L'Huffington Post
03/10/2014

Maisa Saleh: "50 donne in una cella. Così si muore nelle carceri di Assad". Intervista alla reporter premio Politovskaja
di Umberto De Giovannangeli

Lo ripete più volte, con convinzione. Con la voce incrinata dalla commozione al ricordo degli eroi di una Rivoluzione giusta”. Quella di cui lei è divenuta un simbolo. La rivoluzione siriana. Una giovane infermiera diventata una giornalista coraggiosa, che ha sfidato il carcere, la tortura, e oggi l’esilio. Il suo nome è Maisa Saleh, 31 anni.

A lei, nella prima giornata del Festival d’Internazionale a Ferrara, è stato assegnato il Premio giornalistico Anna Politovskaja. Per sette mesi, racconta, ha vissuto in un girone infernale delle prigioni del regime: in una cella angusta, condivisa con altre cinquanta donne, senza potersi muovere, senza servizi igienici. “Alcune – dice all’Huffington Post – non hanno resistito a quelle condizioni disumane. Sono morte sotto i miei occhi”.

I suoi occhi hanno visto donne stuprate dagli sgherri di Bashar al-Assad, madri a cui venivano sottratti i propri figli. “Oggi – sottolinea Maisa Saleh – il mondo ha deciso di intervenire nel mio Paese per combattere i miliziani dell’Isis. Ma cosa ha fatto per arrestare la mano di un dittatore che ha ridotto la Siria a un cumulo di macerie, che ha ridotto il popolo siriano in un popolo di sfollati? La nostra era una rivoluzione giusta, democratica. Chiedevamo diritti e libertà. Nessuno ci ha ascoltato. Sì, la nostra è una rivoluzione tradita”. Ma, aggiunge con orgoglio, “non è una rivoluzione finita: né Assad né al-Baghdadi riusciranno a spezzare il nostro sogno di libertà”.

Nonostante il clan Assad, nonostante i tagliagole del Califfato islamico. “Il regime – afferma – ha paura della verità e di chiunque prova a raccontarla. Per questo i giornalisti sono stati sin dal primo giorno nel mirino del regime. Perché erano testimoni scomodi, da eliminare. In due anni ne sono stati uccisi quasi duecento. Ma tanti attivisti si sono trasformati in operatori dell’informazione. E molti hanno perso la vita per questo”.

Cosa significa essere giornalista tra le macerie siriane?

"Significa rischiare ogni giorno la vita. Perché il regime di Assad come i fanatici estremisti dell’Isis, hanno paura di chi prova a raccontare la verità. A documentare gli orrori che si consumano giorno dopo giorno nel mio Paese. Il popolo siriano è oggi doppiamente ostaggio: di un dittatore senza scrupoli e di un 'Califfo' che vorrebbe instaurare un regime terrificante. Voglio sottolinearlo con forza: per noi il pericolo dell’Isis è equivalente a quello del regime di Assad”.

Lei, prima da infermiera e poi da giornalista ha vissuto sin dal primo giorno la rivolta contro Bashar al-Asad. Cosa vi ha spinti a sfidare l’esercito e le milizie del regime?

"Un sogno. Il sogno di fare della Siria un Paese con meno prigioni e più scuole. La nostra era una rivoluzione giusta: ci battevamo per realizzare una società più giusta, per l’affermazione di diritti universali, e tra essi il diritto a una informazione libera, non asservita al regime. Questa era la nostra colpa agli occhi del tiranno. Che sin dal primo giorno ha cercato di infangare la nostra rivoluzione, presentandola al mondo come la rivolta di pericolosi estremisti, terroristi, jihadisti. E c’è chi gli ha prestato ascolto!

In questa lotta per la libertà le donne sono sempre state in prima fila, pagando un prezzo altissimo. Sì, noi donne facevamo paura al regime. Per il coraggio dimostrato, manifestando a volte anche lì dove gli uomini non avevano il coraggio di arrivare. Facevamo e facciamo paura per la nostra determinazione e concretezza. Per questo si accaniscono contro di noi: gli scherani di Assad come i tagliagole di al-Baghdadi”.

Come definire Bashar al-Assad?

"Dopo poco più di tre anni di guerra, la Siria conta 200mila morti, 2 milioni di persone incarcerate, 11 milioni di sfollati, 100mila dispersi. Criminale di guerra e contro l’umanità: non c’è altra definizione per Bashar al-Assad”.

Lei è stata incarcerata per 7 mesi. Cosa ricorda di quell’esperienza?

"Tutto, Ogni momento. Una sofferenza continua. Gli interrogatori interminabili, le percosse. Ho visto donne picchiate fino a quando la loro pelle diventava blu per le percosse subite. Donne appese in modo tale che i loro piedi non toccassero terra. Ho visto donne partorire in carcere in condizioni sanitarie terribili e vedersi sottrarre i loro bambini. Questa è la Siria di Bashar. E prima della rivoluzione, la Siria di suo padre, Hafez, era il “regno del silenzio”, dove l’ordine era mantenuto attraverso massacri immani. Di città rase al suolo. Come fu Hama, nel 1982: 40mila morti. E il divieto di parlarne”.

Cosa è per lei, simbolo di quella “rivoluzione giusta”, l’Isis?

"Sono dei nemici del popolo siriano. Ma la maggioranza di loro non sono siriani, vengono da altri Paesi, anche dall’Europa. Perché non sono stati fermati? Alcuni Paesi li hanno anche sostenuti, finanziati, armati. Dov’era l’Onu, dov’erano gli Stati Uniti…”.

Dov’era Barack Obama? E chi è per lei oggi il presidente Usa?

"I discorsi del presidente americano erano una illusione, come quelli di tanti leader mondiali quando affermavano di sostenere la nostra rivoluzione democratica. Invece non hanno fatto nulla per ascoltare e sostenere la voce dei tanti che chiedevano libertà e giustizia. Obama aveva sostenuto che l’uso delle armi chimiche contro la popolazione civile da parte di Assad era una 'red line' insuperabile. Invece ha stretto un patto col dittatore che continua la sua guerra al popolo. Impunemente”.

Qual è il suo futuro?

"Amo il mio lavoro e continuerò a farlo. Lo devo agli attivisti eroi che hanno sacrificato la loro vita per la libertà. Lo devo a mia sorella incarcerata da mesi e di cui non abbiamo più notizie. In tanti, in questi giorni, mi hanno detto: perché non chiedi lo status di rifugiata, perché non accetti l’asilo politico in Europa? No, grazie. La rivoluzione non è finita. Ha bisogno di persone che raccontino la sofferenza di un popolo. Il popolo siriano”.

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