Originale: PEN America
Fonte: http://zcomm.org
www.znetitaly.org
11 maggio 2014

Sull’orlo
di Noam Chomsky
traduzione di Giuseppe Volpe

Quando sento l’espressione ‘sull’orlo’ l’immagine irresistibile è quella delle proverbiali pecore risolutamente in marcia verso la scogliera.

Per la prima volta nella storia, gli essere umani sono ora prossimi a distruggere le prospettive di un’esistenza decente e gran parte della vita. Il tasso di distruzione di specie è oggi circa al livello di 65 milioni di anni fa, quando una catastrofe epocale, probabilmente un grosso asteroide, pose fine all’età dei dinosauri, aprendo la via alla proliferazione dei mammiferi. La differenza è che oggi l’asteroide siamo noi e molto probabilmente la via sarà aperta agli scarafaggi e ai batteri, una volta che avremo terminato il nostro lavoro.

I geologhi suddividono la storia del pianeta in ere di relativa stabilità. Il Pleistocene, durato diversi milioni di anni, fu seguito dall’Olocene circa 10.000 anni fa, coincidente con l’invenzione umana dell’agricoltura. Oggi molti geologhi aggiungono una nuova epoca, l’Antropocene, iniziato con la rivoluzione industriale, che ha radicalmente mutato il mondo naturale. Alla luce del ritmo del cambiamento, uno detesta pensare quando inizierà la prossima epoca, e quale sarà.

Una conseguenza dell’Antropocene è lo straordinario tasso di estinzione di specie. Un’altra è la minaccia a noi stessi. Nessuna persona istruita può fare a meno di essere consapevole che stiamo affrontando una prospettiva di grave disastro ambientale, con conseguenze che sono già percepibili e che potrebbero diventare sinistre nel giro di poche generazioni se le tendenze attuali non saranno invertite.

Non è tutto. Negli ultimi settant’anni abbiamo vissuto sotto la minaccia di una distruzione istantanea e virtualmente totale per nostra stessa mano. Quelli che hanno familiarità con la storia sconvolgente, proseguita sino a oggi, troveranno difficile contestare le conclusioni del generale Lee Butler, l’ultimo comandante del Comando Aereo Strategico, che ha la responsabilità delle armi nucleari. Egli scrive che siamo sino sopravvissuti all’era nucleare “grazie a una qualche combinazione di competenza, fortuna e intervento divino, e io sospetto che quest’ultimo abbia avuto il peso maggiore”. E’ quasi un miracolo che sinora siamo sfuggiti alla distruzione e quanto più a lungo sfideremo il destino, tanto meno sarà probabile che potremo sperare che l’intervento divino perpetui il miracolo.

Potremmo desiderare di prendere in considerazione un considerevole paradosso dell’era attuale. Ci sono alcuni che stanno dedicando seri sforzi a evitare il disastro incombente. Alla guida ci sono i segmenti più oppressi della popolazione globale, quelli considerati più arretrati e primitivi: le società indigene del mondo, dalle Prime Nazioni in Canada agli aborigeni in Australia, alle popolazioni tribali in India e a molti altri. In paesi con popolazioni indigene influenti, come la Bolivia e l’Ecuador, c’è ormai il riconoscimento legislativo dei diritti della natura. Il governo dell’Ecuador ha concretamente proposto di lasciare nel terreno, dove dovrebbero stare, le proprie risorse petrolifere se i paesi ricchi gli fornissero aiuti allo sviluppo corrispondenti a una modesta frazione di ciò che il paese sacrificherebbe non sfruttando le risorse petrolifere. I paesi ricchi si sono rifiutati.

Mentre i popoli indigeni stanno tentando di evitare il disastro, in forte contrasto la corsa verso il baratro è guidata dalle società più avanzate, istruite, ricche e privilegiate del mondo, principalmente dall’America del Nord.

C’è oggi grande esuberanza negli Stati Uniti per i “100 anni di indipendenza energetica” mentre diventiamo “l’Arabia Saudita del prossimo secolo”. Si potrebbe prendere un discorso del presidente Obama di due anni fa come un’eloquente campana a morto per la specie. Egli proclamò con orgoglio, ricevendo grandi applausi, che “Oggi, sotto il mio governo, gli Stati Uniti stanno producendo più petrolio che in qualsiasi altri periodi degli ultimi otto anni. E’ importante saperlo. Negli ultimi tre anni ho ordinato alla mia amministrazione di aprire milioni di acri alla ricerca di gas e petrolio in 23 stati diversi. Stiamo aprendo più del 75% delle nostre potenziali risorse petrolifere in alto mare. Abbiamo quadruplicato il numero dei pozzi operativi portandoli a un numero record. Abbiamo aggiunto condutture di petrolio e di gas sufficiente a fare il giro del pianeta e oltre.”

L’applauso ci dice qualcosa di importante a proposta della nostra malattia sociale e morale. Il presidente stava parlando a Cushing, Oklahoma, una ‘città petrolifera’ mentre nominava, nel salutare il suo pubblico grato, in realtà la città del petrolio, descritta come “il fulcro più notevole di scambio di petrolio greggio dell’America del Nord.” E i profitti dell’industria saranno certamente garantiti visto che “produrre più petrolio e gas qui in patria” continuerà a essere “una parte critica” della strategia energetica, come ha promesso il presidente.

Alcuni giorni fa il New York Times ha pubblicato un supplemento sull’energia, otto pagine prevalentemente di euforia per il brillante futuro degli USA, prossimi a essere il maggior produttore mondiale di combustibili fossili. Manca qualsiasi riflessione su che genere di mondo stiamo entusiasticamente creando. Si potrebbero ricordare le osservazioni di Orwell nella sua introduzione (non pubblicata) a La fattoria degli animali su come nella libera Inghilterra le idee impopolari possono essere soppresse senza l’uso della forza, non da ultimo perché l’immersione nella cultura d’élite instilla l’idea che ci sono certe cose che “non è corretto dire”, o persino pensare.

Nel calcolo morale dell’attuale prevalente capitalismo di stato, i profitti e i bonus del prossimo trimestre superano di molti in interesse il benessere dei nostri nipoti e poiché queste sono malattie istituzionali non sarà facile superarle. Mentre molto resta incerto possiamo essere sicuri, con buona certezza, che le generazioni future non perdoneranno il nostro silenzio e la nostra apatia.


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