello che sappiamo non faranno mai e non è nemmeno il momento della paralisi o di ricorrere alla violenza. Si tratta di ricostruire dal basso le nostre capacità autonome di governo, di creare quel mondo nuovo in cui c’è posto per molti mondi

Il momento è drammatico. E la domanda si ripete: che fare? Come reagire davanti alle proporzioni che oggi raggiunge l’orrore? La prima cosa da fare è caratterizzarlo bene: qual è la situazione che affrontiamo?

Stiamo sperimentado fango sociale e politico. Allo stesso modo in cui nel fango non si riesce a distinguere l’acqua dalla terra, in Messico non si riesce a distinguere tra il mondo delle istituzioni e quello del crimine. Sono la stessa cosa. Incarnano congiuntamente i mali che soffriamo. Se ancora restasse qualche dubbio, ad Ayotzinapa si sono aggiunte nuove prove.

Protezione? Sicurezza? Negli Stati-nazione si concede il “monopolio della violenza legittima” al governo perché protegga i cittadini. Non solo questa funzione essenziale è stata abbandonata; i nostri governi scarseggiano di legittimità e non hanno più il monopolio della violenza. Oggi si sono convertiti, come mostrano i casi di Tlatlaya  o Ayotzinapa, in imprenditori della violenza, in coloro che la provocano e la propiziano.

Stato di diritto? La sfida non è solo che la legge non si compia e che le autorità la vìolino continuamente. La legge stessa si trova in contraddizione.

Occupy Wall Street ha reso possibile dire a voce alta quello che pensiamo: i governi rappresentano solo l’1 per cento della popolazione, non il 99. Una minoranza esigua e illegittima ha dettato le leggi. Quello che stanno facendo con esse è un’altra forma di crimine.

La Costituzione (messicana, ndt) del 1917 fu una formula di compromesso, elaborata da costituenti che stavano sotto la pressione degli eserciti rivoluzionari. Si giunse così a un patto sociale figlio della Rivoluzione. Quel che si è fatto in seguito, specialmente dopo il 1992, è distruggere questo patto e la sua base costituzionale.

Da tempo Foucault ci ha fatto notare che le leggi si configurano oggi per proteggere alcuni, i quali possono usarle, abusarne o violarle impunemente. Possono controllare e punire tutti gli altri, facilitarne la spoliazione. La legge e le istituzioni si sono messe al servizio del capitale. Non formano più uno spazio per la gestione del conflitto e l’espressione della volontà dei cittadini ma un dispositivo di dominazione e controllo.

“La giustizia dev’essere cieca”, ha detto l’inaudito procuratore di giustizia di Sonora nell’imprigionare Mario Luna. Ma la benda fu messa sugli occhi della donna che simboleggia la giustizia perché non vedesse gli orrori che si commettono nello stato d’eccezione, quando si proclama legalmente l’illegalità. La giustizia esige occhi ben aperti. Siamo in uno stato d’eccezione non dichiarato, in cui autorità illegittime usano, abusano e violano leggi ingiuste, con interessata cecità.

Non è il momento della paralisi, di lasciarsi soffocare dal timore, intimiditi da parole o fatti che ci vogliono sottomettere con la paura o il cinismo. Ancor meno è tempo di ricorrere alla violenza: con l’occhio per occhio, finiremmo tutti ciechi. Possiamo avere la forza, la capacità e il coraggio di far valere il nostro numero, il numero di chi costituisce il Paese e ancora vuole ricostituirlo, ricostruirlo.

Il potere è una relazione in cui una delle parti trasferisce o attribuisce potere all’altra. Si è rotta la nostra relazione politica. Come hanno detto bene gli studenti dell’IPN, non è possibile aver fiducia in queste autorità, anche e soprattutto quando si deve negoziare con loro.

Non si tratta di nuove o vecchie rivendicazioni. Si presentano rivendicazioni quando si crede che chi sta in alto possa soddisfarle. Questi imprenditori della violenza, al servizio dell’uno per cento, non faranno quello che vogliamo noi. Possiamo e dobbiamo esigere certe cose e obbligarli a compierle. Ma per il resto, per quello che veramente importa, dobbiamo dare solide dimostrazioni della nostra forza, come abbiamo fatto nell’incontro delle resistenze o nella convenzione del 14 ottobre. Sono dimostrazioni in cui esibiamo, oltre al resto, la capacità di autocontrollo. La via da seguire è chiara: combinare nell’azione questa forza per prendere la questione nelle nostre mani.

Si tratta di incamminarci seriamente e serenamente a ricostruire il Paese. Non serve un’altra manifestazione, né un semplice ricambio di dirigenti, in modo che qualche leader o partito comandino gli apparati obsoleti dell’oppressione. Si tratta di ricostruire dal basso le nostre capacità autonome di governo e di creare progressivamente dal basso le istituzioni che riflettano il mondo nuovo che stiamo creando, quel mondo in cui c’è posto per molti mondi, il mondo in cui diamo senso e realtà alla democrazia, alla giustizia, alla libertà.

Mario Luna e Fernando Jimenez, i nostri compagni yaquis, Tlatlaya e Ayotzinapa oggi sono i nomi simbolo dell’orrore. Possono essere anche i simboli della nostra capacità di decidere insieme una risposta.

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