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20 novembre 2014

Egitto: si fa ancora poco contro le mutilazioni genitali femminili
di Sonia Grieco

È atteso per oggi il verdetto per la morte della 13enne Sohair el-Batea, deceduta durante un intervento di mutilazione genitale. Il medico che l’ha operata, nonostante il divieto di questa pratica nel Paese, rischia due anni. Per gli attivisti una sentenza di colpevolezza potrebbe scoraggiare altri dottori

Roma, 20 novembre 2014, Nena News

Per la prima volta in Egitto un medico è finito alla sbarra per avere eseguito una mutilazione genitale su una bambina di 13 anni, morta durante l’intervento. Un caso giudiziario che ha riportato all’attenzione degli egiziani l’annosa questione delle mutilazioni genitali femminili, che continuano a essere ampiamente praticate nel Paese, nonostante siano vietate dal 2008 e pure le autorità religiose ne abbiano riconosciuto la pericolosità.

Oggi è atteso il verdetto per il medico Raslan Fadl che rischia due anni di carcere per la morte, l’anno scorso, della 13enne Sohair el-Batea. Una sentenza dalla portata storica, per le organizzazioni per la tutela dei diritti umani che ritengono che una condanna del dottore potrebbe scoraggiare questa pratica a cui, secondo i dati (2008), sono state sottoposte il 91 per cento delle donne egiziane tra i 15 e i 49 anni. Uno dei tassi più alti al mondo.

Le mutilazioni genitali femminili sono praticate in 29 Paesi dell’Africa occidentale e orientale, in Egitto, in Yemen e in parte dell’Iraq, dove adesso la presenza del cosiddetto Stato islamico rischia di determinarne un aumento. La religione ha poco a che fare con questo intervento di asportazione di parte degli organi genitali femminili (è diffusa anche tra i cristiani), legato a una tradizione di controllo sociale della donna. In Egitto la chiamano “purificazione”, perché una donna “tagliata” viene “salvaguardata” dalle inquietudini del desiderio sessuale, avrà più possibilità di trovare marito, resterà pura fino al matrimonio e poi non tradirà. Così il ruolo della pressione sociale resta determinante per la diffusione di questo intervento che si esegue di solito quando la donna è poco più di una bambina, con conseguenze fisiche e psicologiche talvolta devastanti.

E anche nel caso della morte di Sohair el-Batea non è stato semplice arrivare a un processo. Nonostante il divieto, è la prima volta in Egitto che un caso simile è portato davanti a un giudice e sono state le organizzazioni per i diritti umani a premere affinché il medico fosse perseguito assieme al padre della ragazzina. La famiglia, infatti, aveva ritirato la denuncia. Le voci raccolte dall’Associated Press nel villaggio di Dierb Biqtaris, dove sono accaduti i fatti, raccontano di una comunità che per lo più ha giudicato la morte della 13enne una disgrazia. Lo studio del dottore Raslan Fadl, che non ha mai smesso di praticare ed è definito da tanti un “apprezzato professionista”, ha continuato a essere frequentato da pazienti.

Per Philippe Duamelle, di Unicef Egitto, il caso è un’opportunità per prendere finalmente sul serio la questione. C’è un leggero decremento della pratica, soprattutto tra le ragazze tra i 15 e i 17 anni, ma il cambiamento è lento e necessità di un’azione sulla mentalità delle persone. Manal Fawzy, a capo di un’organizzazione per la tutela dei minori attiva nella provincia di Assiut, lavora su questo aspetto della questione, cercando di persuadere le famiglie della pericolosità della mutilazione genitale femminile. Parlare apertamente di queste cose non è affatto semplice, ha spiegato la signora Fawzy, ma quando le famiglie si convincono a non far fare l’intervento alle proprie figlie e ne parlano con parenti e amici, si rompe un tabù. È un lavoro che ha bisogno di molto tempo per essere efficace. “Modificare una consuetudine è difficile”, ha detto ancora Fawzy all’AP, e una “pena severa” per il medico potrebbe dare una mano. Nena News

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