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3 agosto 2014

I poveri? S’arrangino
di Monica Di Sisto

Sovranità alimentare e commercio internazionale non parlano la stessa lingua, e quando tenti di difendere la prima, devi per forza rinunciare a sparare cassette e derrate a casaccio per il mondo e ricominciare a parlare di regole vincolanti per tutti. E’ questa la conclusione prevedibile – almeno per chi scrive – che si deve trarre dall’ennesimo collasso annunciato dell’Organizzazione mondiale del commercio. Il 31 luglio era la data fissata con gran frastuono nella Conferenza ministeriale di Bali del dicembre scorso, come momento in cui i 160 Paesi membri avrebbero dovuto fissare nuove regole per rendere il passaggio delle merci più fluido alle frontiere (chiudendo con un accordo finale il cosiddetto negoziato sulla Trade facilitation).

Se il commercio accelera per i grandi esportatori, però, è logico che si debbano prevedere misure più efficaci per salvaguardare i mercati interni, soprattutto quando è a rischio la sicurezza alimentare, nel caso qualcosa vada storto. Era per questo – oltre che per difendere i propri interessi di grande produttore ed esportatore agricolo, che l’India aveva puntato i piedi chiedendo di approvare in quella stessa data, e non il 31 dicembre come previsto a Bali, un pacchetto di misure che le permettessero in via permanente altrettanto facilmente di pagare sussidi per produrre e stoccare cibo per i più poveri, quando in patria cominciasse a scarseggiare.

Finita l’euforia della vacanza esotica, quando i negoziatori sono tornati al quartier generale della Wto, sulle ordinarie sponde del lago di Ginevra, gli Stati Uniti insieme ai grandi esportatori – Europa compresa – hanno fatto la voce grossa, cercando di chiudere le facilitazioni al commercio senza nulla concedere nel negoziato agricolo. L’India e i Paesi più poveri schierati insieme a lei sono stati minacciati di venire indicati come i responsabili unici del mancato rilancio della Wto sbandierato a Bali e dello sprofondare dell’organizzazione nella vecchia crisi di credibilità in cui versa dai tempi del fallimento della ministeriale di Seattle, cioè da ben quindici anni.

Un esecutivo da poco del tutto rinnovato a furor di popolo non può presentarsi, però, a quella maggioranza di cittadini indigenti che l’ha appena votato ammettendo che la Wto potrebbe costringerlo a bloccare le misure che consentono loro, il più delle volte, di mettere insieme almeno un pasto al giorno. “Non siamo stati capaci di trovare una soluzione – ha ammesso sconsolato il direttore generale della Wto Roberto Azevedo, costatando l’impossibilità di piegare la resistenza indiana – abbiamo provato di tutto ma è risultato impossibile. La mia sensazione è che questo non sia l’ennesimo ritardo che possa essere ignorato o aggiustato in nuove scadenze – ha detto agli ambasciatori riuniti a Ginevra il 31 luglio – E mi sembra che le conseguenze potrebbero essere significative ”.

In effetti il ministro al commercio degli Stati Uniti Mike Froman, lo stesso portabandiera dell’Accordo di liberalizzazione transatlantico Usa-Ue (T-tip/Tafta), ha minacciato il “piccolo gruppo di Paesi” (cioè India, più Bolivia, Cuba, Zimbabwe , ma anche altri grandi esportatori come Sudafrica e Venezuela) promotore del blocco che non sarebbe sopravvissuto alla fine dell’accordo di Bali da esso provocato. Gli Stati Uniti infatti, ha continuato Froman, sarebbero andati avanti per la strada tracciata consultando bilateralmente i propri partners commerciali. Insomma: cari tutti, o accettate i nostri diktat, o ce la vedremo faccia a faccia, nella migliore tradizione negoziale degli Usa, con buona pace di quel sistema multilaterale amato a parole da tutti, ma che nei fatti bypassiamo da ogni dove.

Pieno sostegno a questa posizione è arrivato dal mondo del business: John Danilovich, segretario della Camera di commercio internazionale, ha spiegato che come imprese “non possiamo affrontare un periodo di riflessione esistenziale su quello che questo stallo comporta per il futuro della Wto”. Quindi bisogna che la politica si rimbocchi le maniche e superi la crisi. A sostegno della posizione indiana solo associazioni, sindacati e organizzazioni umanitarie. Ma è possibile? E’ pensabile che un’organizzazione che ha fallito ben 27 deadlines in più di dieci anni non tragga le conclusioni dovute da queste empasse? Possibile che gli Usa possano ancora minacciare apertamente di spostare le proprie decisioni su altri tavoli, forzando regole che essi stessi hanno contribuito a imporre, e non si prenda atto del fatto che per un Governo rispettare i diritti fondamentali dei propri cittadini non è compatibile con l’essere membro della Wto, e che è quindi la struttura stessa dello strumento “commercio internazionale” a dover essere piegata se vogliamo riuscire a garantire un futuro a tutti?

Il neoeletto governo indiano lo aveva affermato a chiare lettere: finché il suo programma di sostegno e stoccaggio pubblico per la produzione e distribuzione di cibo ai più poveri non fosse stato messo stabilmente al riparo da possibili ritorsioni commerciali, non avrebbe fatto alcuna concessione al tavolo sulle facilitazioni al commercio. D’altronde le regole attuali della Wto prevedono un limite al valore dei sussidi agricoli consentiti agli Stati membri fissato al 10 per cento del valore totale della produzione alimentare. Ed è anche vero che quella percentuale è calcolata in base al valore rilevato vent’anni fa, alla fine dell’Uruguay Round, ed è quindi decisamente inferiore al valore dei sussidi che sarebbero ammissibili per l’India rifacendo i conti oggi, visto che la produzione indiana è esplosa negli ultimi dieci anni.

La base di trattativa dell’India era questa: aggiorniamo le cifre e possiamo discutere. Ma gli Stati Uniti e l’Europa, che in questi anni hanno pagato fior fiore di consulenze legali per lasciare i propri sussidi agricoli praticamente invariati riclassificandoli con nuove formulazioni come perfettamente legali agli occhi della Wto, non hanno alcuna intenzione di perdere il vantaggio commerciale che questo sottodimensionamento indiano gli ha attribuito. Gli altri Paesi emergenti, poi, non hanno alcuna intenzione di concedere terreno a un concorrente tanto agguerrito come l’India. A livello di procedure, per di più, per il principio della reciprocità assoluta che vige tra i membri della Wto, se si apre per l’India una finestra di autodeterminazione del mercato interno agricolo, questa potrebbe rimanere aperta per tutti i Paesi, in particolare quelli in crisi in cui l’agricoltura rappresenta il motore dell’economia e della sopravvivenza. In Asia, in Africa, come anche a casa nostra, con ulteriore smacco per gli esportatori che stanno lucrando da anni sulla fame dei Paesi dipendenti dalle importazioni e dagli aiuti alimentari.

Più facile e utile, in fin dei conti, accusare l’India nazionalista e antidemocratica di aver fatto collassare il sistema multilaterale. Un sistema di facciata e profondamente ingiusto, che o ripensa se stesso o morirà di morte naturale. Ucciso dal cinismo dei grandi esportatori, del loro cupio dissolvi rispetto ad un mostro da loro creato, e da loro stessi lasciato agonizzare proprio una delle poche volte in cui poteva servire a introdurre qualche elemento di equità in un mercato completamente piegato ai loro capricci e bisogni.

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