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ott.06, 2009

Gli Uomini sono fatti così
di Duncan

Questo testo lo devo a una ragazza speciale, Monica, che lo ha trascritto da un libro di Oriana Fallaci e me lo ha inviato dopo averlo battuto su pc, nei momenti di buca che ha avuto negli ultimi giorni. Monica è una di quelle persone capaci davvero di dare, di condividere. Capace di spezzare il pane e di versare il vino.
Queste pagine ti entrano nell’anima per non uscirne più. Se siete uomini non spaventatevi al nome della Fallaci. Se anche non l’avete mai amata, smentite la pigrizia che ci mantiene sempre nel nostro recinto e leggete lo stesso. Leggete, soprattutto se non l’avete mai amata. Leggete come solo le viscere e l’anima sanno leggere.

In mezzo al sangue, alla bestialità, alle macerie, proprio quando tutto ciò che umano dovrebbe uscirne seppellito per sempre, prorompe uno dei canti più belli che io abbia mai letto sulla dignità e la bellezza umana.

Guarda, se durante quell’estate tu mi avessi chiesto a cosa mi stava approdando l’anima, ti avrei risposto:al nulla del nulla. Il ritorno  nella “pace” mi aveva talmente deluso che non credevo più a nulla:non  mi salvavo nemmeno col dubbio. Credere negli esseri umani, battersi per loro,perché?  Vantarsi d’esser nato fra loro anziché fra gli alberi o i pesci o le  iene, perché? E non dirmi che il giudizio di un giornalista è distorto  dagli avvenimenti eccezionali,non si basa mai sulla normalità  quotidiana. Il destino del mondo dipende infatti dalla normalità o dagli avvenimenti eccezionale di cui si occupa il  giornalista? La storia la fanno i buoni che passano inosservati o i  cattivi che si distinguono pei loro crimini legalizzate dalle  bandiere? La fanno i bulldozer che costruiscon strade o i carri armati  che le distruggono? Io sostengo che la fanno i carri armati perché non  ho mai saputo di un buono che cambiò la faccia della terra. La cambiò forse Cristo? La cambiò forse Budda? Sostieni di si? Allora spiegami  il Vietnam, il Biafra, il  Medio Oriente, la Cecoslovacchia, Shiran Shiran , i contestatori borghesi. Spiegami, convincimi e mi vanterò  d’esser nata tra gli uomini anziché tra gli alberi o i pesci o le  iene.

Ma poi accadde qualcosa. Poi venne l’autunno coi Giochi Olimpici a Città del Messico, e capitai in quel massacro,un massacro peggiore  di qualsiasi massacro che avessi visto alla guerra. Perché la guerra è  una cosa dove la gente armata spara a gente armata, la guerra se ci  pensi bene ha un fondo di correttezza, tu mi ammazzi io ti ammazzo, in  un massacro invece ti ammazzano e basta, ed oltre trecento, c’è chi  dice cinquecento, ne massacrarono quella sera. Ragazze, donne incinte, bambini: la strage di Erode, Erode che rinasce sempre per eliminare  Gesù prima che diventi uomo. E dentro di me successe un tal terremoto  che la mia anima si assestò e trovai la buona risposta per Elisabetta.

La trovai e la pagai: con le tre cicatrici che ora mi porto addosso. Replicherai: cosa sono tre cicatrici? Poco, d’accordo, pochissimo, ed  annuisco se aggiungi che fanno parte del mestiere: quando vai dove sparano, il minimo che ti possa capitarti è d’essere prima o poi sparato. Però vedi, se io non ce le avessi, queste tre cicatrici, mi sentirei infinitamente più povera. Perché mi domanderei ancora a cosa serve nascere a cosa serve morire, e la morte di tutti gli uomini che ho visto morire per mano degli uomini mi sarebbe inutile,e me ne starei come una lucertola al sole, indifferente immobile intenta solo a sbadigliare sulla mia letargia. Me ne stavo così prima di assistere  alla strage di Erode,prima del mio terremoto. Sicchè fammi raccontare  che accadde quel mercoledì 2 ottobre 1968 e la risposta che ricavai.[…]

C’era questa piazza che chiamano Piazza delle tre culture perché riunisce simbolicamente le tre culture del Messico, la azteca con le rovine di una piramide azteca,la spagnola con una chiesa del 500, la moderna con i grattacieli moderni. Un immensa piazza, lo sai, con molte vie d’accesso e molte vie di fuga: non a caso gli studenti la sceglievano pei comizi contro Erode. Gli studenti, gli operai, i maestri di scuola, insomma chiunque avesse il coraggio di protestare contro erode che al Messico si chiama Partito Rivoluzionario Istituzionale e dice d’esser socialista ma non si capisce che genere di socialismo dal momento che i poveri al Messico sono fra i poveri più poveri al mondo, nelle campagne guadagnano 800 lire la settimana,e se rumoreggiano la polizia li zittisce a colpi di mitra. Gli studenti protestavano anche per quello. E poi perché non volevano che i soldati occupassero le loro università bivaccando nelle loro aule, rompendo i loro strumenti. E poi perché non volevano le Olimpiadi al Messico.

Dicevano: costano miliardi le dannate Olimpiadi,ed è vergognoso spendere i miliardi nelle Olimpiadi quando il popolo muore di fame. Gli studenti al Messico,sai, non sono come gli studenti italiani francesi inglesi americani. Non hanno la fuoriserie, non hanno le camicie di trina, specialmente al Politecnico sono figli di contadini, di operai e magari sono operai a loro volta. Ma torniamo alla piazza. Che era fatta a rettangolo. E da una parte questo rettangolo era limitato da un cavalcavia,dall’altra si concludeva una scalinata in cui i gradini scendevano verso un grande edificio che si chiamava Chihuahua. Il Chihuahua  quindi dominava tutto e da esso vedevi la chiesa spagnola con le rovine azteche a sinistra, i grattacieli a destra, il cavalcavia in fondo, e la scalinata sotto ogni piano del Chihuahua aveva un balcone lungo 10 metri e largo 5, con una balaustra alta circa un metro e un’ apertura circa tre: le misure sono indispensabili   per capire come ci spararono dall’elicottero. Ai balconi si accedeva per le scale a destra e a sinistra, oppure dagli ascensori le cui porte si aprivano sulla parete lunga; le porte degli appartamenti a privano invece sulle due pareti brevi, mi spiego? erano balconi molto comodi, ampi, contenevaano anche 50 persone e per arringare la folla eran perfetti.

I capi degli studenti sceglievano sempre quello del terzo piano. Col permesso degli inquilini piazzavano sulla balaustra i microfoni, le bandiere, e tenevano i discorsi lì. Io l’avevo già visto al comizio di quattro giorno avanti, quello per commemorare i morti di luglio e di fine settembre, un comizio che m’aveva preso alla gola sai: pioveva, era buio, e i ragazzi stavano immobili nella pioggia, nel buio, poi la pioggia era finita e qualcuno aveva acceso un fiammifero, e un altro, e un altro ancora, e un accendino, e un altro, e un altro ancora, finchè la piazza era diventata un palpitar di fiammelle, fiammelle e fiammelle dalla scalinata fino al cavalcavia, e poi chissà chi aveva avuto l’idea di arrotolare un giornale e farne una fiaccola, e allora tutti s’eran messi ad arrotolare giornali e farne fiaccole, e il comizio s’era sciolto in una gran fiaccolata,in una fila lunga di luce che si allontanava in coro: “goya, goya cachu cachu rara! Cachu rara, goya, goya universidad!”. E in un altro coro “gueu, gueu, gloria ala cachi cachi porra! Gueu pin porra! Politecnico, politecnico, gloria!”.

E io avevo chiesto ma cosa vuol dire, e loro mi avevan risposto: non vuol dire niente, sono le nostre canzoni, sono canzoni da bambini. Perché in fondo quegli studenti, quei terribili studenti che mettevano in pericolo le Olimpiadi e il prestigio del governo messicano, eran bambini. A me infatti erano piaciuti perché eran bambini con l’entusiasmo dei bambini, e ci avevo fatto amicizia. Il mio primo amico era stato Mosè che era un ferroviere iscritto al Politecnico, piccino, timido, brutto, con una camicia sfilacciata e una giacca tutta rammendi. Lo incantava il fatto che fossi stata in Vietnam e mi diceva : “miss Oriana, vietcong very brave, eh? Molto coraggiosi, eh?”. Il mio secondo amico era stato Angelo che ra uno studente di matematica e fisica, invaghito dei Beatles e di Mao, con un visuccio triste da Savonarola. E poi Maribilla che era una ragazza di 18 anni,abbastanza graziosa se non fosse stato per il labbro leporino che le sciupava la faccia, due occhietti dolci ed allegri, una gran voglia di vivere. E poi Socrate che era un giovanottone coi baffi, i lineamenti di Emiliano Zapata, l’ardore del rivoluzionario disposto al sacrificio. E infine Guevara che era un laureando in filosofia,silenzioso e duro. E avevo pensato a ciascuno di loro quando quel mercoledì mattina ero stata ad intervistare il generale Queto, capo della polizia, e costui m’aveva detto che noi giornalisti si esagera sempre “non pasa nada, querida, nada, tutte menzogne, nessuno spara sugli studenti, che tengano pure il loro comizio, gli ho dato il permesso”. Capisci, gli aveva dato il permesso e ripeteva no pasa nada, non succede nulla, e i suoi ordini erano già stati impartiti: sparare.

Il comizio era fissato per le 5 di pomeriggio. Giunsi alle 5 meno un quarto e la piazza era già piena a metà,diciamo 4000 persone, ma neanche l’ombra di un poliziotto, di un granadero. Salii sul balcone e qui trovai Socrate insieme a Guevara, Maribilla e Mosè e poi altri 5 sei ragazzi che non conoscevo. Uno studente del conservatorio, che parlava in italiano, uno con un pullover candido che mi fermai a guardare, ricordo, perché era così candido. Chiesi loro come si mettevan le cose e risposero bene:data l’assenza della polizia,potevan marciare su Casco Santo Thomas dove c’era una scuola occupata dai granaderos. E nello stesso momento ecco arrivare Angelo: ansimante, pallido. “non riuscivo a passare. L’esercito è intorno per 2- 3 km . Su carri armati, camion. Ho visto metraglie pesanti, bazooka. Marciare su casco santo thomas sarebbe un suicidio” disse.

- si dirigono verso la piazza?-chiese Guevara.

- mi pare di si

- allora bisogna impedire che si riempia la piazza- disse Guevara. E puntò l’indice verso la folla che ingrossava.

Guarda, ormai ci saranno state 8000,9000 persone. In massima parte studenti, però anche molti bambini, i bambini si divertono a

mischiarsi nei comizi, e molte donne dell’ Associazione Madri Studenti Caduti, e un gruppo di ferrovieri e un gruppo di elettricisti giunti in segno di solidarietà: coi cartelli “nos ferrocarrilleros apoyamos al movimento estudiantil” “las aulas non son cuertelas” “gobierno dos crimine y dictatura”. S’eran messi quasi ai bordi della scalinata, dignitosi,composti e Mosè li fissava con angoscia perché era stato lui a chiedere di venire.

- mi amigos, Miss Oriana,mi amigos!

-qui bisogna far qualcosa, ragazzi, avvertire

- chi parla alla folla?

- Socrate. Parla Socrate.

- va bene – disse Socrate. E si affacciò al balcone, prese il microfono. Cominciava a far buio.

- digli di restare calmi, Socrate

- va bene.

- ma annuncia lo sciopero della fame.

- va bene.

Gli tremava la bocca a Socrate, me ne ricordo benissimo e con la bocca gli tremavano i baffi.

- compagni…l’esercito ci ha circondato. Migliaia di soldati armati.

Restate calmi. Dimostrategli che la nostra vuol essere una manifestazione pacifica. Restate calmi. Compagni…non andremo al casco

santo thomas. Quando questo comizio sarà concluso, disperdetevi con calma e tornate alle vostre case..

- lo sciopero della fame, Socrate!!

- oggi vogliamo solo annunciarvi che abbiamo deciso di fare uno sciopero della fame, in segno di protesta contro le olimpiadi. Questo sciopero avrà inizio lunedì, dinanzi alla piscina olimpica, e…

E nello stesso momento l’elicottero apparve, era un elicottero verde dell’esercito,identico a quelli che prendevo sempre in Vietnam. Aveva gli sportelli aperti e le mitraglie puntate, le mitraglie identiche a quelle del Vietnam. Scendeva in cerchi concentrici, sempre più bassi, sempre più familiari, come in Vietnam, e scoppiettava un rumore sempre più forte, sempre più familiare, come in Vietnam. Non mi piace, pensai, non mi piace. E mentre pensavo così, lanciò i due bengala. Ed eran gli stessi bengala che avevo visto per mesi in Vietnam, le macabre stelle filanti che scendono lente lasciandosi dietro una striscia nera di fumo. E una stella scese verso di noi, l’altra scese verso la chiesa.

-attenti!!-esclamai- è un segnale!

Ma i ragazzi scrollaron le spalle.

- no!macchè segnale!

- i bengala si buttano per localizzare un punto su cui dirigere il fuoco!-insistei.

- tu ves las cosas como en Vietnam . Tu vedi le cose come in Vietnam!

- parla, Socrate,parla.

-Compagni!noi ci riuniremo dinanzi alla piscina olimpica e…

Ma neanche questa volta finì la frase. Perché la sua voce venne sopraffatta dal rumore dei carri armati e dei camion che avanzavano sul cavalcavia, sulle strade a destra, sulle strade a sinistra, ovunque ci fosse una strada, e dai camion i soldati saltavano gridando, coi fucili puntati, dalle autoblindo le mitraglie si piegavano in posizione di sparo,e bisognava esser ciechi per non capire che attendevano un ordine, un ordine e basta, infatti lo capirono tutti, si misero a scappare sebbene non ci fosse un posto dove scappare, la piazza era ormai una trappola, una gabbia chiusa. E impallidendo Socrate strinse forte il microfono.

- compagni, non scappate, compagni!è una provocazione, compagni calma!

Calma! Calma!

E il primo colpo partì. Ed era l’ordine atteso perché i colpi dopo partirono contemporaneamente, laggiù dal cavalcavia, e dalla chiesa, dai grattacieli, di sotto la scalinata, un cerchio di fuoco fitto,incessante, organizzato, un’imboscata. E i corpi presero a cadere, paf,paf,paf, e il primo che vidi a cadere fu il corpo di un operaio,correva tenendo alto il cartello su cui era scritto “gobieno dos crimine y dictatura” e non lasciava andare il cartello, ma poi lo lasciò andare e fece un lungo balzo in avanti, quasi una capriola, sai la capriola che fanno le lepri quando sono colpite , e restò fermo. E il secondo corpo che vidi cadere fu il corpo di una donna vestita di giallo, ma anche lei non cadde subito, prima spalancò le braccia a croce e poi cadde, piombò a faccia in avanti,con quelle braccia a croce,rigida, come un albero che si abbatte. Ma cadevano dappertutto sai, e questo l’ho detto nel racconto che feci per il giornale,  sembrava di vedere una scena di quel film russo, sai, la Corazzata  Potiomkin , quando la folla scappa lungo la scalinata e via via che  scappa è colpita, sicchè i corpi rotolano giù per la scalinata,a testain giù,e restano con la testa ciondoloni e le gambe in alto, c’era una vecchia con le calze nere che rimase esattamente così, e le calze nere si vedevano fino alle mutande, grottesca: e nel mio racconto dissi questo ma non dissi altre cose, lo sai che ero in ospedale, le ferite mi dolevano in modo acuto, mi avevano appena operato e la mia testa era confusa,e non dissi ad esempio di quel bambino. Avrà avuto 12 anni e correva coprendosi il viso quando una raffica lo raggiunse alla testa, e la testa si scoperchiò schizzando una fontana di sangue. Non dissi dell’altro bambino che stava acquatttato per terra ma quando vide questo si alzò,e si buttò addosso al primo bambino e gridò

“Uberto! Che ti hanno fatto, Ubertooo!”. E gli sparavano alla schiena e lo tagliarono in due.

Pietrificata al balcone, io guardavo senza nascondermi. In Vietnam avrei cercato rifugio da chissà quanto tempo, qui invece non pensavo neanche di abbassare la testa. Me lo impediva qualcosa che in Vietnam non avevo mai provato: lo sbalordimento, l’incredulità. Esolo aquelle grida mi scossi. Venivano giù dalle scale:”hijo de chingada! Figlio di puttana! Donde vas, hijo de chingada! Arriba, arriba!”. E mi girai, e così facendo mi accorsi che intorno a me non c’erano più nessuno dei miei amici, non c’era più Socrate, non cera più Angelo, né Mosè,né Mariblla, proprio nessuno. E pensavo che strano, se ne sono andati di nascosto e non mi hanno detto nulla, si sono messi in salvo e  mi hanno lasciato qui, forse dovrei andarmene anch’io ma dove, con l’ascensore non fo in tempo, per le scale è peggio, se mi vedono correre mi sparano prima, forse è meglio che non mi muova, pensavo così allorchè una ventina di uomini irruppero, con le rivoltelle puntate, spingendo Mosè e il tipo del conservatorio e il ragazzo col maglione candido e quello coi riccioli neri e due giornalisti tedeschi e un fotografo messicano dell’Associated Press, e un fatto mi colpì:questi uomini con le rivoltelle avevano,tutti,la camicia bianca e la mano sinistra dentro un guanto bianoco o fasciata con un fazzoletto bianco. In seguito avrei saputo che era il riconoscimento del Battaglione Olimpia, il più duro della polizia, e quel giorno il Battaglione Olimpia s’era travestito in borghese per ammazzare meglio e che la prima ad essere ammazzata da loro, era stata Mirabilla:

mentre scappava. Le scaricarono addosso tre colpi. E lei cadde esclamando “porque?” ed essi le spararono ancora una volta, nel cuore, e lei non parlò più.

-Comunista! Agitadora!

L’uro mi aggredì in piena faccia ma non compresi subito che era rivolto a me. Lo compresi quando vidi la rivoltella puntata contro di me, e la mano dal guanto bianco mi afferrò pei capelli, e mi gettò con forza nel muro dove battei la testa e rimasi per qualche secondo stordita. Contro il muro c’era anche Mosè, il tipo del conservatorio,e il ragazzo col maglione candido e quello coi riccioli neri, e gli altri. Dalla piazza saliva il rumore di raffiche sorde ma fitte,sempre più fitte, dal cielo scendeva lo scoppiettar dell’elicottero che tornava ad abbassarsi, da ovunque giungevano urli ed imprecazioni lamenti. Un colpo entrò dal balcone e andò a conficcarsi nella porta dell’ascensore, pochi centimetri sopra la testa di Mosè.

-Miss Oriana!- tremò la voce di Mosè.

Un  secondo colpo arrivò, e un terz. Veniva dai soldati laggiù o dai poliziotti che stavano dietro di noi? Gli voltavamo le spalle, non potevamo vedere.

- chi ci spara Mosè?

- i poliziotti miss Oriana.

- detenidos silencio!

-se almeno ci facessero stender per terra, Mosè.

Uno scoppio fragoroso fece tremare il Chihuahua. Una granata, un bazooka?

- detenidos a terra!

Ci lasciammo scivolare per terra,col viso sul pavimento.

- mani alzate, mani alzate!

Alzammo le braccia, dai gomiti in su. Distesi sotto il muricciolo della balaustra, nell’unico punto al riparo, gli uomini dal guanto bianco ci puntavano le rivoltelle:col dito sul grilletto. Ne avevamo uno per ciascuno e la canna della rivoltella diretta verso di me distava meno d’un metro dalla mia tempia,e fra tutte le cose che avevo visto questa era la più paradossale, la più assurda, la più bestiale. E la guerra in paragone diventava un nobile gioco, ripeto, perché alla guerra ti butti in un bunker, ti nascondi dietro qualcosa, mentre fai questo non c’è poliziotto che te lo impedisce puntandoti la rivoltella alla tempia. Alla guerra in fondo c’è scampo, qui non c’è scampo. Il muro contro cui ci avevano messo era proprio un muro di esecuzione, se ti muovevi ti ammazzavano i poliziotti,se non ti muovevi ti ammazzavano i soldati,e per molte notti io avrei sognato quell’incubo, l’incubo di uno scorpione circondato dal fuoco: e lo scorpione non può neanche tentare di buttarsi dentro iol fuoco sennò lo trafiggono

- miss Oriana, ci scusi, miss Oriana..

La voce di Mosè veniva in un sussurro impercettibile, di sotto ungiaccone di pelle che gli copriva la testa

- cosa devo scusare, Mosè?

- lei non dovrebbe esser qui tra noi, miss Oriana. Dovrebbe esser dall’altra parte, come quei due giornalisti.

I due tedeschi infatti giacevano coi poliziotti , sotto il muricciolo. E anche il fotografo dell’associated press giaceva coi poliziotti. Gli uomini dal guanto bianco li avevano trovati per le scale e condotti su, ma non li avevano arrestati perché non potevano esser scambiati loro tre , per studenti. Io a quanto pare sì, invece, ed è questo che era successo: mi avevano scambiato per Maribilla. Lo seppi dopo.

- pazienza Mosè.

- dovrebbe dirglielo, che è una giornalista, Miss Oriana. Forse la farebbero spostare sotto il muricciolo.

- è troppo tardi Mosè. Non mi crederebbero più.

- detenidos, silencio!

E allore esplose l’inferno. Esplose di nuovo Dak To e Huè e Danang e Saigon e tutti i posti dove l’uomo dimostrò di esser soltanto una bestia non un uomo,a qualsiasi razza e civiltà o cosiddetta civiltà egli appartenesse,a qualsiasi classe sociale, perché ascoltami bene, è la stessa storia degli operai che fabbricano la M 16, la pallottolina,laboriosi, compunti, attenti a scartare le pallottoline che non vengono perfette: vogliamo smetterla una buona volta di assolvere i figli del popolo e basta? Coloro che la sera del due ottobre 1968 trucidarono i figli del popolo non erano forse figli del popolo? Eseguivano gli ordini, dice.

Come gli operai della pallottolina. Anche Eichman eseguiva gli ordini.

Col loro stesso scrupolo, la loro stessa ferocia. E né lui e né quei figli del popolo dimenticarono mai di mirare dritto, di sparare in aria per esempio. Un primo obice colpì in pieno l’appartamento sopradi noi. Un secondo obice colpì il piano di sotto, una raffica di mitraglia pesante tagliò molte finestre,e ora anche l’elicottero s’era messo a sparare con la mitraglia. Le pallottole si conficcavano tutte nel muro dell’ascensore,però sempre più verso il pavimento, e mi ci volle qualche secondo per capire che l’obiettivo eravamo proprio noi del terzo piano, che dirigendo i colpi dentro l’apertura del balcone miravano proprio a noi che credevano i capi degli studenti. Lo compresero anche i poliziotti. E malgrado essi fossero in una posizione di gran privilegio perché i colpi venivano diagonalmente al muricciolo sotto cui eran nascosti, li assalì un terrore isterico e si misero a gridare, a gridare..”no tiren! No tiren!”

“battaglione olimpia!aqui battaglione olimpia!”

“la capeza, la capeza!”

“abajo, abajo!”

“ajudo! Battaglione olimpiaaaaa!”

Gridavano, gridavano, puntando le rivoltelle verso il cielo e non più verso di noi, ma i colpi cadevan lo stesso, incessanti, fitti, una raffica passò dritta fra me e il poliziotto lasciandomi sotto gli occhi una striscia di fiorellini d’acciaio e d’un tratto udii:

“ooooh!”. Come un rantolo. E girai lo sguardo e vidi il ragazzo col pullover candido che non era più candido,era tutto rosso davanti, e il ragazzo faceva il gesto di sollevarsi ma dalla bocca gli usciva una ventata di sangue, e si abbattè con la faccia nel sangue. E poi tocco a quello coi riccioli neri. La pallottola lo prese direttamente nel cuore perché s’era mosso appoggiandosi sul gomito destro, e disse:

“ma..” poi andò subito giù. Poi toccò ad una donna distesa là in fondo. Credo che fosse una donna dell’appartamento 306, era uscita di casa per veder cosa accadesse e i poliziotti non le avevan permesso di rientrare. Fu colpita ai polmoni. Poi toccò a Mosè che fu preso al collo e alle mani ma restò solo ferito. E poi toccò a me che attendevo in fondo al pozzo della mia verità, quel pozzo sempre sfiorato e mai toccato con tutte e due le mani, sempre intravisto e sempre perduto. Durò quasi mezz’ora l’attesa. Quella lunga attesa nella certezza che non ce la farai,che stai vivendo gli ultimi attimi della tua vita. Dopo mi chiesero: cosa provavi, puoi dirlo? Si, posso dirlo. Provavo una gran rassegnazione.

Ma non una rassegnazione immobile: una rassegnazione fatta di pensieri da cui nascevano altri pensieri come in un gioco di specchi, all’infinito, sicchè a forza di guardar negli specchi ritrovai ciò che avevo perduto. L’amore per gli uomini. È assurdo lo so, ritrovarlo proprio nel momento in cui gli uomini non sono più uomini ed accetti l’idea di finire. Ma questo è ciò che accadde, e puoi riderci quanto ti pare, scuoter la testa quanto ti pare, accadde veramente così,  me ne ricordo benissimo, e lo ritrovai questo amore dimenticato respinto, lo ritrovai proprio giù in fondo al pozzo, mentre pensavo dunque di morire ammazzati è così, non è giusto ed illogico, morire di vecchiaia è giusto, morire di malattia è logico, morire così è illogico, ma cosa posso farci, nulla, vorrei solo che mia madre non ne soffrisse troppo, con quel male al cuore morirebbe a sua volta, speriamo che lo sappia bene, in modo non brutale, speriamo che dica era destino, se la cavò alla guerra per trovarsi sopra quel balcone. La guerra. Mi hai dato la definizione della guerra, Francois, un gioco per divertire i generali, e anche la sua formula, piantare pezzetti di ferro nella carne dell’uomo, ma questa non è guerra e ti piantano addosso i pezzetto di ferro, riecco l’elicottero, come scoppietta abbassandosi, i vietcong dovevan sentirsi così quel giorno a DaK To, quando ci abbassavamo su loro e perdevamo i limoni, e quel giorno con l’A37, gli uomini sono pazzi. Se bevi il brodo con la forchetta dicono subito che sei pazzo e ti portano al manicomio, se massacri migliaia di persone così non dicono nulla e non ti portano in nessun manicomio, qui bisognerebbe fare qualcosa, impedirlo,chissà quante creature sono morte là sotto, ma allora hanno ragione i vietcong, è necessario battersi, anche al costo di commettere errori, di sacrificare innocenti come Ignacio Eczurra e Biech e Piggott e Laramy e Cantwell e gli altri, è il prezzo del sogno,ecco, ha sparato, però stavolta ci ha mancato, chi ha ammazzato al posto nostro, povere creature, ma come facevo a non amare gli uomini, questi uomini sempre maltrattati, sempre insultati, sempre crocefissi, ma come facevo ad ire che è tutto inutile e a cosa serve nascere a cosa serve morire? Serve ad essere uomini anziché alberi o pesci, serve a cercare il giusto perché il giusto esiste, se non esiste bisogna farlo esistere, e allora l’importante non è morire, è morire dalla parte giusta, e io muoio dalla parte giusta perdio, accanto a Mosè che è sempre stato povero e maltrattato e insultato e crocefisso, non accanto a un poliziotto col guanto bianco, un vietcong deve pensare così quando l’elicottero torna e si abbassa, guardalo torna, si abbassa, e se pregassi dio? Macchè Dio, Dio l’abbiamo inventato, Dio no che non esiste, se esiste e si occupasse di noi non permetterebbe tali macelli, non lascerebbe ammazzare il ragazzo col pullover bianco, il ragazzo coi riccioli neri, la donna dell’ appartamento 306, il bambino che invocava Uberto e Uberto, sicchè non a Dio bisogna rivolgersi ma agli uomini, e bisogna difenderli, e bisogna combattere per loro perché loro non sono inventati ed avevi ragione tu, Francois, è come dicesti tu, Francois: per essere uomo a volte bisogna morire.

Poi, d’un tratto, ebbi la netta impressione che il punto in cui mi trovavo fosse un punto sbagliato, per via della testa. E strisciando come un verme, facendo forza sui muscoli e dei fianchi, mi mossi in avanti. E il poliziotto mi vide e berciò “detenidos, no se moben!”, e di nuovo mi rivoltò la rivoltella in direzione della tempia ma non me ne importò, ormai sapevo che non la sua rivoltella dovevo temere ma l’ elicottero che passava basso con la sua mitraglia, mirando l’ apertura del balcone, e chiusi gli occhi per non vedere, mi tappai gli orecchi per non sentire, ma vidi e udii, quella raffica lunga, lunga, lunga e subito sentii un gran male, sentii tre coltelli di fuoco che mi entravano addosso, tagliando, bruciando, un coltello dietro la schiena, e due nella gamba. Cercai il coltello dietro la schiena e non lo trovai: c’era solo un gran gonfio. Lo cercai nella gamba e non lo trovai: c’era solo un gran sangue. E allora rammentai che alla guerra si dice: una buona ferita è una grossa fortuna perché è difficile esser colpiti due volte. E mi avvolse un sollievo pazzo: ora pensai, non mi ammazzano più. Ma poi rammentai che alla guerra si dice anche: puoi morire di una ferita e basta perché resti dissanguato. E cominciai a dire “sono ferita, aiutatemi per cortesia, perdo sangue”.

Ma il poliziotto con la rivoltella ripetè: “detenidos, silencio!” e puntò meglio la rivoltella e mi chetai. E restai lì con i miei tre coltelli, il dolore che andava e veniva ad  ondate, insieme a un gran sonno, a momenti mi sembrava di dormire in un letto dove mi svegliavo per uno scoppio improvviso ma subito mi riaddormentavo di nuovo, e nel sonno c’era la voce di Mosè che piangeva “Miss Oriana, oh! Miss Oriana!”. E un’altra voce che diceva:”por favor!esta mujer es grave, se muere!”. Chi era la donna che moriva? Perché moriva? E perche Mosè piangeva, per chi? Per se stesso o per me? Se mi portavano via, agguantavo Mosè e lo portavo via con me. Dovevo salvare Mosè..

Più tardi mi dissero che ero rimasta più di un’ora e mezzo lì a perdere sangue. Non so. Io ricordo solo il fotografo dell’Associated Press che scattava fotografie di nascosto, disteso per terra fra i poliziotti, e poi ricordo una mano che mi agguantava i capelli e mi trascinava via mentre cercavo di prender Mosè, ma Mosè non capiva e allora afferravo il tipo del conservatorio, e portavo via lui al posto di Mosè. E poi ricordo le scale dove c’erano tanti soldati e un soldato mi sfila l’orologio da polso, lo ruba, ridendo. E poi una camera piena di poliziotti col guanto bianco, e poi una barella distesa per terra, e poi un getto di acqua sporca che cadeva giù dal soffitto e mi rimbalzava sopra lo stomaco insieme a tracce di escrementi, puzzo di urina, perché era acqua che veniva dalle tubature rotte dei gabinetti,e qualcuno gridava ai soldati “spostatela da lì, por Dios” ma i soldati ridevano e mi lasciavano lì perché mi avevano messo lì apposta, per divertirsi. E accanto a me c’era un vecchi morto, sotto l’ascella sinistra questo vecchio stringeva un pacchettino che sembrava un pacchettino di dolci. E i morti erano ovunque, nelle posizioni più assurde, e lungo il muro c’erano gli studenti arrestati,e uno si tolse il golf e me lo gettò sul viso bagnato e gridò:”por tu cara!prteggiti la faccia!”. E un altro studente gridò ”fuerza, Oriana!”. E tutto questo con le raffiche che continuavano, le esplosioni che si facevano più violente, perché fino a mezzanotte andò avanti la strage di Erode. Durò più di 5 ore, capisci?

Quando mi caricarono sull’ambulanza eran circa le nove di sera: incominciavano allora a bombardare coi bazooka il Chihuahua. E tre granate caddero anche sul balcone del terzo piano, morì anche un poliziotto. In piazza invece ne massacrarono tanti ma tanti con le baionette: un bambino lo sgozzarono, e a una donna incinta aprirono il ventre. E detto così sembra incredibile ma se guardi le fotografie non è più incredibile, e se tu fossi stato con me all’ospedale ti saresti convinto. Quanti erano. E com’eran straziati. A una ragazza era rimasta metà faccia, e da questa metà le ciondolavan le labbra, un medico ci appoggiava i pacchi di garza che subito diventavan sangue e diceva:”che fo? La lascio morire? Io la lascio morire”. Alcuni medici avevano le lacrime agli occhi. Uno mi passò accanto e mi sussurrò “scriva tutto ciò che ha visto, lo scriva!”. Poi arrivò un funzionario del governo e voleva sapere se ero cattolica. Siccome gli risposi “Merda!” puntò il dito accusatore ed urlò “no es catolica! No escatolica” ma queste cose le ho raccontate più o meno.

Ciò che non ho raccontato è il tipo del conservatorio lo misi in salvo fino all’ospedale e lui, per ringraziarmi, mi denunciò come “comunista y agitatora”,sicchè i giornali scrissero che ero stata smascherata:sul balcone del terzo piano c’ero per sobillar gli studenti eccetera. Perché gli uomini sono fatti così. E gli italiani di Città del Messico, quasi tutti fascisti scappati col loro fascismo, dissero la stessa cosa ed aggiunsero che non ero stata ferita, nel mio vestito non c’erano buchi. Perché gli uomini sono fatti così. E insieme ai fiori, ai telegrammi di auguri, alle lettere buone,giunsero lettere che mi auguravano di restare paralizzata sulla sedia a rotelle. Perché gli uomini sono fatti così. E le olimpiadi naturalmente si fecero e neanche una delegazione si ritirò e la delegazione sovietica fu la prima a rendere omaggio al governo. Perché gli uomini sono fatti così.

E Socrate che era stato arrestato assieme a Guevara e a duemila altri parlò. E denunciò i suoi compagni, i suoi amici. Perché gli uomini sono fatti così.

E se a questo punto mi chiedi come è possibile che voglia amarli,allora, io ti rispondo perché gli altri non parlarono. E si lasciarono torturare per giorni, scariche elettriche negli orecchi e nei genitali come in Vietnam, finte fucilazioni, si lasciarono magari ammazzare ma non tradirono. Perché gli uomini sono fatti anche così. E quelli scampati si riorganizzarono e ripresero a parlare di liberta malgrado la polizia l i braccasse e ogni tanto ne acchiappasse qualcuno e lo uccidesse, come accadde a quel certo Raphael, terz’anno di filosofia, che fu trovato su un marciapiede, assassinato a colpi di baionetta, coperto di cicche che gli avevano spento addosso quando si rifiutava di denunciare i compagni. Perché gli uomini sono fatti anche così. E per quanto io sia arrabbiata con gli uomini, per quanto io li disprezzi a volte, per quanto non dimentichi mai che anche quella sera le bestie in uniforme erano uomini, io penso ciò che mi disse Nguyen Van Sam: “sono innocenti perché sono uomini”. E gli uomini allora per me sono Mosè. Scampato per miracolo all’eccidio finale sulla terrazza, Mosè era stato preso e condotto in una prigione militare dove gli avevano rubato i soldi, i documenti, le scarpe, e lo avevan picchiato per nove giorni. Al nono giorno, senza soldi, senza documenti, senza scarpe, lo avevan mandato via e per tre ore aveva camminato verso la città. Gli sanguinavano i piedi, aveva la febbre, la ferita al collo era andata in suppurazione  e non poteva muover la testa. Piangeva, piangendo fermava le automobili perché gli dessero un passaggio, e le automobili non si fermavano o chi le guidava rispondeva di no. E in quelle condizioni venne a cercarmi e mi trovò. Io giacevo nel letto stordita dal male, dalle medicine, e sognavo che qualcuno mi accarezzava una mano, dolcemente, così, aprii gli occhi e qualcuno mi accarezzava davvero una mano: era Mosè. Tutto strappato, tumefatto, sporco. Col suo visuccio di povero nato per soffrire, per esser sempre messo da parte o picchiato o sfruttato, Mosè mi accarezzava la mano e si rallegrava per me. “Miss Oriana! you alive! Tu viva!”. Come lo abbracciai. Puzzava tanto, ricordo, che ad abbracciarlo si soffocava. Ma lo abbracciai come avrei abbracciato l’umanità ritrovata e mi vergognai della preghiera in cui avevo per qualche tempo creduto.

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