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28 ottobre 2014

La lotta di Mariam e i diritti delle donne afghane
di Natalia Benedetti

«Mariam non è il mio vero nome» mi rivela la donna afghana che ho di fronte, il suo volto rimane impassibile. La incontro a Bologna, ad una conferenza organizzata da CISDA, Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, si presenta come portavoce di RAWA: Revolutionary Association of the Women of Afghanistan. Un’identità fittizia, il viso nascosto durante le interviste, sono soltanto alcune delle precauzioni necessarie per poter sopravvivere in Afghanistan se si lavora per un’organizzazione politica che si pone l’obiettivo di tutelare i diritti delle donne, soprattutto se tu stessa sei una di loro.

RAWA viene fondata nel 1977 da un gruppo di studentesse afghane. L’idea rivoluzionaria di creare un’associazione politica indipendente che promuova l’emancipazione femminile, ne tuteli i diritti e la partecipazione alle attività socio-culturali nasce dalla presa di coscienza che un cambiamento così rivoluzionario possa compiersi soltanto attraverso l’accesso libero all’istruzione. La fondatrice Meena viene assassinata nel 1987 a Quetta, in Pakistan, e RAWA non ha mai potuto aprire una sede ufficiale in Afghanistan a causa delle intimidazioni di alcuni gruppi della popolazione e delle pressioni del governo che giudica i suoi valori troppo radicali e occidentali. Si sviluppa un movimento che opera underground: una rete nascosta di volontarie e volontari sparsi in tutto il territorio che lavorano soprattutto attraverso il web e vivono grazie a finanziamenti privati e al supporto di alcune associazioni internazionali. Circa 2000 persone raccolgono testimonianze, stilano rapporti contenenti denuncie di violenze subite dalle donne afghane (stupri, matrimoni forzati, rapimenti) e conducono progetti educativi non ufficiali che si sviluppano porta a porta, soprattutto in Pakistan.

L’attività dell’associazione prosegue ininterrottamente: durante l’invasione sovietica, nel 1979, la guerra civile degli anni ‘90, l’arrivo delle truppe americane e della NATO che combattono il terrorismo ed il regime dei talebani. É continuata durante la presidenza di Hamid Karzai e ancora oggi con l’insediamento del nuovo governo di unità nazionale presieduto da Ashraf Ghani ed affiancato da Abdullah Abdullah come capo esecutivo. La guerra rimane una costante nelle trame della storia afghana più recente e la popolazione assiste impotente al dispiegarsi di forze nazionali ed internazionali che rispondono ad interessi politici lontani dalla loro portata, con la sfiducia che cresce nei confronti delle istituzioni e degli uomini che si alternano al potere. Mariam risponde pacatamente alle mie domande, dalle sue parole traspare una forza d’animo rara, appare desiderosa di raccontare.

Le violenze commesse nei confronti delle donne restano impunite?
Si, molti casi di stupro e violenza non sono denunciati e non arrivano nemmeno davanti alle corti dei tribunali per non macchiare l’onore delle famiglie. Recentemente c’è stato un episodio di stupro di 4 donne da parte di un gruppo di uomini che ha scatenato una forte reazione da parte della popolazione, 5 uomini sono stati condannati a morte e questo è il primo caso. Il sistema giudiziario è sotto il controllo dei gruppi fondamentalisti e soltanto una piccolissima parte delle vittime denuncia le violenze subite, la maggior parte rimane in silenzio e ci sono moltissimi casi di omicidio d’onore attraverso cui la famiglia si fa giustizia da sola.

RAWA sostiene le attività del partito Hambastagi, partecipando alle sue manifestazioni. Perché questa scelta?
Perché rappresenta un movimento politico laico che crede e promuove valori di democrazia, giustizia, tutela dei diritti umani e inoltre critica l’invasione straniera ed il fondamentalismo. Le sue attività negli ultimi anni sono riuscite a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, anche molte donne afghane che di solito partecipano raramente alle attività politiche e, al momento, conta all’incirca 3000 membri.

Hambastagi ha deciso di non candidarsi alle elezioni nel 2004, nel 2009 ed infine nel 2014. Come ha giustificato questa decisione?

Questa scelta esprime una critica alla corruzione che ha caratterizzato le ultime elezioni: sono state una farsa. Noi non siamo andate a votare, non sarebbe stato utile parteciparvi, ma siamo fiduciosi per il futuro.

Il partito è soggetto a repressioni da parte del governo?

Si, durante la maggior parte delle manifestazioni che vengono organizzate i membri sono arrestati e spesso è messa a rischio la registrazione stessa del partito, ma secondo la Costituzione afghana ogni partito con più di 2000 membri ha diritto di essere legalmente registrato e questo rappresenta una garanzia, oltre al sostegno che ci arriva dalle organizzazioni internazionali.

Uno dei primi atti compiuti dal nuovo governo di unità nazionale è stato la firma di un accordo con gli Stati Uniti, il Bilateral Security Agreement, che rinnova la presenza delle forze armate US e NATO in Afghanistan dopo la fine del mandato della missione ISAF. Cosa ne pensi?

Non ci sono possibilità di ritiro delle truppe NATO e US, con la firma dell’accordo la loro presenza è assicurata almeno per i prossimi 10 anni. Noi come movimento politico crediamo che il primo diritto di una nazione sia quello di avere la propria indipendenza, con l’occupazione sovietica prima, e l’occupazione internazionale in seguito, l’abbiamo persa. Ma noi crediamo che la lotta per l’uguaglianza e per la democrazia dipenda dal fatto che il proprio paese sia più o meno libero, quindi il ritiro delle truppe è una delle nostre principali richieste, senza condizioni.

Non credi che senza la presenza militare internazionale, proprio a causa delle profonde divisioni interne alla popolazione, confermate dalla recente suddivisione di poteri tra Ashraf Ghani, che rappresenta l’etnia tagika, e Abdullah Abdullah, per l’etnia pashtun, potrebbe scoppiare una nuova guerra civile?

Si è probabile, ma questo non giustifica la perdita della nostra indipendenza, anche se la presenza delle forze internazionali può prevenire in qualche modo una guerra civile, è un equilibrio estremamente fragile e fittizio perché non sappiamo quali siano le vere motivazioni politiche che stanno dietro la loro presenza.

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