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24 dicembre 2014

Creare un mondo nuovo
Gea Piccardi e Alessia Dro intervistano Raul Zibechi

Le grandi traformazioni delle politiche sociali. Come rendere invisibile la ricchezza accendendo i riflettori sulla povertà. I movimenti della riproduzione, non quella individuale o familiare ma quella collettiva e femminile. Quando lo Stato contende il territorio ai movimenti autonomi. Dalla socializzazione attorno alla fabbrica all’estrattivismo. Le generazioni senza futuro. Il marxismo eurocentico e illuminista del progresso lineare. Il periodo neocoloniale. Le trasformazioni sociali e la visione differente del pensiero indigeno. La lotta serve a difendere, è la creatività che inventa il mondo nuovo. Un mondo che si costruisce lentamente, guardando al lungo termine e in profondità e cessando di pensare con la dimensione temporale che ci viene imposta, quella di corto respiro, del giorno dopo giorno. Un confronto a tutto campo con Raúl Zibechi sulle sfide latinoamericane e planetarie al capitalismo

Scrittore, giornalista e attivista, Raúl Zibechi inizia a militare in Uruguay a 17 anni, tra il ‘69 e il ‘73 in un collettivo studentesco legato al Movimento Nazionale di Liberazione dei Tupamaros. Partecipa alla resistenza sotto la dittatura militare del ‘73. Esiliato in Spagna nel 1976 dopo il golpe militare in Argentina, dal 1986 percorre come giornalista e ricercatore militante quasi tutti i paesi dell’America Latina, specialmente della regione andina, conoscendone i movimenti sociali e collaborando a predisporre i processi organizzativi delle loro lotte politiche.

Abbiamo deciso di intervistarlo durante la nostra permanenza a Buenos Aires, città che abbiamo abitato per sei mesi e in cui abbiamo incontrato diverse lotte politiche, dall’occupazione di terre nelle villas miserias, a collettivi femministi radicati nei quartieri popolari, alle fabbriche recuperate in cui sono stati creati inediti percorsi di educazione autogestita. La scelta di collocarci in questo preciso punto di vista, quello dei processi di autorganizzazione dal basso, è una decisione politica che condividiamo con Zibechi e che risulta chiara dalla lettura dei suoi libri. La profonda analisi che ci propone delle strategie di governo economiche e politiche in paesi come l’Argentina, il Brasile, il Venezuela, la Bolivia e il Messico, tutt’altro che una pretesa di verità neutrale, super partes, oggettiva, ci restituisce la radicalità dei processi rivoluzionari che hanno attraversato questi paesi e che ne hanno messo in scacco non soltanto i poteri dominanti, ma anche le tradizionali maniere di pensare la trasformazione sociale e l’organizzazione politica.

La visione critica elaborata da Zibechi dei governi progressisti e la loro relazione con la nuova generazione di resistenze e lotte sociali sfuma quindi decisamente l’immagine a colori accesi dell’America Latina che in Europa si è dipinta. Tramite una traduzione ancora molto povera di quello che accade nei paesi latinoamericani, attraversati in questi ultimi vent’anni da grandi cambiamenti, in Europa si propone un’analisi estremamente fiduciosa per non dire trionfale delle politiche sociali dei nuovi governi (si pensi a Lula, Chavez, Morales, Kirchner), decantati come risposta innovativa e vincente alla crisi neoliberale. In questa discussione con Raul Zibechi cercheremo, invece, di apportare un contributo critico all’analisi di quelle politiche scegliendo come punto di osservazione e di ricerca quello delle organizzazioni piquetere argentine, delle lotte delle donne nei quartieri popolari metropolitani, dell’autogoverno zapatista in Chiapas, nella speranza di poter interrogare anche il nostro qui, mettendo in questione e scuotendo alla base categorie di pensiero e pratiche politiche forse non più all’altezza delle sfide del presente.

In uno dei tuoi ultimi libri, Política y miseria, sostieni che quello della governabilità sia uno dei problemi centrali dei governi latinoamericani, un problema nato a partire dalla fine degli anni ’80 nel cosiddetto “combate a la pobreza” e che prosegue tutt’oggi con l’attivazione di politiche redistributive nella forma di “Planes sociales”. Potresti ripercorrere a grandi linee la storia delle politiche sociali dei nuovi governi e il loro rapporto con le lotte dal basso degli ultimi decenni?

Le politiche sociali sono molto vecchie: esistono da quando esiste l’umanità e in principio, per esempio, se ne occupava la chiesa cattolica. Certo, si sono trasformate con il tempo e forse la novità degli ultimi cinquant’anni è che sono state sistematizzate dai Think Tank del potere, primo fra tutti, dalla Banca Mondiale. E’ a partire da questo momento che si ha una forte invisibilizzazione della ricchezza e dei ricchi (di cui invece si parlava tanto negli anni ’60) e una speculare visibilizzazione dei poveri e una localizzazione del problema proprio nella povertà. Per me si tratta di un cambiamento epistemologico importante per cui oggi gli studiosi si cimentano quasi esclusivamente nell’analizzare a fondo la femminilizzazione della povertà, le donne sole, i bambini che nascono in situazione di povertà, i quartieri poveri. Si rompe il sistema in due e gli studi si focalizzano qui disconnettendosi dal resto, eliminando i nessi di connessione e di spiegazione della povertà stessa.

Durante gli ultimi trent’anni, dopo la guerra del Vietnam, le politiche sociali contro la povertà sono cambiate. Hanno iniziato ad avere come oggetto non tanto e non più la povertà in generale e le famiglie povere, quanto piuttosto le organizzazioni sociali. La politica della Banca Mondiale, non per altro, si chiamava di “rafforzamento organizzativo” e, per quello che so, comincia in America Latina con il PRONASOL messicano (Programa Nacional de Solidaridad), il Prodepine in Ecuador (Proyecto de Desarrollo de los Pueblos Indigenas y Negros de Ecuador), e questo è quello che segue fino ad oggi. L’obiettivo di queste politiche è quello di “adattarsi” alla lotta di classe, alle lotte sociali, quello di porsi come risposta al conflitto sociale, per arginarlo e quindi scongiurarlo. In America Latina risulta sicuramente interessante e significativo studiare la maniera in cui tali politiche si concretizzano a partire dalla nascita di una nuova generazione di movimenti territoriali, urbani, distinti dalla genealogia dei movimenti sindacali o contadini tradizionali, in cui si afferma un importante ruolo delle donne, che non reclamano semplicemente allo Stato ma che si organizzano per produrre direttamente da sé, nel campo e nella città. In Argentina, per esempio, s’incontrano non solamente fabbriche recuperate ma anche altri tipi di situazioni, piccoli laboratori di produzione, orti, cucine, asili. Siamo di fronte a movimenti che Silvia Federici chiamerebbe della “riproduzione”, che non è quella individuale o famigliare, ma collettiva e soprattutto femminile, e che riguarda la riappropriazione delle pratiche riproduttive. Sono movimenti che stabiliscono nuove forme di potere, tanto reinventando le modalità di presa di decisione, quanto giocando una parte fondamentale anche nell’educazione, nella salute, nella comunicazione.

È a tutto ciò, quindi, che le politiche sociali devono dare e danno risposte. La prima è generalmente quella dell’intervento territoriale da parte dello Stato. Per questo credo che il concetto di “territorio” sia importantissimo e ne andrebbe fatta una genealogia a partire da Weber, per cui il territorio era lo Stato, sino ad ora in cui, almeno nel cosiddetto “Terzo Mondo”, ci sono due territori, quello statale e, dentro, quello dei movimenti sociali. In Europa, invece, credo che i territori siano esistiti fino alla seconda Guerra Mondiale, mentre ora sono piuttosto “spazi”, come i centri sociali, le occupazioni, e allorquando (in)sorgono nuovi territori lo Stato adotta tutta la sua capacità repressiva per ristabilire il potere. In America Latina è al contrario ancora vivissima la disputa per il territorio: qui il neoliberalismo è un nuovo momento del colonialismo. Anibal Quijano afferma, in questo senso, che si assiste a una ricostruzione del potere coloniale, degli stati e delle classi dominanti, che non possono abbandonare i territori (soprattutto le periferie urbane), ma al contrario devono intervenirvi attivamente e non solo attraverso la polizia. Per fare un esempio della “disputa” territoriale oggi in corso in America Latina, se si cammina per i quartieri di Buenos Aires, sarà facile notare che nello stesso quartiere popolare dove c’è un bachillerato popular [scuole popolari autorganizzate e nate dal basso, ndC] autogestito ce ne sarà uno accanto, statale, aperto qualche tempo dopo e che, molto probabilmente, porterà il nome di “Che Guevara”. Si tratterà sicuramente di una scuola con gli stessi codici e le stesse caratteristiche formali che nasce però dall’alto e non da una lotta sociale, che propone un altro tipo di curriculum omologato a quelli delle scuole statali, i cui professori ricevono stipendi pubblici. Altrettanto emblematico è osservare chi lavora per il Ministerio de Desarrollo Social in Argentina, che è stato diretto per tanto tempo da Alicia Kirchner, la sorella di Nestor Kirchner: la maggior parte dei funzionari e funzionarie sono militanti dei quartieri che hanno iniziato la carriera durante le lotte sociali. Persino in Bolivia, col governo di Evo Morales, il vicepresidente Alvaro Garcia Linera, che porta avanti una relazione diretta con i movimenti sociali, ha fomentato un “colpo di stato” da parte degli amici della vicepresidenza dentro la Conamac (Consejo Nacional de Ayllus y Marcas del Collasuyu), l’organizzazione indigena stessa, occupando i suoi spazi con la legittimità che gli dà lo Stato.

Il conflitto portato dallo Stato, quindi, è materiale e simbolico (perché si tratta di un conflitto simbolico molto forte quando uno Stato chiama il suo bachillerato popular Che Gevara o Evita) e cerca di evitare il radicamento delle organizzazioni di movimento recuperandone proprio la creatività (con creatività delle lotte intendo i bachilleratos populares, gli orti, le mense, le imprese produttive) e cambiandole di segno. Ovviamente tale disputa non avrebbe potuto ricevere legittimità durante uno stato conservatore e destrorso come quello di Menem, mentre è più che possibile per questi governi progressisti, e c’è da aggiungere che questa stessa logica trasposta in altri stati si risolve in uno scontro tremendamente feroce. In Colombia, per esempio, nei territori dei Nasa [popolo indigeno della Colombia sud occidentale, ndC] lo Stato crea movimenti e li impone a sangue e fuoco. Così pure in Messico quando questo febbraio in Chiapas, nel Caracol Zapatista de La Realidad, lo Stato ha utilizzato i membri della CIOAC, un’organizzazione storica dei contadini Tojolabal della regione, per sgomberare in forma armata gli zapatisti dalle loro terre, uccidendo Galeano, uno dei votan dell’Escuelita Zapatista.

Per questo io parlo di “controinsurrezione”, perché è una politica contro-insorgente portata avanti con modalità diverse dai governi conservatori e da quelli progressisti. E questa è la situazione in cui siamo immersi ora: si tratta di una disputa tremenda, che se all’inizio forse non è violenta, può però arrivare ad esserlo e anche in maniere brutali. E’ una disputa politica, simbolica, culturale che cerca di sradicare la nuova generazione di organizzazioni popolari.

Secondo te esiste una relazione tra l’organizzazione delle politiche sociali e il modello economico estrattivo degli stati latinoamericani e la conseguente accumulazione di capitale che queste generano?

Per rispondere a questa domanda mi è necessario introdurre la questione del Welfare e dello Stato benefattore in America Latina, dove fino agli anni 70, e penso all’Argentina, al Messico, all’Uruguay e al Cile, ci fu un processo che, sebbene distinto dal Welfare europeo, aveva molte caratteristiche in comune con esso. In Argentina, per esempio, lo Stato copriva alcune necessità della riproduzione (salute, educazione, casa) e c’era un’offerta di “impieghi degni” che, per quanto suoni contraddittorio, significa semplicemente che il mercato forniva una serie di possibilità. Si trattava, per gli uomini, di un lavoro qualificato, per esempio nel porto o nell’edilizia, per il quale era previsto un periodo di apprendimento, mentre per le donne della possibilità di lavorare in fabbrica o in casa, se il marito aveva uno stipendio e, di conseguenza i figli potevano andare all’Università, ossia avere quella che io chiamo una “disoccupazione ascendente”. Tutto questo, in America Latina, si rompe negli anni Settanta quando i giovani entrano in una “disoccupazione discendente”, cosa che spesso ha esiti pesanti: che i figli non possano ripetere il percorso dei genitori conduce, non di rado, alla delinquenza, o alla droga (si pensi al consumo diffuso di crack). Immagina che le tre quattro generazioni anteriori alla tua, quella dei genitori, quella dei nonni, abbiano mostrato delle tappe per il tuo sviluppo e che a partire da un certo momento tutto questo si spezzi, all’improvviso; psichicamente e affettivamente è un colpo molto forte.

Quindi lo Stato che, nei paesi sopra menzionati, era in larga misura promotore di una produzione fabbrile si trasforma e abilita, in un periodo in cui l’accumulazione è fondamentalmente finanziaria, a un modello che non è più quello industriale ma, come direbbe David Harvey, di “accumulazione per spossessamento” (o “espropriazione”), tramite furto. Il che significa miniere, significa piantagioni intensive di soia. E al di là del dibattito che è in corso oggi in Argentina sulle tasse alle esportazioni di soia, l’incasso statale garantito dall’estrattivismo, negli ultimi vent’anni, è sempre stato esiguo perché le miniere pagano tasse molto basse (del 3 o 4%) e la soia poco di più. Ad ogni modo in America Latina non c’è più un Welfare State perché il modello estrattivo implica che il funzionamento dell’economia lasci risorse molto basse allo Stato, certamente a causa delle basse tassazioni, ma soprattutto poiché non genera un processo produttivo, ed è questo che mi interessa rimarcare. Prendiamo l’esempio classico del funzionamento economico-produttivo durante lo Stato del Welfare, la Fiat: da una parte della catena migliaia di lavoratori che producono automobili, con tutta una serie di industrie che lavoravano per la Fiat, e dall’altra, migliaia di famiglie che consumano, tra le altre cose, quello che producono e che mandano i figlia a scuola, a curarsi all’ospedale. C’era tutta una socializzazione attorno alla fabbrica. Nel modello estrattivo tutto questo cambia. La miniera funziona come le piattaforme petrolifere: ci sono pochissimi lavoratori perché è quasi tutto automatizzato, le autovetture, in molte miniere, non hanno conducente. Lo stesso vale per le piantagioni intensive di soia dove c’è meno lavoro che nell’allevamento estensivo, considerato una delle attività produttive peggiori. Così accade anche dall’altro lato della catena produttiva, quello del consumo: com’è facile immaginare, nessuno consuma ferro, oro o soia. Tutto è finalizzato all’esportazione di materiale grezzo non processato: in Argentina si processa, talvolta, la soia in olio, mentre in Uruguay non si lavora nulla e così anche in Brasile.

Quindi accade che tutto il complesso produttivo che cresce attorno alla fabbrica, intesa come sistema di socializzazione, riproduttore di relazioni sociali e generatore di consumi, scompare con l’estrattivismo. Il deserto generato da questo modello economico, il fatto che lasci milioni di persone in una condizione di forte vulnerabilità, genera due processi distinti. Da una parte, di fronte a uno Stato che smette di essere protettore, le famiglie e i collettivi si organizzano per supplire a questa mancanza (per questo la prima cosa che fa un gruppo piquetero o, in generale, un gruppo sociale, è un comedor popular o una panaderia popular). Dall’altra fa sì che lo Stato pianifichi nuovi programmi di “politiche sociali” e faccia fronte a problematiche diverse da quelle generate dall’economia welfaristica come, per esempio, la garanzia dei diritti sociali. Nel Welfare, vediamo infatti che dall’operaio più qualificato (includendo l’amministrazione), fino a quello più semplice e finanche alla donna di casa, si curavano nello stesso ospedale perché tutti, in qualche modo, avevano lo stesso diritto (evidentemente Agnelli non andava nello stesso ospedale dei suoi impiegati, però si trattava di una élite abbastanza ristretta). Mentre oggi tutto questo si frammenta: esiste una salute, sempre dentro al sistema pubblico, di prima qualità, una di seconda, di terza. L’ospedale o la scuola del quartiere popolare sono orribili a differenza di quelli situati in altre zone più ricche, per esmpio di Buenos Aires, come i quartieri di Cabaillito, Belgrano, Palermo. Quindi oggi lo Stato non è preoccupato di garantire il diritto alla salute o a un’istruzione di qualità, bensì ad organizzare giusto la copertura di una scuola con due aule, dove le persone vanno perché vien dato loro da mangiare, non vanno lì per apprendere.

Dico tutto questo per rispondere alla domanda, per dire cioè che la politica sociale e l’economia estrattiva sono due facce dello stesso modello che ha distrutto la socializzazione nei settori popolari e le aspettative di dignità, di autostima, di crescita personale e familiare di lavoratori e lavoratrici. Ci sono generazioni intere, per esempio nella Matanza, nel Conurbano Sur, in Avellaneda (per rimanere nella zona metropolitana di Buenos Aires), che non hanno futuro: a un ragazzino di 12 o 15 anni a cui si dica “vai a studiare per poter, in futuro, …” si mente. Non ha possibilità di un lavoro degno in futuro; al limite potrà lavorare in un call-center o in un fast-food, guadagnando nulla. In Europa tutto questo già succede.

Dai tuoi libri si evince che tali politiche sociali nacquero in America Latina parallelamente e in risposta alla nascita di una nuova generazione di movimenti e lotte sociali. In particolare parli della nascita di un nuovo soggetto politico, i “senza” (senza tetto, senza terra, senza lavoro), che si distingue da quello tradizionalmente inteso, il soggetto operaio connotato dalla sua posizione all’interno del processo di produzione industriale. Inoltre sostieni che le lotte dei “senza” sono state portatrici e creatrici di una nuova cultura politica profondamente trasformatrice del modo di pensare il cambio sociale. Potresti approfondire quest’ultima tesi? Quali sono i cambiamenti rispetto alla precedente tradizione rivoluzionaria?

Quello che accade dagli anni ’70 è una trasformazione radicale nel sistema capitalista. Fino a quegli anni il marxismo era egemonico a sinistra perché rappresentava quello che stava succedendo, ponendo le radici in un pensiero gradualista ed evoluzionista. Non sto dicendo che Marx lo fosse, però sicuramente il marxismo sì, e si tratta di un marxismo eurocentrico, illuminista, che parla di un progresso lineare, conforme all’epoca in cui nacque. Ed è in questo quadro che si formò la teoria della rivoluzione e la classe operaia come soggetto rivoluzionario. Ricordo che negli anni ’70 pensavo che in fondo eravamo già un terzo dell’umanità: Russia, Cina, Vietnam. Non avremmo mai immaginato che questa avanzata avrebbe potuto interrompersi. In questo senso l’idea della rivoluzione era un’idea per niente rivoluzionaria: era l’idea dell’esistenza di un cammino di cui la rivoluzione era un proseguimento, non un cambiamento. La rivoluzione invece è un’altra cosa, è la trasformazione dei percorsi già tracciati.

Negli anni ’60 e ’70 emersero tre cose fondamentali: per prima cosa fu chiaro che il soggetto che si considerava soggetto con la esse maiuscola annullava altri processi di soggettivazione (quello delle donne, dei giovani, dei neri, degli indios, degli asiatici, dei meticci, di quelli insomma che non rientravano in quella definizione), finendo con l’essere soggetto oppressivo per la maggior parte dell’umanità. La seconda consisteva nel rintracciare nei marxismi delle posture che misconoscevano le rivoluzioni dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, dagli anni 40 in avanti, e dei soggetti non-bianchi (la rivoluzione cinese, vietnamita, quelle africane e anche alcuni casi dell’America Latina). Rispetto a queste il marxismo non sapeva cosa dire. Persino la rivoluzione cinese, in un certo qual modo antistalinista: non perché non sia effettivamente stalinista, ma perché pone in questione il paradigma sovietico. Mao è il primo che criticò tale paradigma non perché sia un genio, ma semplicemente perché si trovava in un luogo dove la teoria marxista non funzionava, non diceva molto. E infine si palesò la risposta repressiva della classe dominante che si armò per frenare e distruggere il potere che la classe operaia e i settori popolari seppero conquistarsi bloccando la continuità dell’accumulazione di capitale. Il caso italiano, del terrorismo di stato, ne è un esempio, ma altrettanto lo sono gli Usa, dove giocarono una carta importante il movimento per i diritti civili, quello femminista, quello contro la guerra del Vietnam e il movimento dei neri. In quel periodo non c’erano semplici manifestazioni, ma qualcosa che era più vicino a una guerra. La forma con cui la destra, l’FBI e la CIA disarticolarono il Black Power è una forma oggi utilizzata in tutto il mondo, che non ha niente da invidiare a nessuna guerra in America Latina. Si produsse una sorta di “rivoluzione” all’interno del capitalismo stesso. La classe borghese statunitense e inglese decise di smettere di integrare questa gente, il proletariato. Perché dargli una stanza, un letto e un lavoro se poi ci tradisce?

Così si produssero grandi trasformazioni per cui il capitalismo la fece finita con la fabbrica, con i diritti, con il Welfare e cominciò ad accumulare soprattutto nel settore finanziario. Quindi la teoria e la pratica della rivoluzione che funzionarono fino ad allora, con le organizzazioni che nacquero ai quei tempi, tempi di presunto “progresso”, devono essere riviste ai nostri giorni, un periodo che possiamo dire “neocoloniale”. Oggi appaiono nuove forme di organizzazione e di lotta, con un’altra cultura politica e che si mostrano in forme eterogenee, non pure. In America Latina nascono fondamentalmente movimenti in cui il territorio è l’elemento fondamentale, laddove il territorio implica famiglie, donne e bambini. La dinamica che li caratterizza spezza il legame di dipendenza rivendicativa con lo Stato: non ci si aspetta né si spera più che qualcosa cali dall’alto; bisogna fare, bisogna risolvere problemi. Se lo Stato fa fronte a quello dell’alimentazione, bene. Se no, si costruiscono ollas populares e comedores [mense e cucine popolari ndC] , di cui esiste una lunga tradizione. Per quanto riguarda invece il problema dell’educazione e della salute si fa sempre più urgente oggi la necessità, credo persino in Europa, di un’autoformazione distinta dalla formazione universitaria, un’altra formazione o una contro formazione.

In America Latina sono presenti quattro correnti politiche e culturali di resistenza e antagonismo: quella dell’educazione popolare di Paulo Freire (utilizzata oramai da tutti i movimenti), quella della teologia della liberazione e della pratica delle comunità ecclesiastiche di base (fondamentali nella formazione dei nuovi movimenti delle villas miserias di Buenos Aires o nel movimento dei sem terra brasiliani), quella che abbraccia le cosmovisioni indigene e che potremmo pensare come un’altra filosofia, un’altra politica, un’altra forma di vedere il mondo e che offre un’alternativa alla crisi della civilizzazione occidentale. A proposito di questo, desidero aprire una parentesi: Wallerstein e Anouar Abdel-Malek, sociologo egiziano, affermano che ci sono molte culture ma due civilizzazioni, quella orientale (la indoaria, la cinese) e quella occidentale. La particolarità delle cosmovisioni indigene è che appartengono alla civilizzazione orientale che, nonostante tutto, dopo cinque secoli si è mantenuta: se si guarda a queste cosmovisioni sono più confuciane che illuministe. Si tratta infatti di un’altra relazione con la “natura”, la mancanza della relazione soggetto-oggetto, l’esistenza anzi di una pluralità di soggetti, tutte cose di cui parla Carlos Lenkendorf, un filosofo che visse vent’anni nelle comunità tojolabal in Messico. E l’America Latina è l’unico posto del mondo dove queste due civilizzazioni hanno convissuto per cinque secoli e, sebbene in maniera gerarchica e brutale, sono arrivate ovviamente a permearsi. E, infine, la quarta corrente è quella guevarista ed ha a che fare con il vincolo che i militanti creano (spesso militanti giovani, studenti e studentesse universitarie) con i settori popolari. Queste quattro correnti hanno contribuito e stanno contribuendo alla costruzione di una nuova cultura politica e, tra tutti i movimenti attuali, credo che lo Zapatismo sia davvero l’esperienza che rompe di più col vecchio modo di pensare e agire la politica.

Inoltre, per concludere la risposta alla tua domanda, penso si sia verificato un ulteriore spostamento rispetto alla tradizione politica marxista ortodossa che è anche effetto di una riconfigurazione dei modi di produzione del capitalismo in America Latina. Questo concerne la perdita di centralità (nelle analisi e nei fatti) del lavoro industriale come spazio di soggettivazione, l’emergere di una forte eterogeneità nelle attività lavorative e di conseguenza una grande trasformazione della nozione tradizionale di “classe” e del suo uso politico: credo che sebbene certamente esistano le classi e i rapporti di classe, il concetto di classe non sia sufficiente per analizzare tutto. La classe stessa è eterogenea al suo interno.

In America Latina la maggior parte dei lavoratori sono informali. Prendendo l’esempio del Messico: mentre un’infima minoranza della popolazione lavora in fabbrica, più della metà delle persone ha un lavoro informale nei mercati e in modi di produzione semi-industriali o artigianali. Qui stanno tutte quelle persone che Gustavo Esteva chiama tradifas (trabajadores directos de la fabrica social), coloro che producono per lo scambio, senza accumulazione. Le fabbriche in America Latina sono una minoranza, incluso in Brasile. C’è molto lavoro precario, a tempo parziale, lavoro semi-gratuito e schiavistico, e c’è tutta un’economia a cui l’economia politica non guarda. Ci sono una quantità di attività che non vengono menzionate dalle analisi economiche e che però rientrano indubbiamente nelle attività lavorative. Quindi anche la nozione di “lavoro” deve essere disarticolata, scossa, aperta. Ci sono molte categorie, tipo quella di lavoro alienato o di feticismo, che mi chiedo se possano essere applicate a lavori che non siano di tipo industriale. C’è infatti da rendersi conto di una complessità enorme che oggi caratterizza il mondo delle attività lavorative: esistono economie familiari, per esempio nei quartieri popolari o nelle comunità zapatiste. Qui la famiglia produce tutto quello di cui necessita e compra solamente alcune cose, il sapone, l’olio, i quaderni per la scuola. E questo ovviamente non è capitalismo, Braudel per esempio lo chiamerebbe economia di mercato. Quello che voglio dire è che non si possono applicare le categorie economiche classiche a questi luoghi, se lo facessimo, non intenderemmo la complessità della realtà.

Hai parlato, in questa tua risposta, delle cosmovisioni indigene, indicandole come generatrici di un’altra politica e di un’altra filosofia. Puoi spiegarci in che senso la pratica e il pensiero indigeno mettono in discussione i presupposti della cultura occidentale?

Devo dire prima di tutto, che la cultura occidentale, con la sua maniera di costruire conoscenza, si basa sul dualismo di corpo/ragione, soggetto/oggetto, natura/cultura, mentre quella indigena parte da un’elaborazione di pensiero che si fa attraverso il corpo: lavorando, danzando, cantando, in una forma molto più integrale, in cui non esiste uno spazio-tempo specifico della produzione di sapere, non esistono aule universitarie. Nelle comunità si produce conoscenza tutti i giorni, a tutte le ore, a partire dalle interazioni tra gli esseri umani e la natura, tramite il lavoro e non solo, ed è per questo che il loro pensiero non è gerarchico. La filosofia occidentale si basa sul terzo escluso e sull’idea di sintesi, mentre nelle culture indigene, e orientali, questo non esiste. A livello della lotta rivoluzionaria, così nelle tradizioni indigene come in tutte le tradizioni dell’umanità, ci sono due figure che mi interessa richiamare: la prima è quella del guerriero, l’unico che è subordinato alla comunità e che non si autonomizza da essa. Pierre Clastres, antropologo francese che faceva ricerca di campo nelle comunità indigene con cui aveva vissuto, lavorò molto sul ruolo del guerriero, del caudillo, dirigente delle comunità, e affermava che tutta l’energia della comunità è rivolta a far sì che il guerriero non si renda autonomo. In certi momenti c’è bisogno di accudire il guerriero, perché è in corso una guerra o ha luogo un’aggressione, però lui non comanda: gli si affida il bastone del comando e in caso di pericolo (vedi per esempio il recente caso dell’auto-destituzione del Subcomandante Marcos) lo restituisce alla comunità. Un’altra figura importante è la divinità femminile, colei che provvede, che dà i frutti, quella che si chiama Pachamama nelle culture indie dell’America Latina. La presenza della Pachamama la si ritrova ovunque, nella quotidianità; per esempio andando all’Escuelita Zapatista ci si rende conto che gli spazi più importanti sono quello della cucina, della milpa [campo coltivato di mais ndC], della salute, quelli che nel nostro linguaggio chiameremmo gli “spazi della riproduzione”. Per il marxismo la produzione s’impone sulla riproduzione, mentre nelle culture originarie la riproduzione gioca un ruolo fondamentale.

Ma più in generale la cultura indigena ci insegna a vedere le trasformazioni sociali in una maniera differente, per cui ciò che cambia il mondo non è tanto la lotta, ma la creatività umana. O meglio, la lotta serve per cambiare il mondo, la creatività per crearne un altro, e questo è femminile, pachamamico. Mi spiego meglio perché c’è il rischio di essere frainteso: non è che la lotta non serva, abbiamo bisogno di difenderci dalle aggressioni, recuperare la terra da coloro che l’han rubata, o la fabbrica. Lì certamente è necessaria una lotta. Tuttavia non sarà questa a inventare un nuovo mondo. Dovremmo tornare a Nietzsche, che ci insegna dell’esistenza di due forme di lotta: quella per i valori esistenti e quella per la creazione di valori nuovi. Lottare per i valori esistenti è una forma di lotta negativa. Quella della riappropriazione dei mezzi di produzione è una piccola parte del discorso e per questo mi permetto di far subentrare, qui, Franz Fanon che nel suo ultimo lavoro disse che la storia comincia (e non finisce) quando il colonizzato recupera i mezzi di produzione e del cambiamento. Il problema che coinvolge il colonizzato è che ha interiorizzato il suo colore, la sua razza, le sue tradizioni, l’esser donna, come dati d’inferiorità. E quindi, come risolvere l’inferiorizzazione? Gli zapatisti hanno risposto creando qualcosa di veramente nuovo, le giunte di Buon Governo, l’organizzazione in Caracoles, un ripensamento totale della democrazia che si basa sulla continua rotazione del potere e non sulle elezioni presidenziali. Credo che chiunque oggi voglia impegnarsi per lottare per qualcosa di nuovo non possa non guardare a queste pratiche, a quelle zapatiste così come a quelle di tante altre comunità indigene dell’America Latina.

Giustamente ci parli di contesti specifici, come quello del Chiapas zapatista dove è stata possibile la costruzione dell’autogoverno a partire, tra l’altro, dalla riappropriazione dei mezzi di produzione, delle terre, contesti che però son ben lontani dagli spazi urbani che noi attraversiamo, che viviamo quotidianamente e in cui cerchiamo di organizzare comunità antagoniste e alternative. Secondo te come possiamo immaginare pratiche autonome nelle metropoli? Quali indicazioni daresti riguardo a situazioni in cui, come suggerivi tu, la capacità di costruire territorio è molto più evanescente e difficilmente realizzabile?

Credo si debba prima di tutto parlare di due temporalità diverse: una di lungo termine e un’altra di breve termine. A breve termine, quello che i movimenti han fatto in questi ultimi anni è stato di riappropriarsi di parte dello spazio urbano, aver costruito cliniche di salute autogestite, spazi educativi, mense popolari in cui gran parte del cibo è stato conquistato con l’unico mezzo possibile, quello dei blocchi stradali. A lungo termine, invece, si tratta di discutere sulla sostenibilità di queste metropoli, sto pensando ad un tempo di 200 anni, 300 anni. Per esempio a Buenos Aires, se con il cambio climatico il mare cresce di un metro, in cento anni, sarà inondata. E questo è parte dell’immaginario: ci sono film che parlano di una Buenos Aires inondata, come quello di Pino Solanas. Oggi quindi risulta chiaro che la città non sia più un fatto sostenibile e i movimenti devono tener conto di questo e inventarsi delle strategie di risposta. In certi luoghi, per esempio, si è arrivati a stabilire alleanze con i produttori rurali e delle periferie. Penso a Buenos Aires dove oggi il grosso degli alimenti che si consumano, patate, cipolle, carote, ortaggi e verdure in generale, le coltivano e le vendono i boliviani. Quelli delle villas potrebbero allearsi con i boliviani che tra l’altro sono gli stessi abitanti delle villas, immigrati dalla Bolivia, dal Paraguay, dal nord dell’Argentina e che non si sono dimenticati del mondo che hanno lasciato, del lavoro nei campi. È interessante osservare questo fenomeno dove i più poveri sono sì i più attivi politicamente e socialmente, ma sono anche quelli che procurano gli alimenti.

Tutto questo per dire che i movimenti sociali non possono non porsi il problema di un ripensamento della questione urbana, soprattutto in periodi climatici come quello in cui ci troviamo oggi. A città del Messico, per esempio, ci son 23 milioni di abitanti, 4 o 5 volte quelli di Roma, e l’acqua arriva da 200 km perché si sono seccate tutte le falde vicine. Questo significa che se dovesse verificarsi un terremoto o qualcos’altro si potrebbe assistere a un collasso idrico: 23 milioni di persone a cui domani potrebbe mancar l’acqua. Senza luce si può vivere, ma senz’acqua neanche un giorno. L’acqua è inquinata ovunque ormai, qui in Uruguay è contaminata dagli agro-tossici. Quindi anche su questo problema, che non è sconnesso da quello dell’urbanizzazione e dalla contaminazione che porta con sé, devono riflettere i movimenti, non solo pensare ai problemi dell’immediato.

Se si vuole pensare ad una società nuova, la si deve pensare in termini di secoli, immaginare come ti piacerebbe che fosse. Gli zapatisti, per esempio, avrebbero potuto adeguarsi alla medicina occidentale e invece hanno deciso di trasmettere il sapere delle levatrici, delle osteopata, con cure a base di erbe medicinali. Si trattava di saperi che ormai si stavano perdendo perché rimanevano nelle pratiche di poche anziane. Si è trattato di uno sforzo di molti anni, però ora ci sono centinaia di guaritori e guaritrici: in ogni comunità perlomeno ce n’è una.

Per questo parlo di temporalità a lungo termine, perché il socialismo, il mondo nuovo, si costruisce lentamente e ci costringe a vedere un po’ più in là del giorno di domani. Come nella lotta contro il patriarcato: non si tratta di prendere il potere, né di rivendicare una legge, ma di fare un lavoro costante su qualcosa che ci attraversa tutti, profondamente. Questa è la mia idea di ciò che può significare pensare nel futuro: pensare in maniera differente, a lungo termine, proprio quando il capitalismo ci ha costretti a pensare giorno per giorno.

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